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Contributo al dibattito sul femminicidio

Questo brevissimo elaborato vuole essere un punto di discussione da cui partire per affrontare l’argomento del femminicidio e più in generale la violenza contro le donne, un contributo importante rispetto all’argomento, da cui partire, per la nostra posizione a riguardo. Innanzitutto bisogna fare un’analisi rispetto al neonato termine, esso può apparire cacofonico, soprattutto perché terribilmente abusato dai media in quanto risulta essere, sicuramente, un termine di forte impatto emotivo e che quindi attrae interesse da parte del pubblico.

Ciò che sta dietro a tale termine è però qualcosa di più grande ed importante che necessita di un’esplicazione approfondita,  affinché noi tutti possiamo essere maggiormente consapevoli del suo utilizzo. La sua nascita non è stata indotta da una volontà di distinguere tra delitto e delitto basandosi semplicemente sul sesso della vittima; esso risulta essere un piccolo passo evolutivo positivo che culturalmente si sta cercando di intraprendere ormai da tempi immemori, dall’approvazione della fantomatica riforma del diritto di famiglia del 1975, nel quale per la prima volta viene eliminato dalla nostra giurisprudenza il delitto d’onore.

Il termine femminicidio non vuole definire semplicemente un omicidio come tutti gli altri, ma tenta di inglobare l’escalation della violenza che possiede una propria genesi caratterizzate, tanto come è caratteristica la base sociale e culturale che sottendo il fenomeno. La violenza contro le donne e quindi ciò che cerca di racchiudere il termine femminicido è una somma di una serie di crimini tutti previsti e definiti che potrebbero concludersi con l’uccisione della donna. L’omicidio perciò è solo una parte di un avvicendamento di delitti, ed alla base di questa concatenazione c’è la concezione condivisa della “femmina” come un nulla sociale. E’ una forma di violenza perpetrata contro la donna in quanto donna, ci troviamo di fronte quindi sì ad un delitto, a cui possono essere associate aggravanti individuali, ma che soprattutto trova i suoi profondi motivi in una società basata su principi erronei, che incrementa una cultura malsana che le istituzioni sono solite rispecchiare.

Il femminicidio è un problema strutturale che comprende tutte quelle forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà. La cultura partorisce un’infinità di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza contro le donne: siamo di fronte ad una violenza illegale, ma legittima, per la quale i governanti si impegnano nell’arginazione del problema in un’ottica di repressione sociale. Tutte le società patriarcali hanno usato, e continuano ad usare il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne.

Dall’inizio dell’anno sono circa ottante le donne morte per mano di un uomo, nella maggior parte dei casi marito, fidanzato, compagno, e i numeri aumentano giorno dopo giorno, 124 sono state quelle la cui vita è stata spezzata nel 2012, secondo i dati raccolti dalla Casa delle donne di Bologna dal 2005 fino ad oggi sono più di 900 le donne uccise.

Lo scorso Giugno è stata approvata dal parlamento italiano la Convenzione di Istanbul, un documento assai importante che cerca di indicare le linee guida generali rispetto al problema in questione in un’ottica internazionale. Ma  scricchiola già al suo nascere, in quanto la sua piena entrata in vigore è determinata dall’approvazione di tutti gli Stati che nel maggio del 2011 hanno contribuito alla sua stesura, quindi chissà quanto tempo occorrerà per la sua piena applicazione. Condannare la violenza contro le donne, ratificare la Convezione di Istanbul salva il principio forse, ma viene tutto poi tradito nella prassi se i centri antiviolenza sono sempre più vittime di ingenti tagli; se le politiche di prevenzione e di promozione di una cultura volta al rispetto della donna non sono mai state messe seriamente in campo, quasi in una prospettiva in cui il problema sia di rilevanza privata e non pubblica; se il personale specializzato che dovrebbe occuparsi di tali tematiche non viene sufficientemente supportato, soprattutto da un punto di vista formativo e di mezzi.

Come non sottolineare la scarsità dell’applicazione delle leggi a protezione delle donne, troppe donne infatti vengono abbandonate a loro stesse anche in seguito alle reiterate denunce. Inoltre, senza negare la sua rilevanza, la Convenzione di Istanbul risulta essere vuota in un Paese che manca ancora di un alto grado di consapevolezza e di analisi rispetto al problema, nonostante le pagine dei quotidiani italiani riportino quotidianamente storie di violenza di genere, da molto tempo siano notizie privilegiate nei titoli dei telegiornali di mezzogiorno, se ne parli nei talkshow e nei salotti politici, insomma sia un argomento in primo piano.

I nuovi governanti si sono spesi nell’approvazione di un decreto legge che ha introdotto nuovi inasprimenti di pena rispetto al problema; nonostante le nuove disposizioni possano essere considerate come un piccolo passo avanti rispetto alla questione da un punto di vista penalistico, non può non essere sottolineato ora quanto erroneamente venga affrontato l’argomento. Considerare la violenza contro le donne come un allarme sociale, un problema di ordine pubblico che può essere risolto soprattutto attraverso la repressione sociale, ne negano così la sua natura culturale, con disposizioni che per di più agiscono a violenza o a minaccia già avvenuta.

Questo è solo fumo negli occhi, fornire la parvenza alla comunità di aver affrontato il problema per poter rivendicare il proprio interessamento e il proprio tentativo per appianarlo, senza impegnarsi nella delineazione delle cause che lo producono, privi di qualsiasi intervento concreto rivolta all’ottica della prevenzione e della soluzione dello stesso.

La violenza di genere è costituita da diverse componenti e per questo è possibile analizzare il fenomeno da diversi punti di vista. La violenza maschile contro le donne è qualcosa di assai antico e di forte impatto sociale e per questo non è di facile comprensione il suo significato e la sua portata.

Occorre fare una premessa:

Ciò che entra in gioco è la considerazione generale della donna, come questa sia determinata da questo sistema societario e come si traduce poi anche in comportamenti violenti. Una  concezione della donna come un essere su cui l’uomo deve primeggiare lo costringe, a mantenere il proprio dominio e il proprio carattere identitario a costo di utilizzare qualsiasi strumenti i quali vengono, per la maggior parte, forniti dalla società medesima in una prospettiva di controllo sociale. La violenza quindi risulta essere un mezzo  importante per la costruzione dell’immaginario collettivo dell’identità maschile,  tende quindi a mantenere un ruolo, all’interno di questa società, in quanto è proprio quest’ultima  ad investirla di un tale compito, consentendogli così di diventare  parte  della costruzione dei legami sociali, cioè di socializzazione generale, e dei meccanismi di apprendimento primari e secondari.

La violenza è perciò, rispetto a questo specifico problema che qui si vuole cercare di analizzare, espressione identitaria di quella virilità maschile al quale l’uomo deve sottostare secondo quanto questa società ha determinato che debba essere il suo ruolo anche in rapporto alla donna, secondo un immaginario collettivo al quale deve soggiacere, contribuendo inoltre al mantenimento di un certo immaginario collettivo di donna che sempre la società ha creato e di cui gli sta a cuore la salvaguardia per il mantenimento di tale struttura societaria.

 Il rischio primo è che la violenza possa venire concepita e quindi appresa socialmente come qualcosa di “normale”, un mezzo da utilizzare nelle relazioni e negli scambi sociali come uno strumento di controllo e di potere. Come non notare gli stimoli sessuali con i quali quotidianamente veniamo bombardati. I media in generale e la pubblicità in particolare utilizzano la donna e il suo corpo associandola  a qualsiasi merce che abbia come destinatario l’uomo o più semplicemente affiancandola a tutto ciò che potrebbe essere sponsorizzato da qualcosa che possa indurre un collegamento con un qualche aspetto sessuale, o ancora peggio quando non si sa cosa mettere è sempre possibile “piazzare in bella vista” una donna semi nuda.

L’evoluzione della tv italiana dalla sua nascita ad oggi è un mero ed immediato esempio di quanto degrado culturale sia entrato nelle case degli italiani e quanto e come questo sia strettamente legato all’utilizzo dell’immagine femminile che in questa viene fatta. Manifesti raffiguranti tette e culi invadono le nostre strade, qualcosa che è diventato ormai normalità agli occhi di tutti. A tal proposito ci ritroviamo d’accordo a portare avanti una campagna contro l’utilizzo indiscriminato dell’immagine femminile senza alcuna logica, in quanto ciò potrebbe contribuire, insieme sempre ad una adeguata rassegna culturale, ad una maggiore sensibilità degli individui. E’ necessario però tenere sempre presente il nostro punto fermo in quanto comunisti, cioè che non è possibile modificare semplicemente un’abitudine senza cambiare le condizioni materiali legate a tali abitudini rendendole concettualmente sbagliate tanto da non necessitare di una tale restrizione, che però può comunque risultare necessaria ed adeguata in questa fase.

Il problema dell’utilizzo di certe immagini non è solo in rapporto al corpo femminile, ma anche a quello maschile: entrambi contribuiscono al mantenimento di un ideale di donna e di uomo ai quali tutti dovrebbero conformarsi ed aspirare a qualsiasi costo, con lo scopo prima di mantenere in piedi questo mercato consumistico e quindi questo sistema. Siamo circondati da una miriade di stimoli sessuali che possono compromettere il modo di agire di certi individui, senza con ciò apportare alcuna giustificazione a certi atti, ma è innegabile quanto la società dei consumi abbia potuto incidere nel provocare e solleticare un’iper stimolazione che può in seguito tramutarsi anche in atteggiamenti violenti. Se poi questo lo si associa alla totale mancanza di educazione sessuale è comprensibile quanto il tutto possa essere una bomba ad orologeria pronta ad esplodere.

Non possiamo non fare riferimento al rapporto che intercorre tra la concezione della donna e la religione. Occorre a tal proposito puntualizzare che, in quanto marxisti, non ci interessa fare distinzioni tra una o altra religione; “la religione è l’oppio dei popoli”, non vuole essere questa la sede per approfondire tale argomento, ma ci interessa comprendere come approcciarci rispetto al suo modo di incidere e di supportare quell’immaginario collettivo che mantiene l’idea di donna alla quale la società deve conformarsi. Ci opponiamo a qualsiasi forma di svilimento, di deterioramento e di sfruttamento sulla donna che la religione con le sue variegate sfaccettature supporta, sostenendo l’inferiorità della donna e costringendola alla sottomissione, conviti che non sia in alcun modo possibile sostenere che la donna possa essere resa libera in un mondo in cui le religioni, strumento della classe dominante, abbiano un peso così grande negli scenari politici nazionali e internazionali.

La religione va combattuta anche in un’ottica di liberazione della donna, consapevoli del fatto che sia necessario apportare un cambiamento alle condizioni di vita generali affinché possa scomparire la sovrastruttura “religione”. La religione e la sua concezione della donna è una componente che grava sulle innumerevoli violenze che le donne sono costrette a subire: un esempio eclatante e sul quale ci si imbatte sempre più spesso nella nostra società, ormai multietnica e multiculturale, sono i matrimoni forzati da parte della componente religiosa mussulmana, ragazzine da poco uscite dalla pubertà costrette a sposare uomini che potrebbero essere lori padri; nonostante il suo apparente progressismo papa Francesco continua a ribadire dal suo pulpito l’inferiorità della donna.

Con la crisi economica incrementano i problemi all’interno delle famiglie e delle coppie, aumentano le tensioni determinate sempre più spesso dalle condizioni lavorative precarie, dalla disoccupazione giovanile e da una società che ti induce costantemente al consumo e a rispettare certi canoni di “ricchezza”. I conflitti crescono e quindi si creano sempre più le condizioni che inducono poi ad un degrado delle relazioni familiari e più in generali sociali. Come soluzione la società concede l’alcool e le droghe ( il prezzo delle maggiori droghe sul mercato diminuisce ) in termini di svago, e se si preferisce tentare la fortuna ci sono, sempre più pubblicizzati, gratta e vinci e le slot machine che spuntano come funghi nei bar e nei luoghi dove possano essere maggiormente utilizzati. Tutti questi fattori sociali, insieme alla crisi economica, non sono  altro che cherosene per la violenza insita nell’uomo stesso.

Non è possibile affrontare e risolvere il problema della violenza contro le donne semplicemente da un punto di vista culturale, convinti che modificando la prospettiva di certe questioni ed educando gli individui ad una concezione diversa della donna e dell’uomo si possa così sopperire al problema, se non si cerca prima di tutto di cambiare le condizioni materiali di vita di una società. Solo modificandone la struttura sarà allora possibile incidere culturalmente sradicando delle convinzioni culturali che si sono cementificate decenni dopo decenni.

Lavorare da un punto di vista culturale cercando di educare le nuove generazioni in particolare ad una concezione generale diversa rimane un compito assai nobile ed importante, che va fatto con convinzione. Per questo come comunisti  intendiamo appoggiare qualsiasi progetto che si ponga tali obiettivi,  ma, allo stesso tempo, siamo convinti che la donna potrà essere veramente libera dal giogo di una maschilità violenta solo in una società diversa da questa, dove anche l’uomo sarà liberato da pregiudizi che lo legano ad un ruolo patriarcale.

Federica Savino (Comitato Centrale FGC  – responsabile commissione donne)

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