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Fumata nera per i diritti

file0001226333480Sulle rive dello Ionio c’è un problema spinoso che si protrae ormai da decenni; è la questione delle acciaierie ILVA di Taranto che hanno prodotto innumerevoli danni al territorio e alla salute e che hanno sempre visto impegnarsi, in battaglie di vario genere, buona parte della popolazione locale. I media quasi mai mettono in risalto quest’ultimo aspetto della storia di Taranto e della sua acciaieria, fonte di reddito e malattie mortali per i suoi abitanti. Chi legga o segua da lontano la questione difficilmente saprà, o avrà potuto cogliere, gli sforzi fatti dalla popolazione, presentataci sempre come soggetto passivo della vicenda, viceversa da sempre impegnata a cercare di ottenere giustizia e sicurezza attorno alla fabbrica, sia per il reddito dei lavoratori e delle loro famiglie, che per la salute dei propri concittadini. Altra faccia della medesima medaglia, quest’ultimo aspetto, in quanto sono sempre, per la maggior parte, i lavoratori e le loro famiglie i soggetti su cui ricadono le nefaste conseguenze del degrado e dell’inquinamento ambientale, altro prodotto, forse meno redditizio, dell’acciaieria proprietà della famiglia Riva.

È anche perché l’intera città ha fatto affidamento, reggendosi economicamente per decenni sui redditi da lavoro prodotti dalla fabbrica e su quelli prodotti dal cosiddetto indotto, che mai in questi anni è stato fatto qualcosa di realmente incisivo per migliorare la situazione, nonostante tutti fossero a conoscenza della pericolosità dei materiali di scarto (polveri di ferro) non adeguatamente smaltiti dai proprietari dell’impianto. Insomma si è trattato e si tratta di una vera e propria minaccia da parte degli industriali: o lavorate a queste condizioni e vivete un ambiente totalmente inquinato oppure la principale fonte di reddito cittadina chiude e vi lascia a secco.

Si è dovuto attendere l’intervento della magistratura, che ha imposto la chiusura della fabbrica una volta “accertato” come lì dentro non venissero rispettate le benché minime regole di sicurezza circa lo smaltimento dei rifiuti industriali, per ottenere l’interesse mediatico e politico, ormai portati ad unità nella politica dei talk show.

Dalla sentenza in poi i media hanno quotidianamente ripreso il caso in questione, affiancandolo alle solite bagarre politiche e trasformandolo spesso in un cinico teatrino del dolore che non manca mai di attrarre pubblico. I microfoni ricercano, da una parte, le “ragioni” della famiglia Riva, tenacemente decisa a difendere il suo “diritto di proprietà” come sempre inteso nella possibilità di disporre delle vite dei lavoratori come meglio si confà ai propri interessi. Quindi per “ridurre i costi” si è subito pronti a tagliare sulla sicurezza, per i lavoratori stessi e, in questo caso come in altri, anche per la salute dei tarantini del quartiere Tamburi che nei pressi della fabbrica ci vivono.
La famiglia Riva, e altri prima di lei, hanno sfruttato questa città come se per questa non vi fosse un domani ricevendo, ovviamente, l’implicita benedizione dei politici conniventi e delle organizzazioni di settore.

Dall’altra parte riceviamo la voce amplificata di un’opposizione abbarbicata su posizioni irrealistiche, composta in buona parte da ecologisti di ferro, paventanti la chiusura immediata degli stabilimenti e la risoluzione delle problematiche economiche e di occupazione attraverso un rilancio immediato di altre attività possibili diverse da quella industriale, la quale troppo a lungo ha effettivamente monopolizzato le vite di buona parte dei tarantini.

I tarantini si ritrovano così nel mezzo, ce li si presenta costretti a scegliere tra salute per tutti, anche per i propri bambini, statisticamente troppo spesso affetti da malattie cancerose incurabili, rispetto ad altre zone d’Italia proprio a causa dei rifiuti tossici prodotti da quella fabbrica, e reddito per le famiglie, quel reddito necessario per vivere, ma per vivere come?

È proprio da questa domanda che ci sentiamo in dovere di dare la nostra visione del problema ILVA, che è poi il problema primario del nostro sistema economico. Finché ci sarà la possibilità per qualcuno di fare profitto sulla produzione del lavoro altrui, finché ci sarà qualcuno che potrà anteporre i propri interessi alla sicurezza nei posti di lavoro e alla salute della popolazione tutta, anche attraverso la noncuranza circa il corretto smaltimento dei rifiuti altamente tossici, non ci potrà mai essere giustizia e mai si potranno realmente evitare situazioni come quella di Taranto.

La risposta non può essere lasciata alle aule dei tribunali; lì si può decidere, al massimo, sulla base del diritto vigente – quindi quel diritto che riconosce la proprietà come valore supremo e intangibile – di chiudere uno stabilimento. Ma da lì non potranno mai arrivare soluzioni al problema dello sfruttamento.
Siamo convinti che, a Taranto come ovunque, per risolvere quella che ci è presentata come una dicotomia irriducibile, lavoro o salute, la risposta unica per ottenere sia l’uno che l’altra sia nazionalizzazione degli impianti, risanamento ambientale, gestione della fabbrica da parte degli operai.

Da ultimo, una domanda retorica, alla classe politica italiana e alla magistratura interessano davvero la salvaguardia della salute e del benessere dei cittadini?

Quello che sembrerebbe a parole nei fatti è disatteso. Il disastro ambientale della “città dei due mari” non fa di nome solo ILVA. Si parla molto meno infatti delle emissioni tumorali della raffineria ENI, delle polveri nocive che si diffondono dagli stabilimenti della Cementir, dell’avvelenamento del Mar Piccolo da parte dell’Arsenale della Marina militare, dei rifiuti chimici e radioattivi abbandonati qui e là in corrispondenza di vecchie industrie andate in disarmo, e la lista potrebbe continuare.

Eppure è tutto lì a pochi chilometri dai centri abitati, tutto lasciato com’è nell’indifferenza generale di chi dovrebbe avere come missione, ancor prima che come mestiere quello di salvaguardare la comunità.

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