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«Turni da 10-12 ore, 4 euro l’ora e contratti farsa». Le condizioni di lavoro nel settore orafo toscano

Abbiamo intervistato Luca (nome di fantasia), un ragazzo immigrato che lavora ad Arezzo come operaio metalmeccanico del settore orafo ed è addetto all’uso della macchina pulitrice, la quale ha la funzione di lucidare e rifinire i pezzi d’oro/argento da eventuali difetti derivanti dal processo produttivo. Il settore dell’oreficeria ha da sempre contraddistinto il tessuto produttivo di Arezzo nel corso dei secoli: dai manufatti artigianali di epoca etrusco-romana al boom industriale e manifatturiero della città vissuto negli ultimi quattro decenni del secolo scorso, il quale è stato possibile soprattutto per via delle continue liquidità provenienti dalla loggia massonica P2 e dal suo gran maestro, Licio Gelli, definito più volte dall’attuale sindaco Ghinelli “cittadino illustre”.

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Puoi descriverci a grandi linee il tuo ambiente di lavoro?

Lavoro in una piccola fabbrica insieme ad un’altra ventina di operai, dove le condizioni sanitarie richieste per poter lavorare vengono rispettate solo minimamente: manca la fornitura di mascherine obbligatorie, mentre per quel che riguarda il distanziamento interpersonale, le dimensioni della struttura non permettono di mantenerlo adeguatamente. Io posso ritenermi anche “privilegiato”, dato che essendo specializzato nell’uso della macchina, ho un piccolo spazio riservato dove poter stare e muovermi. La mia mansione mi permette anche di avere delle condizioni salariali migliori (si fa per dire, in quanto le condizioni generali e le tutele sono degne dell’epoca della rivoluzione industriale in Inghilterra) rispetto ai miei colleghi che stanno in catena di assemblaggio. I padroni sono stranieri, provengono principalmente da Pakistan e Bangladesh; hanno molti rapporti con gli imprenditori medi/piccoli locali per quel che riguarda la divisione e la produzione del lavoro, in quanto per entrambe rappresenta un affare redditizio, calpestando al tempo stesso non solo i diritti di base dei lavoratori, bensì anche la loro stessa dignità.

 

Come avviene la contrattualizzazione tra padrone e lavoratore?

La stipula del contratto in questo ambiente può svolgersi principalmente in due modi: firmando un contratto fasullo, in cui risulta che tu sei assunto per un massimo di 4 ore lavorative (come un part-time per intendersi) ma in realtà ne lavori 10-12 al giorno con una paga che varia a seconda della mansione alla quale sei destinato, che non è minimamente in linea con il contratto collettivo nazionale; io prendo all’incirca 4/5 euro all’ora grazie alla mia conoscenza nell’uso della pulitrice ma agli altri spettano solitamente paghe orarie che si avvicinano a meno di 4 euro. L’altro modo in cui il rapporto di lavoro può essere avviato, riguarda una vera e propria “intesa verbale” tra padrone e operaio, senza avere materialmente niente su cui rivalersi in un’ipotetica sede legale da parte di quest’ultimo. Naturalmente, in quanto lavoratori sottoposti a queste condizioni non abbiamo il minimo diritto all’assistenza medica in caso di infortunio, salvo rari casi in cui è evidente, altrimenti i padroni preparano una scusa plausibile in rapporto all’entità dell’infortunio (cadute accidentali e simili); per non parlare poi delle ferie e dei permessi che sono dei veri e propri miraggi.

 

Lavori anche con persone che non sono in regola con i documenti?

Si, sono in numero abbastanza alto i lavoratori che si trovano in queste condizioni e che di fatto non esistono da un punto di vista formale. La situazione che vivono è a dir poco vergognosa: per quello che ho potuto capire, i padroni tornano nella loro nazione di provenienza e spesso nelle loro città d’origine si dotano di “informatori” che hanno il compito di aggiornarli su eventuali interessati alla loro offerta di lavoro. Le promesse sono di un cambio radicale di vita e di un lavoro sicuro con una paga decente, ingannandoli completamente su ciò che li aspetta non appena arrivano in Italia. Considerando le circostanze che lasciano (precarietà, abbandono e tutto ciò che consegue da questi due fenomeni) rispetto a quelle cui teoricamente vanno incontro, molti giovani lavoratori si fanno conquistare dalla proposta, talvolta trasferendo l’intera famiglia. I padroni si occupano anche, sia direttamente che indirettamente, del loro trasporto, fissando una quantità di debito mensile che il lavoratore deve restituire per il passaggio: al fine di garantire il pagamento da parte di quest’ultimo, i padroni li dotano di carte di credito (delle quali naturalmente hanno tutti i dati) e quando arriva lo stipendio, ritirano quanto pattuito. I controlli da parte dell’Ispettorato del Lavoro sono abbastanza rari e quando sono effettuati, spesso sono condotti negli orari in cui secondo contratto risultano essere presenti i lavoratori “part-time”, risultando così in regola. In questa situazione, per garantire la lealtà del lavoratore non in regola con i documenti, i padroni usano il loro potere per persuadere chiunque sia pronto ad alzare la testa e lottare, utilizzando spesso l’arma del terrorismo psicologico e del ricatto.

Il lavoro a cottimo è molto diffuso?

Per quello che so, sì: solitamente a questo tipo di lavoro sono sottoposte le donne in quanto gli uomini servono in catena e sono di gran lunga più produttivi per i padroni. Non conoscono orario (si vedono le luci delle stanze accese fino a tarda notte spesso e volentieri) e devono riuscire a conciliare il tutto con l’educazione dei figli e la vita domestica, cosa non facile considerando che spesso si tratta di famiglie molto numerose. Solitamente il loro lavoro è quello di completare merce non troppo pregiata in termini di materiali utilizzati per la loro produzione ma che comunque per il prezzo ai quali vengono venduti, rappresentano una fetta di mercato accessibile per molte persone: mi riferisco principalmente a braccialetti, orecchini, collane e quant’altro. La domanda che tante volte mi sono posto è se vengono fatti lavorare anche i loro figli e figlie, al posto di avviarli verso lo studio, ma a questa domanda non so rispondere.

Che rapporti ci sono tra i padroni stranieri ed italiani?

Come accennavo prima, si trovano d’accordo sul dividersi la lavorazione di determinate merci che al padrone italiano magari costano più per quel che riguarda le spese di produzione, mentre il suo omonimo pakistano/bengalese gira molte fabbriche del territorio (ma non solo, oltre che nell’aretino di solito si dirigono anche nelle zone industriali del Valdarno fiorentino e talvolta anche in qualche stabile dei distretti industriali di Prato) in cerca di questo lavoro “scomodo”. La situazione complessiva a cui ho fatto riferimento però non è nemmeno del tutto corretta, in quanto queste collaborazioni hanno subìto delle variazioni nel corso del tempo: se sicuramente una decina-quindicina di anni fa gli attuali padroni stranieri si affacciavano a questo tipo di produzione e di mercato, con il passare del tempo hanno sempre più consolidato le loro posizioni grazie ai meccanismi di sfruttamento che ho citato prima e utilizzando in maniera intelligente gli appigli che i padroni italiani hanno concesso loro, al fine di restare più competitivi sul mercato locale e non. Questa continua cessione di lavoro ha portato i padroni stranieri a sviluppare una concorrenza che potremmo definire sleale nei confronti dei padroni italiani che si sono affidati a loro, aumentando i propri volumi di produzione ma anche il livello generale di quest’ultima; tale aumento corrisponde proporzionalmente a un flusso maggiore di persone provenienti da Pakistan e Bangladesh da far lavorare in condizioni disumane come schiavi. Non so se sia giusto dire che questi rapporti si stiano incrinando ma è sicuro che i padroni italiani, al fine di avere profitti più diretti e meno costosi, hanno contribuito ad alimentare un fenomeno che ora rischia di metterli in una posizione di svantaggio, il tutto sul sudore e la fatica di noi lavoratori.

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