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massimo troisi

A cosa serve un Oscar quando si ha l’affetto di un popolo?

Venti anni fa moriva Massimo Troisi, appena poche ore dopo aver finito di girare le ultime scende del film “Il Postino”. Troisi era malato di cuore, da tempo. Sapeva di dover subire una nuova operazione, ma decise di non rimandare la realizzazione di un film a cui teneva particolarmente.  Girò con fatica, spesso utilizzando una controfigura e chiunque ricordi il viso giovane di Troisi in “Ricomincio da tre”, “Non ci resta che piangere”, o negli sketch  televisivi sente inevitabilmente una stretta alla gola nel vedere quel volto affaticato. “Il postino” era un film voluto da tempo, per il qual Troisi aveva impiegato ogni sua energia. La coronazione di un artista certamente, ed una trama che lo aveva particolarmente appassionato fin dalla lettura del libro di Skàrmeta “Il postino di Neruda” ambientato durante il soggiorno del poeta cileno in Italia.

Troisi non parlava molto di politica, anzi quasi mai. Sono poche le occasioni pubbliche in cui fece trapelare da attore le sue convinzioni. Quando il Napoli vinse lo scudetto in un’intervista che lui stesso scrisse a Gianni Minà riferendosi a chi aveva definito il Napoli “campione del nordafrica” rispose dicendo che preferiva essere “campione del nord africa piuttosto che fare striscioni da Sud Africa”. Erano gli anni dell’Apartheid e il riferimento non casuale. Le sue idee erano abbastanza chiare, come ha ricordato recentemente Lello Arena in un’intervista, parlando dei tempi del movimento studentesco e della politica nelle scuole. «Quando andava alle assemblee studentesche chiedeva sempre la parola perché era uno con delle idee già formate. Con un però: il suo stile, la sua mimica facciale e anche un punto di vista strampalato rispetto all’epoca, provocavano ilarità. Quindi esprimeva concetti agguerriti con una platea che rideva sempre. Ne usciva addolorato e ci chiedeva: “Ma che vita mi aspietta se la gente ride quando dico cose serie”?’» Alla fine di questo non prendersi sul serio aveva fatto una maschera e uno stile. Ma aveva in parte sempre rimpianto di non essersi impegnato di più. Lo diceva spesso parlando di Pasolini. «Quando penso a un Pasolini, a come agiva rispetto alla società, alle cose, mi stimo molto poco.» aveva dichiarato in un’intervista. “Il postino” era un film voluto anche per questo.

Dopo la morte di Troisi “Il Postino” fu candidato a cinque Oscar, e subito scoppiò la polemica in America sul fatto che fosse un film comunista, di propaganda, antiamericano. Le polemiche privarono Troisi di un oscar postumo che avrebbe di sicuro meritato per la straordinaria interpretazione e la perfetta fusione con il personaggio di Mario Ruoppolo, il postino di Neruda per l’appunto. Avevano ragione gli americani in effetti e la loro scelta è lineare e comprensibile, nel paese che ha prodotto il maccartismo e che ha fatto per necessità e convinzione dell’anticomunismo la propria bandiera.

Non perché “il postino” fosse un film di propaganda, come da banali osservatori lo hanno definito, ma perché il postino è molto di più. E’ un film che parla del legame tra un poeta e un uomo del popolo come tanti, della capacità della cultura di rompere ogni schema sociale e tradursi in linguaggio universale, emancipatore. Ed è proprio la funzione emancipatrice della cultura, incarnata dalla figura di Neruda, il “poeta del popolo” che spinge un uomo del popolo ad assumere coscienza della propria condizione e prendere in mano il suo destino in ogni campo della vita, dalle relazioni personali a quelle sociali. La stessa cultura, assume qui nell’intreccio tra poesia e consapevolezza del proprio ruolo nella storia, la sua funzione più progressista in totale contrapposizione all’idea elitaria e classista della conoscenza. In questo senso è un film politico.

Neruda non allontana a prescindere l’uomo del popolo in virtù del suo ruolo, ma anzi assume in sé quella funzione emancipatrice della cultura, rimanendo aperto allo stesso tempo al contributo dell’amico, della semplicità e della schiettezza della cultura popolare, in cui l’uno diviene per l’altro fonte di ispirazione e accrescimento reciproco. Neruda non è un semplice intellettuale, è un’intellettuale comunista. Un’intellettuale organico come lo avrebbe definito Gramsci, per il quale non esiste differenza tra il proprio lavoro militante e la piena immedesimazione e compartecipazione ad una causa universale.

E la poesia diventa proprio il tramite universale in cui i due mondi sociali del poeta e del postino vengono a incontrarsi e fondersi, abbattendo ogni steccato di classe. È con la poesia che Mario Ruoppolo riesce a superare la sua timidezza e conquistare Beatrice Russo, la bella ragazza dell’isola che diventerà sua moglie. Ed è con la poesia e la consapevolezza del malaffare democristiano nel governo del’isola e di tutta Italia, che inizia anche il suo impegno politico, fino alla sua morte sul palco di una manifestazione del PCI. Questa storia, così fusa con la nostra storia collettiva appariva a Troisi il mezzo ideale per un film diverso, in cui il suo stile e le sua capacità di attore toccassero un punto ancora più elevato e soprattutto, a modo suo e con convinzione profonda, riuscisse in qualche modo a toccare un tema che sentiva di volere affrontare. Con “Il Postino” Troisi in un certo senso voleva rompere quell’immagine apparentemente indifferente e disimpegnata, voleva fare la sua parte, come aveva sempre dichiarato pensando a Pasolini.  Troisi non è Neruda, è l’uomo del popolo che si emancipa nella trama del film e intimamente nel suo apporto con sé stesso, nella sua considerazione di artista. Chiunque conosca la storia italiana sa quanto, nel personaggio inventato del postino, la finzione assuma un carattere tanto più reale. Il contesto di un sud arretrato economicamente e culturalmente in cui i comunisti diventano elemento di emancipazione culturale, sociale e politica del popolo è cosa nota, evidentemente e comprensibilmente non gradita oltre oceano. Così come il tema del Sudamerica, che nella figura di Neruda ricorda agli USA le proprie colpe. Un film che non poteva vincere l’oscar, e di certo non con Troisi, sebbene la sua interpretazione lo avrebbe senza dubbio meritato. Ma metà degli anni ’90 il trionfo del capitalismo voleva rilegare ad una totale damnatio memoriae tutto quello che avesse a che fare anche lontanamente, come nel caso de “Il Postino”, con la storia dei comunisti. Un nuovo maccartismo, misto al sentimento della vittoria, impedì a questo film e al suo protagonista il riconoscimento che avrebbe meritato.

Ma a cosa serve vincere un Oscar se si ha l’affetto, la stima e il ricordo di un popolo intero? A vent’anni dalla morte di Troisi, non è certo la perdita dell’Oscar meritato a renderlo meno popolare, e a colmare il vuoto della sua perdita. Se esistesse un premio per l’affetto popolare, Troisi lo vincerebbe sicuramente e a furor di popolo “Il Postino” sarebbe uno dei film più premiati della storia del nostro cinema. Chi se ne frega di Hollywood.

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