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La fantasia dei numeri. Foibe e verità storica

Di Marco Paparella

Numeri. I numeri sono uno dei mezzi più importanti sui quali si fonda la storia. Il problema fondamentale è che numeri e cifre spesso sono utilizzati non per raccontare la verità e per analizzarla scientificamente ma anche per raccontare falsità sulle quali fondare idee che altrimenti non avrebbero alcun fondamento con la realtà. Queste menzogne sono spesso considerate vere dall’opinione pubblica se esse s’incastrano appieno con un sistema politico e culturale dominante facendole diventare parte di un sistema di controllo e di potere.

Il 10 Febbraio in Italia viene celebrata la Giornata del Ricordo – una celebrazione istituita nel 2004 dal Governo vigente di centrodestra con la complicità ed il silenzio del centrosinistra – per ricordare le vittime italiane e di origine italiana di Friuli Venezia Giulia, Istria e zone della Slovenia uccise ed infoibate durante la fine della Seconda Guerra Mondiale nel 1945 da formazioni partigiane comuniste al comando del maresciallo Tito. Il numero delle presunte vittime italiane varia in modo abbastanza variegato, dipendente dal clima politico e dalla fantasia del parlatore di turno: a volte trentamila, altre cinquantamila, settantamila ed alcuni si sbilanciano a dichiarare centomila persone massacrate e gettati nelle foibe, anfratti e gole delle coste della Dalmazia e del Carso; cifre che non hanno alcuna valenza storica perché dalle ricerche e dai documenti non emerge nulla di tutto ciò.

Durante gli ultimi mesi di guerra vi furono aspri scontri tra l’esercito italiano fascista della Repubblica Sociale e le formazioni partigiane del Fronte di Liberazione al comando di Tito, jugoslavi che fin dal 1941 avevano attuato un’aspra resistenza all’invasione ed all’occupazione nazifascista e che nel corso della guerra avevano liberato quasi tutta la Jugoslavia. Le zone al confine tra il Friuli con la Slovenia e la Croazia allora unite nella Jugoslavia – in particolare Trieste, Gorizia e l’Istria – erano aspramente contese fin dalla fine della Prima Guerra Mondiale perché ogni Paese considerava quelle zone proprio territorio, dato che non c’era una nette preponderanza né della nazionalità italiana né di quella croata o slovena. Nel 1941 il Regno d’Italia insieme a Germania ed Ungheria attaccò la Jugoslavia; in quel momento la politica aggressiva fascista era al massimo con Mussolini che desiderava realizzare una campagna di conquista a quella che Hitler stava brillantemente realizzando in Europa e si può notare ciò da questa frase pronunciata dal dittatore italiano:” Di fronte ad una razza inferiore e barbara come quella slava non si deve seguire una politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare cinquecentomila slavi barbari a cinquantamila italiani.”

L’invasione italiana del 1941 portò alla creazione della Provincia di Lubiana sottoposta al regime fascista e all’inizio la popolazione slovena iniziò una minima collaborazione solo perché considerava il fascismo un male minore rispetto al nazismo anche se l’obbiettivo finale era la liberazione del proprio Paese a fianco delle forze alleate. Ma la nascita del Fronte di Liberazione portò il regime fascista ad effettuare una durissima repressione contro la popolazione d’origine slovena, anche quella che fin dal 1919 viveva dentro i confini del Regno d’Italia: distruzioni di villaggi, fucilazioni, deportazioni in campi di concentramento in Italia. Tra l’Aprile del 1941 e l’8 Settembre del 1943 su circa trecentocinquantamila abitanti della Provincia di Lubiana sottomessa al controllo fascista circa cinquemila persone vennero fucilate, alcune centinaia bruciate vive ed altre settemila persone morirono nei campi di concentramento su più di trentamila deportati; fu in quest’occasione che vennero utilizzate le foibe per la prima volta, cioè da gerarchi e comandanti fascisti che massacrarono non solo appartenenti alla formazioni partigiane slovene ma anche civili per eliminare definitivamente qualunque forma di dissenso all’occupazione italiana. Il regime fascista sostenne anche formazioni cattoliche e nazional-conservatrici che si opponevano al lavoro che i gruppi partigiani guidati dai comunisti sloveni stavano facendo, in modo che il timore di una rivoluzione comunista schierasse la parte moderata e reazionaria della popolazione slovena al fianco dell’occupazione italiana.

Dopo l’8 Settembre 1943 e lo sfaldamento dell’organizzazione fascista molti italiani facenti parte soprattutto della classe dirigente abbandonarono la Provincia di Lubiana, venendo anche favoriti dalla popolazione locale mentre si verificarono in Istria le prime foibe a danno di italiani; i motivi non furono per nulla etnici ma gruppi sloveni e croati giustiziarono molte personalità che facevano parte o avevano collaborato apertamente con l’occupazione fascista e le vittime sono stimate in alcune decine. Ma con la successiva occupazione da parte delle truppe naziste sostenute non solo da formazione fasciste italiane ma anche croate (appartenenti alla formazione Ustascia), ripresero le violenze contro la popolazione slovena e presero avvio anche le deportazioni di ebrei nei campi di sterminio. Anche nel Friuli Venezia Giulia cominciarono a nascere i primi gruppi partigiani che successivamente si andranno ad organizzare ed unire nel Comitato di Liberazione Nazionale ed i rapporti con le formazioni comuniste slovene furono molto tormentate.

Nonostante ci fosse grande unità riguardo alla lotta all’occupazione nazifascista, il contrasto riguardo al destino che zone come Trieste e l’Istria avrebbero dovuto avere alla fine della guerra portò a parecchi contrasti, soprattutto tra italiani e croati. La sorte di Trieste era soprattutto fonte di diverbio: per i comunisti jugoslavi la città doveva costituire un baluardo contro il capitalismo e base per una futura espansione ad Occidente della rivoluzione comunista; il Pci e tutto il resto del Cln si opponevano fortemente a questa soluzione e ritenevano che Trieste sarebbe dovuta rimanere in territorio italiano. Alla fine dell’Aprile del 1945 la doppia insurrezione italiana e slovena e l’entrata nei territori giuliani di armate jugoslave portò all’emergere di due sentimenti contrastanti nella popolazione di quest’area: gli italiani e gli sloveni favorevoli all’entrata nella Jugoslavia furono molto contenti perché consideravano questo fatto come una doppia liberazione da due domini, da quello fascista e da quello italiano; coloro che erano contrari considerarono questo fatto come una grande invasione durante le quali italiani ma anche sloveni subirono una serie di violenze. Queste violenze da parte delle formazioni partigiane jugoslave vennero attuate come regolamento di conti verso dirigenti, soldati, membri della polizia al soldo del regime fascista che avevano occupato e soggiogato la Slovenia. Secondo i dati ufficiali, circa cinquecento persone nella zona di Gorizia e mille in quella di Trieste vennero uccise e di queste solo una minima parte venne ”infoibata”, numeri che si aggirano ad alcune decine di persone. Quello che è accaduto in queste zone alla fine della guerra non è diverso da quello successo nel resto d’Italia, quando l’insurrezione partigiana portò all’eliminazione di molti capi e gerarchi fascisti, agenti di polizia, combattenti repubblichini che avevano apertamente sostenuto il regime fascista e la Repubblica Sociale e che quindi vennero eliminati come forma di liberazione dopo oltre vent’anni di dittatura. Non vennero commessi massacri di alcun tipo e la popolazione civile indifesa come donne e bambini venne completamente lasciata stare, poiché le uccisioni furono molto limitate e si mantennero all’interno delle comuni logiche di guerra.

Riguardo alle uccisioni effettuate dalla formazioni jugoslave il numero si può ricondurre entro le duemila, massimo tremila unità; numeri certo elevati ma che sono da considerarsi minimi se paragonati alla devastazione che la popolazione slovena ha dovuto subire sotto l’occupazione prima fascista e poi nazifascista. Questi fatti dovrebbero essere portati alla luce in modo chiaro perché da qualche anno in Italia è rinato un potente nazionalismo ed un forte senso di rivalsa verso la popolazione slava – in particolare quella croata e slovena – la quale viene accusata come detto sopra di aver commesso brutali crimini perpetrati solo per ragioni etniche contro la popolazione italiana alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Queste accuse infamanti devono essere rigettate dal popolo italiano perché non si può permettere che in un momento di crisi generale come quella attuale nascano delle tensioni con altri Paesi, formati da popoli che stanno subendo come noi la crisi e quindi si trovano nella nostra stessa situazione; non si può accettare che il Paese provi ad influenzare la mente del popolo in un momento tanto difficile in modo da consegnargli su d’un piatto d’argento un colpevole. Italiani, sloveni e croati devono unirsi nel gridare il loro disappunto e disprezzo contro ogni politica o evento di stampo nazionalistico ma bisogna che ci s’unisca perché la crisi strutturale del capitalismo attuale può e dev’essere combattuta con l’unità tra i popoli e non con vecchi egoismi ed idee marce che servono solo ad aizzare l’odio tra i diversi Paesi.

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