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Non riaprite l’Unità.

di Alessandro Mustillo

Pochi mesi fa, al termine di una lunga vicenda, il giornale l’Unità veniva chiuso cessando di uscire nelle edicole. In effetti non si è trattato della prima volta, già alcuni anni fa il giornale aveva avuto un cambio editoriale ed era stato rimesso in sesto. Dallo scioglimento del PCI ad oggi ha vissuto fasi alterne, con una tendenza generale al ribasso delle vendite, e ovviamente con uno stravolgimento totale della linea politica, che ha seguito passo passo le note vicende che hanno segnato la storia del filone maggioritario del PCI-PDS-DS-PD. In un’intervista al Fatto Quotidiano il nuovo editore, Veneziani, ha detto di voler portare l’Unità nuovamente in edicola a partire dal 25 aprile di quest’anno, tribunale fallimentare permettendo. Le dichiarazioni con cui ha accompagnato questa decisione fanno abbastanza riflettere. «se il giornale ha chiuso è perché non incontrava più il gusto della gente» ha detto Veneziani, sostenendo tra l’altro: «Gramsci ha scritto pagine importantissime e attuali” non si può “portare avanti un rendiconto nostalgico di tempi che non esistono più». In sostanza l’operazione è chiara: rilanciare un giornale, sfruttare come si direbbe oggi in termini commerciali un brand storico, proseguire, anzi ampliare al massimo la linea di questi anni stravolgendo il giornale e la sua funzione, rendendolo organo del nuovo corso renziano del Partito Democratico.

Ma perché allora riaprire l’Unità? Non sarebbe più giusto e doveroso consegnare quel giornale alla storia, scusandosi anche della gestione politica che negli ultimi anni ne è stata fatta prima dai DS e oggi dal PD? Veneziani dice il giusto quando afferma che l’Unità in questi anni non incontrava più il gusto dei lettori, mi permetto di aggiungere che il mondo in cui l’Unità è nata, è stata concepita, ed ha avuto la sua stagione non esiste più. Era un mondo di discussione degli articoli nelle sezioni di partito, di diffusione militante del giornale, di una teoria politica e del ruolo dei partiti, e del partito comunista in particolare tra le masse, che oggi è inconcepibile. L’Unità non ha incontrato più il sostegno del popolo quando è diventato un giornale come gli altri, di un partito come gli altri, espressione di una politica in cui ogni partito è un comitato di affari di uguale natura. Perché non avere fino in fondo il coraggio di dire che non c’è alcun residuo di continuità con quella storia?

Dietro quel nome c’è una storia, una linea politica, una riflessione strategica sul ruolo e la linea di un partito che non c’è più. Basta leggere le motivazioni con cui allora Gramsci propose l’Unità come titolo «puro e semplice, che avrà un significato per gli operai e avrà un significato più generale perché credo che dopo la decisione dell’Esecutivo allargato sul governo operaio e contadino noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione dei rapporti tra operai e contadini.» Una riflessione dell’Internazionale Comunista adattata alla condizione italiana che anche nel suo primo editoriale scritto dallo stesso Gramsci, sarà confermata. In quell’editoriale si parla proprio della «tattica del fronte unico degli operai e dei contadini», da cui l’Unità, che in Italia era la giusta reazione alla sconfitta del biennio rosso, la cui causa principale era stata proprio la passività delle masse contadine del sud, e che si converte nell’analisi nazionale in questione propriamente nazionale oltre che di classe: l’unità come unità di azione e come unità delle masse popolari di tutta la nazione. E quell’idea nel bene e nel male, nelle vittorie e nelle sconfitte, con le sue contraddizioni e i suoi errori, sarà comunque quella del PCI nella sua storia.

Cosa residua oggi nel PD renziano di questa storia? Assolutamente nulla! Come si potrebbe chiamare oggi un giornale del PD? Quali sono gli interessi che rappresenta, la strategia che propugna? Potrebbe chiamarsi “il compromesso”, “la resa”, “il tradimento”, “l’illusione” ma non certo l’Unità. Al netto delle questioni giuridiche delle maggioranze congressuali che consegnano l’eredità legale di nomi, patrimoni, storie, spesso ottenute con il sangue ed il sudore dei militanti comunisti del passato, c’è una questione di opportunità politica e dignità di fronte alla storia. Nessun articolo del codice civile potrà mai assicurare al PD la titolarità morale, ideale e storica del patrimonio del PCI e dell’Unità. Quel patrimonio non appartiene al PD, appartiene ai militanti comunisti di oggi, appartiene nel complesso a tutta la nazione e alla sua storia. Ogni appropriazione di pezzi di quella storia, dalle sezioni ai giornali, ai simboli (ancora detenuti dalle varie fondazioni facenti capo al PD) pur legalmente legittima non lo è moralmente e storicamente.

Sarebbe giusto e corretto trarne le conclusioni. Non guardare all’Unità come un brand ma come un giornale che ha avuto una storia, grande e importante che va rispettata. Si riassumano i lavoratori (magari a condizioni migliori), si crei un nuovo giornale, ma non si abusi ancora del giornale fondato da Gramsci. Si consegni quel patrimonio alla storia, di cui a noi comunisti, analizzando tradimenti, errori, ma anche vittorie e pagine gloriose, spetterà costruire un nuovo capitolo a partire da oggi.

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