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Soglie, rappresentanza e lotta di classe.

Bisogna chiudere il ciclo delle lotte dei lavoratori nel nostro paese, chiudere l’anomalia italiana che aveva visto nel secolo scorso un ruolo preponderante dei lavoratori nella vita nazionale. Colpire quando i lavoratori sono più deboli. Questo sembra essere l’imperativo del governo Renzi, che conferma ancora una volta l’assunto di un vecchio capitalista come Gianni Agnelli, secondo il quale: «le migliori riforme di destra, possono farle solo i governi di sinistra». Così questo autunno sembra condizionato dalla proposta del ministro Damiano di dare una stretta sul diritto di sciopero e sulla rappresentanza sindacale. Per capire cosa sta accadendo davvero in Italia vanno messe in rapporto alcune considerazioni.

Dal 2007, anno dell’inizio della crisi, l’Italia ha perso un quarto della propria produzione industriale. Centinaia di migliaia di piccole aziende hanno chiuso, molte delle medie/grandi hanno delocalizzato la produzione in paesi a minore costo del lavoro. Solamente i grandi monopoli hanno guadagnato considerevolmente dalla crisi, con un evidente aumento dei processi di concentrazione e centralizzazione del capitale. Oltre 1 milione e 200 mila posti di lavoro sono stati persi tra il 2008 e il 2014. Quelli che sono rimasti sono stati sottoposti a condizioni durissime: diminuzione salariale, aumento degli orari di lavoro, maggiore precarizzazione, demansionamenti, trasferimenti territoriali. La reazione alla crisi del capitale ha come primo mezzo la modifica del rapporto tra capitale fisso e variabile, ossia l’aumento della produttività lavorativa attraverso la riduzione salariale e l’aumento degli orari di lavoro. Solo attraverso questa ricetta il capitale può nel breve e medio periodo tentare di rimediare agli effetti della crisi. Una risposta di breve respiro tuttavia.

Con il Jobs Act il governo Renzi ha realizzato una riforma strutturale legata agli interessi della Confindustria, trasformando di fatto il lavoro stabile in precario, consentendo i demansionamenti facili, abolendo quanto rimaneva dell’articolo 18, già fortemente ridimensionato dal governo Monti. Il tutto segue alla riforma Fornero, alla politica di riduzione del peso della contrattazione collettiva nazionale a vantaggio della contrattazione aziendale (su cui siamo sicuri che nel breve periodo vi saranno nuovi interventi). Tutto questo ovviamente ha comportato una crisi nelle relazioni politiche e sindacali, ha fatto riemergere in alcuni settori una forte tensione sociale, ha comportato che il conflitto capitale-lavoro tornasse nella mente dei lavoratori. Se la maggior parte della popolazione oggi si sente parte della classe operaia e non più della piccola borghesia, come un tempo accadeva durante la sbornia degli anni ’90, vuol dire che lentamente qualcosa sta accadendo nel Paese. La realtà di un conflitto che appare sopito, riemerge nei fatti, anche se esso non ha ancora la dovuta organizzazione e forza di ergersi a elemento determinante della vita politica nazionale.

Ma poiché le condizioni oggettive stanno maturando in fretta e la crisi lungi dall’essere superata è solo all’inizio e l’Italia non potrà mai “tornare ai livelli pre-crisi” il governo gioca la sua carta d’anticipo, cercando di sfruttare un momento che è contrassegnato ancora da una oggettiva debolezza nella coscienza organizzativa dei lavoratori, colpendo le possibilità di costruire un sindacalismo di classe e conflittuale, di cui oggi la classe operaia ha sempre più bisogno.  Il governo studia così l’ennesima riforma della rappresentanza, elemento da sempre congeniale a stroncare qualsiasi processo di costruzione di un sindacalismo conflittuale che si opponga al dominio del sindacato moderato, concertativo ed in ultima istanza filo-padronale. Tutte le stagioni di grandi riforme peggiorative della condizione dei lavoratori pubblici e privati sono state accompagnate dall’introduzione di soglie, da leggi che tentavano in modo aperto di ostacolare la formazione di sindacati conflittuali e reprimere ogni forma di organizzazione di classe dei lavoratori.

Ma l’attacco che il governo intende oggi portare avanti è ben più ampio, perché intacca chiaramente il diritto di sciopero. Sia chiaro non si tratta della prima volta: già negli anni ’90 la legislazione sugli scioperi vide una riduzione specialmente nel settore pubblico e nei trasporti, che voleva privare di fatto i lavoratori di questo diritto. Non è un caso che proprio in questi settori si siano sviluppate però alcune delle forme più conflittuali di sindacato, che pur nella loro complessiva insufficienza, hanno tentato di organizzare i lavoratori oltre le strette concertative e inconcludenti del sindacato moderato. Si parla di una soglia del 30-40% per la convocazione di uno sciopero, norma che se dovesse entrare in vigore impedirebbe di fatto a ogni sindacato di convocare autonomamente uno sciopero, lasciando il monopolio a CGIL-CISL-UIL. Per avere un’idea di cosa significhi per i lavoratori questo basta considerare la reazione della CGIL all’approvazione del Jobs Act da parte del governo e la convocazione dello sciopero “ a babbo morto” successivamente all’approvazione della legge delega, che di fatto consegnava al governo e alla Confindustria una delega in bianco.

Non è un caso poi che la proposta del ministro Damiano arrivi in un periodo di crisi del sindacato concertativo. Lo scandalo delle pensioni d’oro della CISL, i dati sulla riduzione del numero degli iscritti per la CGIL. Indipendentemente dal gioco di dati e tesseramenti (che spesso non corrispondono poi ad alcuna capacità reale di mobilitazione sui luoghi di lavoro) è chiaro che il sindacalismo concertativo vive oggi una profonda crisi strutturale. La CGIL è schiacciata da due fronti: da una parte subisce i processi economici in atto e l’attacco padronale, come nel caso della FIAT e delle aree più critiche del sindacato, dall’altra non rinuncia alla politica concertativa pur in mancanza di qualsiasi interlocutore politico, che non sia l’inutile minoranza del PD. Difende un modello quello della concertazione che ha distrutto il movimento operaio in Italia, che ha prodotto disastri in cambio di briciole, e che oggi non è più in grado neanche di lasciare le briciole. Il sindacato è da tempo un sindacato di pensionati, che sono più della metà degli iscritti, un sindacato di tessere e non di lavoratori, un sindacato di dirigenti che salvo pochissimi casi, legati ad alcune aree e categorie, non hanno di fatto alcun rapporto reale con i lavoratori.

La riforma della rappresentanza e l’introduzione delle soglie per la convocazione degli scioperi diventa in questa fase un sostegno diretto da parte del governo ad un modello quello del sindacato moderato, contro il sindacato conflittuale e ogni prospettiva di sindacato di classe, un sostegno all’aristocrazia operaia che nel sindacato moderato trova il suo naturale riferimento, ed un attacco alla prospettiva di organizzazione della classe operaia in un’ottica conflittuale e di classe. Se il governo da una parte continua a lavorare complessivamente per l’indebolimento del sindacato, dall’altra sostiene in ultima istanza il sindacato moderato e concertativo per evitare un’organizzazione autonoma dei lavoratori da un punto di vista di classe. Non vi è dunque contraddizione tra gli attacchi pubblici alla CGIL, specialmente quando essa esprime pareri più critici, e il sostegno legale al modello organizzativo dei sindacati concertativi, in quanto strutturalmente perdenti e non in grado di incidere realmente in termini di lotta di classe.  Quando Renzi attacca il sindacato punta a colpire l’idea stessa dell’organizzazione dei lavoratori sul posto di lavoro, l’ottica di unità della classe operaia, punta a inserire tra i lavoratori l’idea che soli e individualmente è meglio che insieme e uniti. Nel far questo fa leva sui limiti, la corruzione del sindacalismo concertativo, che poi è il modello che il governo difende nei suoi interventi legislativi. Perché in realtà la paura è quella che dalla crisi del sindacato moderato non si arrivi all’ulteriore parcellizzazione della classe operaia ma avvenga come reazione la nascita del sindacato vero, del sindacato di classe, e soprattutto che i lavoratori comprendano che in questa fase la possibilità di vincere non è legata solo alle rivendicazioni di natura economica, ma che è fattore essenzialmente politico.

Quali saranno le decisioni del governo, in ogni caso i comunisti saranno al fianco dei settori più avanzati dei lavoratori, punteranno alla massima unità dei lavoratori contro i provvedimenti che minano la possibilità di organizzazione della classe operaia, che danno respiro al sindacalismo moderato e concertativo. La lotta di classe si è svolta in questo Paese in condizioni ben peggiori, sotto il fascismo, sotto la minaccia della polizia, dell’esercito, persino delle organizzazioni mafiose che hanno lottato unitariamente per spezzare il processo di emancipazione della classe operaia e delle masse lavoratrici, per combattere il sindacalismo di classe, per sostenere gli interessi padronali delle grandi imprese monopolistiche. Ogni misura del governo sarà assolutamente insufficiente di fronte alla realtà economica e di fronte alla capacità dei comunisti di unire e organizzare i lavoratori su una prospettiva rivoluzionaria.

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