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Sin City: il ritorno del noir nel fumetto

*di Francesco Raveggi

Nello sconfinato panorama del comics americano, fatto oramai di operette che mirano all’intrattenimento puro e semplice, una nota di merito va certamente a “Sin City”, una delle creazioni più originali e sicuramente l’opera più famosa di Frank Miller. Uscito per la prima volta nel 1991, conta attualmente 7 volumi, più uno che sta venendo progettato in questi mesi. Osannata dalla critica e amata dai fan (tanto da ispirare per ora ben due film con cast di tutto rispetto, cinematograficamente parlando), quest’opera ha conquistato una larga fetta del pubblico americano ed europeo.

Ma perché questo successo? Cosa contraddistingue Sin City rispetto a molti altri comics che ci sono in circolazione?

Certamente Miller è un autore di successo che si è già formato negli anni e che ha avuto il tempo di avere un proprio stile di disegno, ma Sin City ha quel tocco in più rispetto anche ad altre sue opere come “300” (si, quel famoso 300) o “Ronin”. Ambientato in una metropoli americana chiamata ‘Basin City’, Sin City riprende quelle atmosfere noir anni ’40-’50, tipiche ad esempio del Batman delle origini, in un melting-pot che unisce veicoli e vestiti anni ’30 ad una modernità di tecnologie impressionante. Una città ispirata ai romanzi di Dick, fatta di quartieri ricchissimi, pieni di grattacieli ed opulenze, contrapposte invece alla “città vecchia”, la periferia della città gestita dalle prostitute, o ai sobborghi cittadini fatti di case fatiscenti e povertà. Attenzione, però: ricchezza non vuol dire giustizia. Paradossalmente, troviamo più giustizia nella città vecchia, dove le prostitute si sono organizzate per tenere lontana la polizia corrotta e la mafia, piuttosto che nei quartieri centrali dell’alta finanza, dove si annida ogni genere di perversione e di violenza gratuita.

La prima cosa che salta all’occhio di Sin City è il colore, che rispecchia la vera anima dell’opera: quasi esclusivamente viene utilizzato il bianco e il nero. Le tracce di colore si riducono a pochissime scene e giusto per evidenziare le caratteristiche di determinati personaggi in mezzo alla folla. Un bianco e nero che serve a far capire come in Sin City non esistano mezze misure e al tempo stesso bene e male convivano in una delle armonie cromatiche più particolari; non esistono infatti personaggi neutri. Fin dalla prima apparizione si capisce chi sono i “buoni” e chi sono i “cattivi”, ma non per questo si riduce tutto all’archetipo del supereroe e le sue caratteristiche “buoniste”; Batman colpisce il crimine a suon di cazzotti, ma non uccide. Superman segue un codice morale ed etico. In Sin City non troviamo niente di tutto questo. I protagonisti non sono proprietari di aziende a mo’ di Bruce Wayne o di Tony Stark (Batman e Ironman, nd). I protagonisti che ritroviamo in Sin City sono reietti, prostitute, poliziotti che decidono di andare contro il sistema dopo aver tastato con mano quanto esso sia malato e corrotto. Proprio in questo aspetto risiede l’ambivalenza sopracitata: i protagonisti sono buoni, e si capisce fin da subito. Ma non per questo si abbandonano a facili buonismi o conducono una vita virtuosa.

L’esempio più calzante è quello di uno dei protagonisti, Marv: quello che può essere considerato il reietto “per eccellenza”. Non è di bell’aspetto, isolato e spesso schivo,  seguito da un’assistente sociale, si può dire che sia “fissato” con la violenza. Eppure troviamo molta più umanità in lui, che nonostante tutto “protegge” le prostitute dalla violenza o salva una bambina, piuttosto che nelle figure tipicamente buone (tanto nella mentalità generale quanto nei comics americani) come il sindaco, il vescovo o il senatore Roark, pronti a difendere a spada tratta mafiosi, criminali d’ogni genere (fin dalle prime pagine possiamo ad esempio vedere il figlio del senatore tentare di fare violenza sessuale su una bambina, nell’indifferenza generale della politica e della polizia), pronti ad uccidere a sangue freddo ed a farsi corrompere per qualsiasi cosa.

Una critica del sistema fine a se stessa

Quello che manca ai protagonisti di Sin City è purtroppo, come in molti altri fumetti del genere, la capacità di fare il “balzo in avanti”. Loro non escono mai dal loro mondo; la voglia di cambiare, spesso anche con metodi violenti, non scaturisce mai da un senso di ingiustizia generale, quanto piuttosto da un’esperienza vissuta sulla propria pelle; un desiderio di vendetta per un torto subito che si è vissuto, direttamente o indirettamente, in prima persona. Vivono le ingiustizie, mal sopportano la società e il mondo che li circonda, fino ad esserne nauseati, alienati, ma il loro desiderio non è quello di cambiare le cose in modo radicale e netto.

E’ interessante notare come, in fondo, la stragrande maggioranza dei comics occidentali (o quantomeno anglo-americani) “di denuncia” presentino le stesse, identiche problematiche che Sin City si trascina dietro; manca quella dimensione collettiva, manca quella spinta propulsiva capace di capovolgere realmente la società, offrendo un’alternativa. Si pensi ad un altro grande capolavoro del fumetto occidentale, divenuto famoso grazie al film e alla famigerata maschera: V per Vendetta. Lo stesso V, divenuto uno dei simboli generazionali di “rivoluzione” ( essendo in realtà, storicamente, un simbolo tutt’altro che popolare e rivoluzionario! ), per cosa agisce, in fondo, se non per spirito di, come dice il titolo stesso, vendetta? V non agisce perché contrario al sistema, o quantomeno non subito. Il suo internamento all’interno del campo di concentramento è la molla che fa scattare il suo desiderio di scagliarsi (come nel fumetto di Miller ) contro i dettami della società, senza però offrire una reale alternativa alla società dittatoriale, se non un semplice anelare ad un desiderio di libertà che, alla fine lascia l’incognita sul vero destino del paese, in bilico tra l’anarchia sociale  e uno stato di sopraffazione.

Il comics occidentale quasi mai ha proposto delle “alternative di sistema”. Probabilmente non ne ha mai avuto il coraggio;  poche visioni sono emerse per dare una visione di società alternativa (come Superman – Red Son, la storia alternativa in cui Superman arriva sulla Terra in Unione Sovietica negli anni ’30, invece che negli States, diventando il “paladino dei lavoratori”) ma non sono riuscite a distaccarsi completamente da quell’idea radicata che vuole la nostra società come, bene o male, l’unica possibile. Le critiche sono quasi sempre rivolte solo alle “sovrastrutture”; magari la povertà, la sofferenza, l’indifferenza e tutti altri elementi che sono già stati citati nella trattazione di Sin City, ma non sono mai, e sottolineo questo “mai”, indicate come il frutto diretto della società capitalistica in generale. La povertà di Sin City, a conferma di quanto detto, è una  una povertà in cui i poveri non cercano di uscirne, semplicemente si adattano (le prostitute che scendono a patti con la polizia ed il governo per togliersi di mezzo la mafia). I personaggi sono interpreti di un disagio sociale che però, come detto, non compie mai il “salto di qualità”, sottintendendo solo una mancanza di eticità e di umanità, più che una condanna di una società che mira solo al profitto; prova ne è il fatto che spesso si fa ricorso a metafore, piuttosto che a rappresentazioni di realtà vera e propria.

Nonostante questo limite, a Sin City va il pregio di aver voluto recuperare le atmosfere del noir e, come per V e tutti gli altri comics del genere, di aver cercato di portare alla luce e al grande pubblico le ingiustizie delle “grandi” democrazie borghesi..

“Il potere non deriva da un distintivo o da una pistola. Il potere deriva dalle bugie, e bisogna dirle grosse, finché non avrai il maledetto mondo intero che sta al tuo gioco. Li avrai in pugno non appena sarai riuscito a mettere tutti d’accordo su quello che in cuor loro sanno bene non essere vero. Allora sei il capo. Puoi falsificare la realtà sotto i loro occhi e loro ti sorrideranno. Puoi trasformare un farfugliante sciroccato come il mio onnipotente fratello in un santo. Puoi picchiare a morte tua moglie con una mazza da baseball come ho fatto io e lasciare le tue impronte dove accidenti ti pare e una dozzina di testimoni giurerà su una pila di Bibbie che tu eri a migliaia di chilometri da lì. “

(Roark, p. 65 di Quel bastardo giallo)

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