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99per100

Siamo il 99%?

di Emiliano Cervi e Salvatore Vicario.

Da dove nasce il “movimento”

Con lo svilupparsi della crisi e l’esplodere dei primi effetti concreti sulla popolazione, negli ultimi anni, in particolare dal 2011 si sono sviluppati una serie di movimenti sociali che hanno visto il loro apice nei paesi PIIGS e negli Stati Uniti: il Movimento Indignados e Occupy  Wall Street.

La crisi sta colpendo in maniera molto dura sia i settori proletari della società che i ceti medi e piccolo borghesi. Le dimensioni di massa (soprattutto in Spagna) che hanno assunto questi movimenti di protesta sono il sintomo di un malessere sociale rilevante, di una invocazione di cambiamento che si esprime come sa e come può. Questi movimenti sono frutto del peggioramento delle condizioni vita, dalla precarietà e disoccupazione, della proletarizzazione e pauperizzazione della classe media, che comporta per migliaia di famiglie la perdita costante del loro “potere d’acquisto”, e sono nati sulla base dello spontaneismo che rispecchia questa realtà. Una, se non la principale, parola d’ordine uscita da queste proteste, fatta propria anche da molti movimenti antagonisti e organizzazioni politiche e sociali di sinistra è stata “noi siamo il 99% contro l’1%”. Alla vigilia delle mobilitazioni d’Ottobre e della costruzione del conflitto sociale e di classe nel nostro paese e continente, che passa dal lavoro di classe quotidiano e non dalle sole giornate di piazza, riteniamo doveroso soffermarci su questa parola d’ordine.

La piccola borghesia in via di proletarizzazione è stata egemone nelle prime risposte spontanee alla crisi: è infatti il settore sociale che si mobilita prima in quanto munito di maggiori mezzi culturali, della chiara consapevolezza nel difendere una posizione sociale in corso di stritolamento. Questo settore è alla ricerca di soluzioni caratterizzate, naturalmente, dal suo punto di vista sociale, che non può che essere predominato dal desiderio di una forma di gestione diversa dall’attuale, dalla visione a-classista della società, dalla ricerca di soluzioni immediate, senza rottura, che possono arrestarne il declino, identificando il problema di fondo nei “politici corrotti”, nel “banchiere arraffone”, nella “finanza cattiva” e in una “democrazia falsa” ossia elementi oggettivamente parassitari che si formano nel capitalismo giunto alla sua fase di “dominio dei monopoli e del capitale finanziario”(cit. Lenin).. La parola d’ordine “siamo il 99%” è frutto sostanzialmente di questa visione e desiderio di un capitalismo “diverso”, purificato dall’1% che pregiudica il “capitalismo produttivo”.

Ma la profonda debolezza teorica sta nel vedere questi elementi come un qualcosa di estraneo al sistema e non come di un qualcosa legato strutturalmente al modo di produzione capitalista giunto a questa fase di sviluppo: si crea la visione che lavoratori e padroni siano alleati, si indirizza la rabbia sociale sotto forma di “indignazione” contro alcuni soggetti e non contro il sistema, si fa l’apologia di un passato da far rivivere con uno stato sociale che garantiva benessere alla classe media e all’aristocrazia operaia. Pertanto, non è in contestazione il capitalismo in sé, che è buono, secondo queste tesi, sino a quando garantisce una soddisfacente fetta di torta a ciascuno ma altresì il lato malato di un fantomatico capitalismo finanziario.

Cattiva finanza o natura del sistema?

L’idea che la finanza sia l’origine di tutti i mali (come di un qualcosa di distinto e estraneo dalla cosiddetta “economia reale”) parte da una errata visione del fenomeno, dove non si vede il nesso strutturale che ne determina lo sviluppo per le necessità del  capitalismo. Si ricorre alla finanziarizzazione del capitale per rispondere alla caduta dei profitti: più il saggio del profitto (che è il rapporto tra il plusvalore realizzato e la massa di capitale complessivo impiegata per ottenerlo) si abbassa e più i meccanismi di valorizzazione del capitale trovano difficoltà ad esprimersi: così si spiega l´esplosione della finanziarizzazione che trae la sua origine proprio dal centro del problema, la produzione capitalista e i suoi rapporti.

Questo meccanismo porta ad una concentrazione dei capitali nelle mani di un numero sempre più ristretto imprenditori a livello mondiale che riescono così a controllare, tramite un migliaio di imprese transnazionali tutta la produzione mondiale, non certo per il progresso sociale ma per massimizzare i propri profitti costituendo di fatto il principale ostacolo allo sviluppo dell’umanità. Per fare un esempio di ciò nel 2011 la somma del PIL delle prime cinque economie mondiali (USA, Cina, India, Giappone e Germania) raggiungeva i 38.881 miliardi di dollari: il fatturato della sola Exxon Mobil nello stesso anno ammontava a 452.926  miliardi di dollari con profitti dichiarati per 41.060 miliardi di dollari secondo dati della CIA e della CNN.

L’attualità del conflitto capitale-lavoro

Ma questo processo continuo e progressivo si sviluppa dalla piccola e media proprietà. Per cui si può rispondere a questo processo solo eliminandone le basi. La tesi del 99% porterebbe alla conclusione assolutamente priva di fondamento reale, che il conflitto capitale/lavoro e la classe operaia come soggetto rivoluzionario siano scomparsi. La ricerca di “nuovi soggetti”, tesi accreditata anche in molti settori della cosiddetta sinistra radicale o antagonista, si basa sull’idea della “moltitudine” che sostituisce il ruolo centrale della classe operaia, in quello che prende il nome di post-capitalismo. Ma ciò è sostanzialmente falso.

Tre fattori, caratteristici di questo sistema che si basa sulla massimizzazione del profitto, spiegano pertanto la riduzione di posti di lavoro nel settore della produzione:

– l’aumento della produttività;

– la subcontrattazione crescente nella produzione;

– le delocalizzazioni;

L’aumento della produttività è la causa principale della scomparsa di posti di lavoro nell’industria. Non ha nulla a che fare con la “deindustrializzazione” intesa in senso globale. Al contrario, si produce di più, ma con sempre meno persone. L’incremento della produttività è volto all’estrazione della maggior quantità di plusvalore per battere i concorrenti, generando così insopportabili condizioni lavorative. In secondo luogo, a causa della subcontrattazione i lavoratori sono costretti a vendere la loro forza lavoro a subcontrattisti, agenzie di lavoro interinale, ecc…, in cambio di un salario più basso. Allo stesso tempo si verifica un attacco frontale alla classe lavoratrice resa più debole da questa parcellizzazione: scompaiono a poco a poco i diritti sindacali frutto di anni di battaglie e conquiste, seppur parziali.

Un terzo fattore responsabile della scomparsa di posti di lavoro nell’ “industria”, è la delocalizzazione. Questo trasferimento globale di capacità produttiva non è sinonimo di deindustrializzazione, ma di industrie che si spostano da un continente all’altro per la logica della massimizzazione dei profitti. La recente rivoluzione tecnologica (informatica, telecomunicazioni, digitale …) rappresenta un enorme progresso per l’incremento delle forze: ma non sono i computer in sé, Internet, l’informatizzazione né l’automazione che producono le ricchezze. La fonte del plusvalore sono gli uomini che azionano le macchine. Una parte importante del settore “terziario” salariato, fa anch’esso parte del nucleo produttivo, della parte attiva nel processo di produzione, nel trasporto o nello stoccaggio. Grosso modo, si può dire che in Europa il proletariato industriale conta circa 60 milioni di lavoratori salariati (nel settore industriale o nei servizi legati all’industria). In Europa, circa 14 milioni di lavoratori salariati lavorano in “servizi business” (servizio legato alle imprese); si tratta dei settori informatici legati all’industria, la manutenzione tecnologica, le imprese di pulizia industriale, servizi di sicurezza e di manutenzione tecnica, così come gli studi di mercato, la pubblicità e risorse umane.  Non è esagerato , a questo punto, affermare che in Europa, 20 milioni di lavoratori salariati del “settore terziario” stanno lavorando, di fatto, nella produzione industriale, quella che produce la ricchezza.

La nostra parola d’ordine

Risulta allora fondamentale affrontare la questione in termini di classe. La questione delle classi come soggetto storico determinante mantiene la sua centralità e attualità, in quanto non sono scomparse ma hanno assunto nuove sfaccettature a causa dei mutamenti avvenuti nel mondo del lavoro con lo sviluppo del capitalismo. La classe lavoratrice attuale è meno omogenea e più complessa rispetto al passato, frammentata nelle fabbriche, nel settore dei servizi e del commercio, a cui si aggiunge l’enorme massa di proletari disoccupati a cui viene impedito l’accesso al lavoro. La frammentazione e stratificazione non influisce, come abbiamo cercato di illustrare in precedenza, sulla funzione oggettiva svolta nella società dal proletariato industriale, ma influisce sul proprio grado di coscienza e unità di classe.  Questa classe è l’unica che ha l’interesse materiale e oggettivo a rovesciare lo stato delle cose e può disegnare la nuova società, guidando e raggruppando intorno a sé gli altri strati popolari colpiti dalla crisi (la maggioranza della società).

È estremamente importante per noi avere una conoscenza teorica della fase che attraversa il sistema capitalista, con la necessaria capacità dialettica di osservare e capire le dinamiche di classe ed i fenomeni in questa momento, senza lasciarsi inglobare nella volontaria confusione, combattendo una dura battaglia ideologica per il prevalere delle posizioni di classe: su questa base bisogna identificare e costruire le alleanze sociali, con la propria autonomia e visione strategica, senza lasciarsi influenzare della piccola e media borghesia e dal loro modello di società.

 

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