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Quando la scuola non è più gratuita

di Mauro Buscemi

Qualche giorno fa la trasmissione televisiva “Le Iene” ha riproposto, come lo scorso anno, un servizio sul tema del contributo scolastico intitolandolo “Quando la scuola non è più gratuita”. Nel servizio televisivo sono documentati numerosi casi di Dirigenti Scolastici che presentano la richiesta del contributo alle famiglie come se fosse una vera e propria tassa scolastica, addirittura inviando lettere di intimidazione in cui si minaccia il pignoramento della somma richiesta in caso di mancato pagamento.

Il fatto che la questione del “contributo volontario” sia stata portata in primo piano anche dalla televisione è sicuramente un forte segno di come il problema sia sempre più diffuso negli istituti e sempre più sentito fra le famiglie. Negli ultimi anni casi come quelli denunciati nel servizio sono diventati sempre più frequenti, e contemporaneamente le somme richieste dalle scuole sempre più esose.

Il messaggio che passa nel servizio delle Iene è tuttavia una sostanziale giustificazione dell’esistenza del contributo, al punto che, pur ribadendone con fermezza la non obbligatorietà, si invita a pagarlo perché le scuole sono senza soldi. Da un programma televisivo, sia chiaro, non poteva emergere un messaggio differente. Il punto è che per fare un’analisi corretta del contributo scolastico non si deve partire col domandarsi se sia obbligatorio o meno, ma è necessario chiedersi piuttosto quale ruolo ha giocato in questi anni.

Se in un primo momento, infatti, il contributo volontario nasceva come forma di finanziamento delle attività extra-curriculari offerte dalle scuole, presto è diventato una fonte essenziale del finanziamento alle scuole pubbliche che sopperisce ai tagli dei governi, e oggi con contributi sempre più cari e richiesti con sempre più insistenza si generano i presupposti per una vera e propria tassazione sulle famiglie. Se i governi hanno potuto tagliare sempre più sull’istruzione pubblica – parliamo di quasi 22 miliardi di tagli complessivi negli ultimi sei anni – è proprio perché contemporaneamente si costringevano le famiglie a finanziarla di tasca propria, facendo passare il messaggio che non farlo sarebbe andato a svantaggio dei propri figli.

Se si parte con la sola intenzione di voler ribadire la volontarietà del contributo e denunciare gli abusi da parte dei singoli Dirigenti, allora la formula “sono volontari, ma chi può li paghi” può apparire corretta e coerente. Ma se invece si comprende qual è il progetto che in questi anni è stato possibile solo grazie al sacrificio degli studenti e delle loro famiglie, ne consegue che pagare il contributo scolastico significa continuare ad alimentare il progetto di dismissione della scuola pubblica nel nostro paese, e che invece non pagarlo significa schierarsi in difesa di una scuola pubblica che sia gratuita e del diritto allo studio, costantemente minacciato da questo sistema e che invece dovrebbe essere lo Stato a garantire.

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