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La scienza e il limite tra materialismo dialettico e relativismo

di Alessandro Mustillo*

 «In entrambi i casi il materialismo moderno è essenzialmente dialettico e non ha più bisogno di una filosofia che stia al di sopra delle altre scienze. Dal momento in cui si esige da ciascuna scienza particolare che essa si renda conto della sua posizione nel nesso complessivo delle cose e della conoscenza delle cose, ogni scienza particolare che abbia per oggetto il nesso complessivo diventa superflua. Ciò che resta quindi ancora in piedi, autonomamente, di tutta quanta la filosofia che si è avuta fino ad ora è la dottrina del pensiero e delle sue leggi, cioè la logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella scienza positiva della natura e della storia.» (F. Engels)

In che senso nell’ambito della natura tutto si risolve nella scienza positiva? A partire da questa affermazione in molti hanno criticato il pensiero di Engels per aver sostanzialmente aperto ad una sorta di contaminazione tra positivismo e marxismo. Si tratta di un’accusa errata e falsa, su cui vale la pena spendere due parole.  Engels si riferisce innanzitutto al ruolo storico della filosofia, intendendo che dopo il materialismo dialettico, la filosofia non può più considerarsi il luogo dell’indagine sulla natura reale mondo: l’idea del filosofia o della religione, come forme del pensiero astratte e scisse dall’analisi reale del mondo, cedono il passo con il marxismo, all’analisi della realtà così come essa è, e non così come viene immaginata dall’uomo al di fuori della sua esistenza reale. Il vecchio metodo della filosofia idealista, cade di fronte all’analisi reale del mondo, che sostituisce l’idea del singolo filosofo. Allo stesso tempo lo sviluppo della società umana, la sua comprensione e la spiegazione degli eventi si risolve anch’esso nell’analisi storica. L’affermazione di Engels è in primo luogo uno sbarramento al ritorno al vecchio modo di concepire l’analisi del mondo e la filosofia con esso, un avviso a non fare un passo indietro recuperando ciò che con il marxismo è stato superato.

Questo chiaramente non vuol dire che Engels dia per assunto acriticamente tutto ciò che c’è di scientifico. Spesso si critica l’idea, sbagliata, della fiducia illimitata del marxismo nei confronti della scienza considerata nel suo complesso. È una critica errata perché parte da presupposti errati. Ma per comprendere bene questa critica che tocca il tema centrale di quello che Lenin definisce correttamente come “il confine tra il relativismo ed il materialismo dialettico” è bene scindere la critica in due momenti, che spesso vengono mischiati in modo indistinto dai critici del marxismo, nell’una e nell’altra direzione.

La concezione materialistica dialettica assume che esista una realtà obiettiva, e che le nostre sensazioni sono riflessi di quella verità obiettiva che esiste al di fuori di noi stessi ed indipendentemente da noi. Noi percepiamo mediante i nostri sensi ciò che esiste, e riflettiamo questa realtà nel nostro pensiero.  Non siamo noi a determinare ciò che esiste mediante il nostro pensiero. Da ciò deriva che il metodo d’indagine per scoprire la realtà che ci circonda è il metodo scientifico, l’analisi della realtà quale essa è, dalla quale traiamo una spiegazione scientifica che ci consente di comprenderne la natura, le leggi del suo funzionamento.

Il metodo scientifico altro non è, prima di tutto, che unione di teoria e prassi, che esclude ogni ritorno all’idealismo e ogni caduta nella semplice fenomenologia. «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica – scrive Marx nella seconda tesi su FeuerbachNella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica.» Ciò che Marx ed Engels mettono in primo piano allora, ancor prima della scienza, intesa nel suo complesso storico, è il metodo scientifico di analisi della natura e della storia, che si contrappone per l’appunto all’idea della ricerca della verità partendo da elementi altri rispetto al reale. Engels si riferisce alla religione, alla superstizione, alla filosofia idealista in generale, che sono stati per lungo tempo i luoghi deputati al porsi domande e dare risposte sull’uomo e sul mondo che lo circonda, la sua origine, la sua natura e così via. «Engels – scrive Gramsci nei quaderni – si riferisce alla rivoluzione che ha apportato nel mondo scientifico in generale e anche nell’attività pratica l’affermarsi del metodo sperimentale, che separa veramente due mondi della storia e inizia la dissoluzione della teologia, della metafisica e la nascita del pensiero moderno, la cui ultima e perfezionata espressione filosofica è il materialismo storico. L’«esperienza» scientifica è la prima cellula del nuovo processo di lavoro, della nuova forma di unione attiva tra l’uomo e la natura: lo scienziato-sperimentatore è un «operaio», un produttore industriale e agricolo, non è puro pensiero: è anch’egli, anzi egli è il primo esempio di uomo che il processo storico ha tolto dalla posizione di camminare sulla testa per farlo camminare sui piedi.» Il metodo scientifico è l’embrione dell’unità tra teoria e prassi.

Dunque possiamo affermare senza ombra di dubbio che il marxismo pone alla sua base il metodo scientifico, e che ritiene il metodo scientifico l’unico metodo in grado di indagare sulla natura del mondo che ci circonda. In secondo luogo possiamo affermare che il marxismo, partendo da una concezione materialistica, ed assumendo l’esistenza di una realtà obiettiva, ne pone anche la conoscibilità. Criticando Kant e l’idea della cosa in sé Engels mette in evidenza questo elemento con l’esempio della riproduzione chimica di sostanze naturali. Oggi potremmo citare migliaia di esempi ancora più formidabili da questo punto di vista visto l’enorme progresso che la scienza ha realizzato nell’ultimo secolo. Appena pochi giorni fa è stato replicato in California il processo di fusione nucleare per la prima volta in modo artificiale, producendo più energia di quanta sia stata impiegata per la fusione, replicando in piccolo il processo che produce la creazione di energia delle stelle.

Riassumendo e schematizzando quanto detto prima: per un marxista esiste una realtà esterna, che è conoscibile attraverso il metodo scientifico. Il discrimine tra conosciuto e ignoto altro non è che un elemento derivante dallo stadio delle nostre conoscenze scientifiche, dal progresso scientifico, e si risolve quindi in ultima analisi un fattore di natura storica.

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Arriviamo quindi al secondo piano della nostra riflessione, che è ben evidenziato da Lenin in “materialismo ed empirocriticiscmo” e che abbiamo definito come elemento centrale del discrimine tra “relativismo e concezione materialistico dialettica”.  Ciò che i critici del marxismo, che parlano di illimitata fiducia nella scienza da parte del marxismo confondono è il piano su cui si ammette la presenza di una realtà esterna e la sua conoscibilità, con quello dell’assunzione di una verità eterna in campo scientifico. Se questi due piani vengono confusi si scade nel dogmatismo, quando si confonde il conoscibile con il conosciuto, e nel relativismo quando alla fine partendo dall’ignoto si scade nell’inconoscibilità. Affermare che il marxismo consideri ciò che dice la scienza una verità eterna è un errore, smentito dallo stesso Engels nella sua critica a Duhring

La scienza è innanzitutto un fatto umano, come tale suscettibile di evoluzione storica, e come tale soggetto alle leggi dello sviluppo storico. La conoscenza diventa allora un fatto storico. Tutto ciò che dice la scienza è una verità assoluta ed eterna? Assolutamente no. Proprio in questo passaggio di Engels poi ripreso da Lenin si coglie la caratteristica di fondo della concezione materialistica-dialettica rispetto alla scienza. «Se mai l’umanità arrivasse al punto di non operare che su verità eterne, su risultati del pensiero che posseggano il valore sovrano e l’incondizionata pretesa di verità, essa sarebbe pervenuta a quel punto in cui l’infinità del mondo intellettivo sarebbe esaurita tanto in atto che in potenza, e sarebbe compiuto il celeberrimo miracolo dell’innumere numerato.» E’  utile sotto questo aspetto la divisione del campo scientifico che compie,  Engels, suddividendo il campo delle scienze in tre ambiti: quello delle scienze che si occupano della natura non vivente (matematica, astronomia, fisica, chimica, meccanica, geologia…); quello delle scienze che si occupano degli organismi viventi (biologia, medicina, ecc..); quello delle scienze storiche, che indagano la condizione di vita degli uomini, i rapporti sociali, l’economia, e le sovrastrutture filosofiche, religiose, politiche, artistiche ecc… Analizzando il diverso grado di progresso degli ambiti delle scienze considerate Engels limita le verità assolute a pochi elementi, per i quali abbiamo relative certezze. Ed in particolare riguardo alle scienze storiche si esprime sul concetto di verità e morale eterna sostenendo che è in questo campo dove più di ogni altro regna la presunzione di verità morali eterne, e dove al contrario la storia dimostra chiaramente tutto il contrario. Da qui deriva anche, abbandonando per un attimo il campo della scienza naturale, per sconfinare in quella sociale, l’avversione marxista per il concetto delle dichiarazioni di diritti universali, morali e verità eterne sulla natura dell’uomo e così via.

Ma allora quale rapporto esiste tra una scoperta scientifica immediata e la reale conoscenza del mondo? Si può determinare la differenza tra verità ed errore in campo scientifico ed in che termini? Riassumendo il concetto espresso da Engels, Lenin scrive che «il pensiero umano per sua natura, è capace di darci e ci da effettivamente, la verità assoluta che è formata dalla somma delle verità relative. Ogni passo nello sviluppo della scienza aggiunge nuovi granelli a questa somma di verità assoluta, ma i limiti della verità di ogni tesi scientifica sono relativi, giacché vengono ora allargati, ora ristretti col progredire della conoscenza […] Dal punto di vista del materialismo moderno, cioè del marxismo, i limiti di approssimazione delle nostre conoscenze della verità obiettiva, assoluta, sono storicamente relativi, ma l’esistenza di questa verità è incontestabile, come è il fatto che noi ci avviciniamo ad essa.»

Prendiamo ad esempio il celebre caso della disputa sulla reale natura della Terra, rotonda o piatta. Per secoli l’uomo ha immaginato che essa fosse piatta, e la scienza allora ad uno stadio embrionale e privo di mezzi, che si poteva limitare all’osservazione dell’apparenza della Terra come un qualcosa di piatto, tendeva a confermarlo. Tuttavia nessuno dubita del fatto che mentre gli uomini immaginavano la Terra piatta essa nella realtà fosse effettivamente rotonda. Migliaia di oggetti nello spazio di cui ignoriamo l’esistenza, esistano anche se non li abbiamo osservati, migliaia di processi si compiono senza che ne abbiamo cognizione, ma non per questo essi non accadono. Oggi sappiamo che è verità assoluta il fatto che la Terra si sia formata ben prima della comparsa dell’uomo. Abbiamo e avremo a lungo, forse molto a lungo, teorie divergenti sulle modalità della sua formazione e della sua evoluzione, soprattutto sui tempi che ciò ha richiesto. La somma di continue scoperte relative, anche nella loro parzialità, fa indubbiamente avanzare la nostra conoscenza del mondo, e questo avviene in ogni campo della natura, tendendo ad una conoscenza generale sempre più prossima alla realtà. In alcuni campi il livello dei nostri mezzi è talmente ristretto che la scienza oggi non è in grado di andare oltre la formulazione di ipotesi, spesso molto approssimative. Molto spesso tanto meno possediamo mezzi idonei tanto più la scienza tende a tornare nell’ambito della discussione teorica a livelli filosofici, addirittura para-religiosi. È chiaro che qui non può esserci pretesa alcuna di coincidenza tra verità assoluta scientifica e verità obiettiva, ma ciò non toglie che una realtà obiettiva esista, anche indipendentemente dalla nostra ignoranza. Il progredire dei mezzi di cui l’umanità dispone ha storicamente reso l’uomo in grado di compiere passaggi inimmaginabili in epoche storiche precedenti, di progredire nella sua conoscenza del mondo.

La divisione aprioristica verità/errore nel campo scientifico ha applicazione ristretta, poiché derivando da un’analisi della realtà, il più delle volte si può assumere che la validità/invalidità di una teoria sia condizionata da alcuni elementi, ma non del tutto smentita. Sarà un errore, ad esempio un errore di calcolo materiale, ma difficilmente la validità di una teoria scientificamente comprovata non ha un proprio ambito di validità, anche se superato in linea generale, in un ambito superiore. Il materialismo dialettico, ad esempio, non ricusa la meccanica, ma ne pone la validità in un ambito ristretto oltre il quale le leggi della meccanica perdono di validità. Le scoperte scientifiche non fanno che confermare quotidianamente questa visione, ed elidono le divisioni aprioristiche tra errore e verità. «Verità ed errore – scrive Engels – come tutte le determinazioni del pensiero che si muovono su un piano di opposizioni antitetiche, hanno validità assoluta solo in campo estremamente limitato; cosa questa che abbiamo appunto già veduto e che anche Dühring dovrebbe sapere, se avesse una qualche familiarità coi primi elementi della dialettica che trattano precisamente dell’insufficienza di tutte le opposizioni antitetiche. Non appena applichiamo l’antitesi verità-errore al di fuori di questo ristretto campo che abbiamo indicato sopra, essa diventa relativa e conseguentemente inutilizzabile per l’esatta maniera di esprimersi della scienza; e se poi cerchiamo di applicarla come assolutamente valida al di fuori di quel campo, più che mai andiamo incontro al fallimento; i due termini dell’antitesi si cambiano rispettivamente nel loro contrario, la verità diventa errore e l’errore verità.»

Alla domanda se questa distinzione tra verità assoluta e relativa è indeterminata Lenin giunge a sintetizzare il confine tra relativismo e materialismo dialettico: «Essa è appunto “indeterminata” quanto basta per impedire che la scienza sia trasformata in un dogma nel peggior senso della parola, in un qualche cosa di morto, di rigido, di ossificato; ma nello stesso tempo essa è “determinata” appunto quanto basta per distinguersi nel modo più deciso e inequivocabile dal fideismo, dall’agnosticismo, dall’idealismo filosofico e dalla sofistica dei seguaci di Hume e Kant. C’è qui un limite che voi non avete notato, e, non avendolo notato, siete scivolati nel pantano della filosofia reazionaria. E’ il limite tra il materialismo dialettico ed il relativismo

In definitiva «La dialettica materialistica di Marx ed Engels – dice Lenin e con questo possiamo concludere questo secondo piano di riflessione – contiene in sé incontestabilmente il relativismo, ma non si riduce ad esso, ammette cioè la relatività di tutte le nostre conoscenza, non nel senso della negazione della verità obiettiva, ma nel senso della relatività storica dei limiti dell’approssimazione delle nostre conoscenza a questa verità.»  Dunque il limite tra conosciuto e ignoto, non è un limite assoluto, non è un limite che non può essere superato in senso generale, ma è un limite continuamente in movimento, in cui la conoscenza come fattore umano, si risolve anch’essa in un elemento storico. Nulla anche nell’ambito della conoscenza può essere astratto dalla storia. Così come non esiste un uomo immutabile ed eterno, che si ponga al di fuori del contesto storico-sociale, non esiste una conoscenza immutabile ed eterna, ma tutto è in questo senso relativo sulla base del livello delle capacità della scienza, che progredisce storicamente. Ma questo elemento di relatività che attiene all’uomo e alla storia, e dunque tipico di una visione dialettica della società umana, nulla toglie al fatto che la realtà esterna sia determinata, al di fuori della nostra conoscenza ed indipendentemente da essa. Ciò che esiste, esiste anche se noi non lo sappiamo, ha una natura anche se noi riteniamo che essa ne abbia un’altra opposta, ha le sue leggi che operano, anche se il nostro grado di conoscenza non è in grado di comprenderne appieno il funzionamento. In questo senso la scienza, e con essa l’uomo, innanzitutto “scopre” non “crea”, e solo attraverso la scienza, e la sua applicazione ad un processo produttivo, l’uomo diviene in grado a sua volta di creare, trasformando la materia, e con essa l’ambiente che lo circonda.

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Vi è poi un terzo e fondamentale piano di riflessione, che deriva direttamente dal secondo. La scienza, presa nel suo complesso, è elemento umano, vive nella realtà sociale, essa è condizionata dai rapporti sociali di produzione. La scienza, se intendiamo con questo termine l’insieme complesso del pensiero scientifico di una determinata società, è anch’essa una sovrastruttura, e come tale risponde essenzialmente alle dinamiche della produzione, come una qualsiasi sovrastruttura. La direzione che assume lo sviluppo scientifico nella nostra fase storica non è neutrale, ma è condizionata storicamente dalle necessità, del capitale. La scienza come le altre sovrastrutture si presenta come elemento neutrale, come fattore non condizionato direttamente dalla struttura economica ma nella realtà non lo è. «La scienza – dice Gramsci – nonostante tutti gli sforzi degli scienziati, non si presenta mai come nuda nozione obbiettiva: essa appare sempre rivestita da una ideologia e concretamente è scienza l’unione del fatto obbiettivo con un’ipotesi o un sistema d’ipotesi che superano il mero fatto obbiettivo».

Specie nell’ambito delle scienze umane il presupposto ideologico spesso emerge con forza. Prendiamo il caso delle rilevazioni statistiche sul mondo del lavoro e quante volte semplicemente dal modo di considerare di una forma di lavoro come lavoro dipendente, o come lavoro autonomo, o le stime sulla disoccupazione e così via, un dato reale viene alterato nella sua presentazione semplicemente attraverso una scelta di catalogazione, che è tutt’altro che scientificamente neutrale. Per molti sarà celebre il caso della divisione tra settore secondario e terziario rispetto alla logistica e ai trasporti, che figurano nel terziario, ma per qualsiasi marxista sono settori a tutti gli effetti produttivi.

Per non parlare, anche nel campo delle scienze naturali della determinazione delle quote di investimenti in questo o quel ramo della produzione scientifica, l’utilizzo delle scoperte scientifiche e la direzione dello sviluppo ulteriore delle indagini scientifiche sono elementi che rispondono alla produzione. Quante scoperte scientifiche sono rallentate nel campo della medicina perché considerate di scarso valore economico di remunerazione, mentre sarebbero essenziali per migliorare la condizione della società? Per non parlare della ricerca in campo bellico. Nell’epoca imperialista la grande quota di spesa che viene utilizzata nella corsa agli armamenti è una conferma continua di questa tesi. Prendiamo il caso dell’energia atomica, senza entrare nel dettaglio delle conseguenze negative in termini di rifiuti, smaltimento ecc… la produzione di energia dal nucleare può assumere le forme della produzione di energia per società private, le quali ricavano profitto, oppure la produzione di energia nell’ambito di uno stato socialista nel quale il profitto non sussiste. Così come dallo stesso fenomeno è possibile ricavare un’arma atomica.  Una stessa scoperta scientifica può avere questi e molti altri utilizzi. Ne deriva anche il profilo soggettivo della responsabilità dello scienziato, chiaramente da raccordarsi con il principio generale della riflessione sulla reale libertà dell’uomo singolo, rispetto al contesto storico sociale che gli appare come dato. E’ il dilemma di Majorana sull’utilizzo delle scoperte del gruppo di Fermi (o almeno una delle versioni sul celebre caso della scomparsa del grande fisico, così come ipotizzato da Sciascia).

Vorrei citare a proposito una riflessione che Ludovico Geymonat, un grande pensatore marxista italiano del secolo scorso, che ha dedicato i suoi studi alla scienza, ha scritto in relazione a questo e che ci è essenziale per introdurre un aspetto fondamentale della visione marxista della scienza. Scrive Geymonat: «I mostri – da Hiroshima a Seveso – dalle malattie del lavoro alla degradazione dell’ambiente naturale – vanno messi in conto a chi ha la responsabilità del potere. Dopo tutto questi tipi di mostri popolavano anche società prescientifiche, anzi antiscientifiche. Inoltre, proprio l’applicazione delle conoscenze scientifiche sarebbero oggi in grado di eliminare molti di questi mostri […] La distinzione tra usi e contenuti della scienza riguarda perciò semplicemente il fatto incontestabile che le decisioni sull’uso sono prese entro strutture istituzionali diverse da quelle circa i contenuti. Questo non significa negare che parecchi scienziati abbiano partecipato anche a decisioni del primo tipo.»

Questo terzo piano di riflessione pone una differenza sostanziale tra il marxismo ed il positivismo. Il primo coglie la contraddizione insita nel progresso scientifico, che riflette i rapporti sociali di produzione e diviene strumento nelle mani del capitale. Il secondo non conosce questa contraddizione, si limita a valutare la scienza nel suo carattere astratto, presunto neutrale nei confronti dei rapporti sociali, e dunque non coglie questa dinamica contraddittoria del progresso scientifico e del progresso storico. Il positivismo diventa l’ideologia della borghesia in ascesa, espressione della fiducia nel futuro e del dominio di classe.  Al contrario il marxismo coglie l’elemento di classe insito nell’utilizzo della scienza e si pone la necessità di liberare la scienza e le sue scoperte.

Marx nei Grundrisse mette in evidenza come la scienza, applicata alla produzione, agisce sull’operaio attraverso il potere della macchina, come potere esterno, «In quanto poi il macchinario si sviluppa con l’accumulazione della scienza sociale, della forza produttiva in generale, non è nel lavoro, ma nel capitale che si incarna il lavoro sociale in generale. »  Se prendiamo le considerazioni di Marx sul ruolo delle macchine nell’industria, Marx mette in evidenza come le macchine, nel capitalismo, lungi dal diminuire lo sfruttamento dell’uomo, lo intensificano. Esse sono un vero e proprio strumento del conflitto capitale/lavoro in mano al capitale. Sono pagine attualissime, che emergono anche dalle cronache moderne in cui domina la discussione sulla “produttività”. L’introduzione della macchina e la sempre maggiore meccanizzazione dell’industria provoca disoccupazione, aumenta la competizione tra i lavoratori, abbatte i livelli salariali. Ma per Marx il socialismo non è l’abbattimento della macchina, ma l’abbattimento dei rapporti di classe che determinano, tra le altre cose, anche il ruolo della macchina in una determinata fase storico-sociale. Marx insegna che è necessario imparare a «distinguere fra la macchina e il suo impiego capitalista» e dirigere gli attacchi «non contro il mezzo materiale di produzione, ma contro il suo modo sociale di sfruttamento.» Criticando Proudhon, scrivendo che è del tutto assurdo trattare la macchina come una categoria economica, Marx afferma: «L’applicazione delle macchine è uno dei fattori che determinano i rapporti dell’attuale sistema economico, ma il modo in cui le macchine sono utilizzate è cosa del tutto diversa dalle macchine stesse. La polvere rimane tale sia essa usata per ferire un uomo o a curarne le ferite.»

Il socialismo moderno, scientifico rifiuta il concetto di un antistorico ritorno al lavoro manuale, pre-industriale. Lo sviluppo delle forze produttive, liberato dal dominio di classe, e posto al servizio reale dell’umanità liberata, è un elemento chiave del marxismo –  come vedremo nei futuri corsi – elemento idoneo a ridurre l’orario di lavoro necessario e dunque a far lavorare meno tutti. Non c’è allora alcuna nostalgia, alcun guardare al passato, nessun prefigurarsi ritorni a società immaginarie. È la negazione delle negazione che anche qui esplica tutta la sua funzione nella dialettica della storia, che esclude ogni ritorno alle condizioni preesistenti, ma proietta la storia sempre su un piano altro. Stesso discorso vale allora per la scienza presa nel suo complesso.

«Queste contraddizioni – dice Geymonat – non ci portano affatto a negare il contributo che la scienza ha recato e reca alla civiltà: esse ci portano unicamente a interpretare in forma dialettica, non dogmatica, questo contributo. Interpretarlo in forma dialettica significa, per un lato, non attribuire al progresso scientifico un potere magico, non vedere nella scienza un’attività metastorica, sganciata da tutti i travagli e le lotte della società, ma significa, per l’altro lato, non dimenticare […] che ogni progresso nella conoscenza della realtà ha sempre avuto un’effettiva funzione liberatrice». Ogni progresso della conoscenza dice Geymonat ha sempre avuto funzione liberatrice, in quanto l’aumentare delle nostre conoscenze contribuisce a farci uscire dal buio della religione, della superstizione, e tutto questo deve essere però interpretato in forma dialettica.

Il metodo scientifico in sé è uno strumento, l’utilizzo e la direzione di utilizzo dello strumento sono determinati storicamente sulla base dei rapporti di classe. Non è accantonando il metodo scientifico che si può eliminare questa contraddizione, come alcuni critici reazionari assumono, ma al contrario liberando la scienza dal suo ruolo di asservimento al capitale. Non è la semplice evoluzione della scienza a portare progresso per tutti, non è il semplice progredire della scoperta scientifica che porterà alla liberazione dell’uomo. Nel marxismo il progresso storico non è evoluzione semplice, spontanea, a cui è stato ridotto nella versione socialdemocratica di Kautsky (e non con Engels come qualcuno sostiene, sbagliando). Esso necessità dell’intervento liberatorio della massa, dello sviluppo dell’antitesi. Questo sviluppo, che altro non è che la lotta di classe, porta anche la scienza su un altro piano di sviluppo, liberandola dalla funzione di asservimento al dominio di classe. La sintesi non è semplice negazione, ma negazione della negazione. Il progresso contraddittorio della scienza sotto il capitalismo, come ogni altro elemento sociale, viene posto allora in altra luce. Ciò che viene negato non è lo strumento, ma i rapporti di classe che ne determinano l’utilizzo, che mediante il loro rovesciamento,  viene posto sotto il controllo del proletariato, mutando la sua natura ultima. La macchina cessa di essere strumento del conflitto capitale/lavoro e diviene alleata dell’uomo, così come la scienza che liberata dalla gabbia del profitto, può finalmente spiegare a pieno la sua funzione emancipatrice.

* estratto dal corso di formazione su “materialismo dialettico e materialismo storico” tenuto in occasione del 1° corso di formazione nazionale quadri FGC.

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