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Test di ingresso all’università, ecco perché il merito c’entra poco

Iniziano oggi i test di ingresso nella facoltà di medicina. Migliaia di studenti si accalcano nelle università, sperando di superare questa “selezione”. La maggior parte di loro, inutile dirlo, si vedrà chiudere la porta in faccia. Un posto ogni 11 candidati, più o meno questa è la proporzione. Come ogni anno si sprecano i discorsi sulla meritocrazia, di chi sostiene che questa selezione sia necessaria, spiegando quanto sia giusto valorizzare “il merito”. Ma siamo sicuri che il merito c’entri poi così tanto?

Molto spesso si parla del test d’ingresso come se a determinare il superamento o meno di quella selezione sia un semplice elemento quantitativo, pari all’impegno dedicato allo studio per la preparazione del test. Se si studia lo si passa, nella percezione generale. Se così fosse, se il punto di partenza fosse lo stesso per tutti e contasse semplicemente lo studio, sarebbe forse più sensato parlare di merito. Ma la realtà come sempre è un po’ più complessa, e a incidere sono molti più fattori, la maggior parte dei quali sono legati a vere e proprie barriere economiche e alle disuguaglianze esistenti nella società.

Quando si parla di “preparazione” si pensa allo studio, ma non si tiene conto, ad esempio, del fatto che c’è chi viene da una scuola privata, da un prestigioso liceo classico o scientifico situato in centro, e chi vive in periferia, e ha frequentato un istituto professionale o una scuola “di serie B”. Non si considera che questa scelta avviene a 14 anni e che molto spesso su di essa pesano le possibilità economiche della famiglia, perché iscriversi al primo anno di un liceo classico costa il doppio che iscriversi a un professionale.

Da una parte c’è chi si prepara al test con corsi privati che arrivano a costare anche 3000€, chi può acquistare libri su libri nonostante i costi esorbitanti, chi può iscriversi a più di un test pagando tutte le quote, aumentando le possibilità di passarne almeno uno. Dall’altra c’è chi lavora d’estate, o anche tutto l’anno, per pagarsi gli studi o aiutare la famiglia, e il test lo prepara studiando di notte; chi deve badare ai fratellini perché i genitori sono al lavoro, chi vive in 50 metri quadri, condividendo una stanza con i propri fratelli, ma non sa dove andare a studiare perché vive in periferia. Sicuramente, anche nella seconda categoria esistono ragazzi che “ce la fanno”. Ma si può affermare che, nel complesso, l’elemento caratterizzante il test sia proprio il merito?

La realtà è che un test che non tiene conto di tutte queste disuguaglianze, che fanno sì che non si parta tutti effettivamente dallo stesso punto, finisce per “fotografare” proprio la disparità dovuta a una serie di barriere economiche. Ciò che viene chiamato merito solo in minima parte è dovuto all’impegno o alle capacità effettive dello studente, meno di quanto non sia dovuto al sedimentarsi nel tempo di una serie di disparità che finiscono per fare la differenza. In queste condizioni ogni forma di selezione che prescinda da tutti questi elementi, per quanto si possa nominare il merito, finisce per tramutarsi in una selezione di classe, che rende l’università sempre meno accessibile non a chi non se la “merita”, ma a chi non può permettersela…

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