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Quale futuro per le nostre pensioni?

Di Emanuele Vecchi

Una delle frasi più comuni che riguarda il sistema previdenziale italiano è che noi giovani non avremo una pensione, o comunque non ne terremo una che ci permetta di trascorrere il resto della nostra vita in serenità. Prima di sfatare questo mito (giacché questi timori, come vedremo, non riguardano solo noi adolescenti), è opportuno spiegare il funzionamento del nostro complesso assistenziale.

Questo opera grazie ai contributi di chi lavora, mentre quelli versati in carriera finiscono nelle tasche di chi già è in pensione. Quindi, quale sia l’entità dei soldi versati, non si avrà un corrispettivo se non esiste una forza lavoro in grado di tenere in piedi questo meccanismo. Ciò dunque che va affrontato è il tema della sostenibilità finanziaria, tenendo conto della popolazione lavorativa e pensionata. Quest’ultima si compone di un esercito di 16,7 milioni di persone, concentrati soprattutto nella fascia d’età che va dai 70 ai 74 anni (2.835.722). Per quanto riguarda gli occupati, la cifra si aggira al di sopra dei 22 milioni e basta mettere in relazione le due quantità per vedere il carico fiscale che chi lavora deve “sopportare” per pagare le pensioni. E la situazione è destinata a peggiorare.

Dagli ultimi dati Istat, si nota come il tasso di mortalità superi quello di natalità, e come il numero di figli per donna (1.42) sia ben lontano dalla soglia necessaria a garantire stabilità numerica della popolazione nel tempo (2,1). Mentre dunque negli ultimi decenni il numero di cittadini tra 0 e 64 anni ha subito un calo del 2%, gli over 65 sono passati dal 18,7 al 20,5 e si stima che nel 2043 siffatta soglia superi il 32%. Tale squilibrio demografico è ancor più evidente se si prende in esame l’indice di dipendenza strutturale, che misura il carico della popolazione non attiva su quella attiva, passato dal 49,1% al 52,8% e l’indice della popolazione attiva che misura il rapporto tra le persone prossime alla pensione e quelle che si affacciano nel mondo del lavoro, passato dal 110% al 130%. Riassumendo, possiamo immaginarci il nostro sistema previdenziale tra 10-20 anni come una piramide rovesciata: un gran numero di persone che accederà ai contributi previdenziali e una fetta della popolazione lavorativa troppo fragile per supportare l’intero carico fiscale. Dunque a non avere la pensione non saremo solo noi giovani, ma soprattutto nel breve periodo gli attuali 50enni. In Europa la situazione non è migliore: si prevede che l’indice di dipendenza strutturale passerà dal 28,4% al 58,5%, con una popolazione over 65 che nel 2060 raggiungerà il 30%. Come è potuto succedere tutto ciò? Le risposte vanno ricercate nelle politiche restrittive e di austerità imposte dall’Unione Europea negli ultimi 20 anni. Ma procediamo con calma.

Le prime norme di riforma delle pensioni e di contenimento della spesa furono prese sotto il governo Amato nel 1992, guarda caso poco prima che nascesse la CE con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, e prevedevano l’innalzamento dell’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini e l’introduzione di un indice più basso di rivalutazione per le retribuzioni pensionabili. Meno di 2 anni dopo, nel 1995, furono gettate le basi per il futuro sistema previdenziale con la riforma Dini, con il passaggio del calcolo della pensione dal metodo retributivo a quello contributivo. Quest’ultimo, contrariamente al primo, prende in considerazione l’importo dei contributi effettivamente versati dal lavoratore nel corso della sua vita e non soltanto i suoi ultimi 10/15 anni retributivi, abbassando considerevolmente l’entità dell’importo previdenziale, presumendo che alla fine della carriera lavorativa la persona guadagni proporzionalmente di più che al suo inizio. L’assegno pensionistico è calcolato dal montante cumulativo (contributi versati) moltiplicato per un coefficiente di trasformazione, tanto più alto quanto maggiore è l’età in cui si va in pensione. Una sorta di ricatto, in conclusione: più tardi vai in pensione più soldi prendi, prima smetti di lavorare meno sarai retribuito. In questo lo Stato guadagnava: la persona, infatti, andando in pensione più tardi versava più contributi di quanti poi avrebbe preso effettivamente (se un cittadino lavora per 40 anni ed ha iniziato a 25, andando in pensione a 65 anni non riscuoterà mai i soldi versati, se non rimanga in vita fino a 105 anni). Questo cambiamento riguardava solo i lavoratori che avessero iniziato a lavorare dopo il 1996 o quelli che a tale anno non avessero maturato 18 anni di contributi. Per tutti gli altri la retribuzione pensionistica sarebbe stata calcolata o con il vecchio metodo o con un metodo misto. L’ultima di una serie di riforme è quella attuata sotto il governo Monti.

La legge Fornero ha agito essenzialmente su due punti: calcolo dell’età pensionabile e calcolo della pensione. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono cancellate definitivamente le pensioni di anzianità (provvedimento già deciso con la legge Amato) e s’innalza la soglia contributiva da 40 anni a 42 anni più 2 mesi per gli uomini e 41 più 3 mesi per le donne. Coloro che scelgono la pensione anticipata perderanno l 1% sulle anzianità contributive maturate prima del 2012 se viene richiesta prima dei 62 anni d’età, e il 2%, se viene richiesta prima dei 60 anni d’età. Per quanto riguarda le pensioni di vecchiaia, si è stabilito di equiparare nel lungo periodo l’età pensionabile degli uomini e delle donne, portandolo a 67 anni nel 2022. Sul calcolo della pensione, invece, si porta a compimento il percorso iniziato da Dini, con la cancellazione di ogni gradualità e il passaggio definitivo al sistema contributivo. Secondo uno studio effettuato da Panorama, un lavoratore che decide di andare in pensione a 70 anni, arriverà a percepire fin 200 euro in più al mese in busta paga. Un ricatto bello e buono! Per capire il guadagno dello Stato in questa situazione, basti pensare che anche se una persona andasse in pensione più tardi della soglia minima, avrebbe comunque una retribuzione inferiore di quella percepita di chi ha smesso di lavorare nel 2012 ed è andato in pensione con i coefficienti di trasformazione del 2010-2012. Immaginiamo quanto questo stesso lavoratore percepisca meno di quello andato in pensione con il vecchio metodo retributivo o con il più semplice metodo misto. Come si può facilmente intuire, tutto questo ha portato a effetti disastrosi a livello sociale ed economico. Come rileva un rapporto Istat, mezzo milione di italiani non avrà una pensione mentre 411 mila lavoratori rimanderanno la loro uscita dal lavoro pur avendo maturato i requisiti, causa la crisi economica e la prospettiva di una retribuzione pensionistica (fino al 50%!) inferiore allo stipendio netto lavorativo.

Nel frattempo l’Inps ha i conti in profondo rosso. Nel 2013 lo Stato, e dunque la fiscalità generale, ha trasferito nelle casse dell’ente 112,5 miliardi, per evitare il default e continuare l’erogazione delle pensioni (e non solo). Una continua e inarrestabile discesa verso il fallimento: basti pensare che se nel 2008 bastavano “solo” 73 miliardi per coprire il deficit dell’istituto previdenziale, negli ultimi 5 anni l’esborso è aumentato di ben 39 miliardi cioè il 53% in più. Paradossalmente, dunque, quelle riforme che avrebbero dovuto stabilizzare nel tempo la spesa pensionistica garantendone la sostenibilità finanziaria da parte dello Stato non solo hanno tolto ai lavoratori l’aspettativa di una vita serena, ma costringono lo Stato a indirizzare una gran parte delle tasse pagate dai cittadini nelle casse dell’Inps per rimediare a politiche e riforme, imposte e volute dall’Ue, del tutto fallimentari.

Abbassamento dell’età pensionabile e conseguente entrata nel mondo del lavoro dei giovani sono l’unica risposta concreta per dare un futuro a questi ultimi e un’aspettativa di vita tranquilla e dignitosa a coloro che per tanti anni hanno mandato avanti questo paese.

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