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Per cosa sta lottando la classe operaia.

Correremo il rischio di apparire vecchi agli occhi del presidente del consiglio, sebbene non abbiamo gettoni da inserire negli i-phone. Ed è un peccato perché questa mattina agli operai in piazza a Roma  sarebbero stati molto utili da tirare sui vetri dei ministeri, di fronte allo sprezzante silenzio di un governo che trasuda in ogni sua dichiarazione quella tipica arroganza padronale che si addice perfettamente ai frequentatori della Leopolda.

Quella di oggi non è stata una giornata campale, probabilmente sarebbe passata ulteriormente in secondo piano per i media se non ci fossero state le ingiustificate e vergognose cariche della polizia, tanto attenti ai nuovismi e alle manifestazioni colorate, quanto poco alle rivendicazioni concrete di chi la crisi la sente sulla propria pelle. Quella di oggi è stata solo una giornata ordinaria, di quelle che a Roma accadono da tre anni a questa parte ogni giorno. Ed è questo purtroppo il dato straordinario, che però nessuno mette in luce.

Oggi in piazza a Roma c’era un pezzo della produzione italiana che scientificamente viene dismessa. C’erano gli operai della AST – Thyssen Krupp di Terni, quelli della TRW di Livorno, della Jabil di Marcianise (Caserta). Tre pezzi della produzione italiana. L’acciaieria di Terni considerata un fiore all’occhiello del nostro sistema produttivo, la produzione di componenti automobilistiche a Livorno, che riforniscono tra le altre anche la FIAT, circuiti elettrici e componenti elettroniche per la Jabil di Marcianise. Uno specchio completo della dismissione della produzione industriale in Italia le cui conseguenze sono immaginabili, coperte e taciute con tante belle parole sul futuro del nostro Paese. Che ne frattempo precipita in un vortice di crisi senza uscita.

La produzione dell’acciaio è un settore in completa dismissione. Dalla Lucchini, all’ex Italsider di Bagnoli, passando per i vari tentativi dell’Ilva a Taranto e in Liguria, fino alla vertenza di Terni oggi. Ma chiudere la produzione dell’acciaio in Italia non significa solo chiudere un intero settore, cosa per sé già importante, anche in considerazioni delle maggiori proporzioni di tutto l’indotto, ma significa pianificare scientificamente la dismissione di una serie di settori industriali di primo piano del nostro paese. La cantieristica navale ad esempio dipende dalla produzione di acciaio nazionale, come dipende il settore automobilistico. Settore automobilistico il cui volo dal paese, dopo anni di ridimensionamenti del settore appare chiaro anche dalla vicenda della TRW. Proprio il calo di ordinativi della FIAT è una delle ragioni che l’azienda adduce a giustificazione dei licenziamenti. Allora siamo sicuri che queste vicende riguardino solo gli operai che difendono il loro posto di lavoro? Questa sarebbe già di per sé un’ottima giustificazione per dare la nostra solidarietà. Ma in realtà gli operai che oggi hanno manifestato a Roma stanno scioperando per il futuro del nostro paese, perché dell’Italia che produce non resti un cumulo di macerie. Dietro a giorni di sciopero, all’interminabile braccio di ferro con enormi multinazionali come controparte ed un governo sordo alle loro richiesta, quegli operai stanno difendendo la possibilità delle future generazioni di vivere in un paese dove esista lavoro.

Già perché il nuovismo del vocabolario del governo non può mascherare la realtà dei fatti. Mentre Renzi prende per il culo con le metafore dei gettoni e degli i-phone, il futuro dell’Italia è tutt’altro che roseo. La discussione tra nuove e vecchie forme di lavoro appare del tutto fuorviante. Qualcuno vuole convincerci che l’Italia potrò vivere di turismo e buona gastronomia. E’ una balla. Al netto della considerazione che questi settori sono mal sviluppati in Italia e che certamente potrebbero produrre maggiore occupazione e maggiore ricchezza, la verità è che con un’operazione altamente ideologica si sta mascherando la trasformazione del ruolo dell’Italia. Lo si vede dall’attenzione che si pone alle esortazioni rispetto al consumo interno, come se le aziende – residue – sul territorio nazionale dovessero pensare solo ad esportare. Lo si intuisce dall’intensificarsi delle proposte sul reddito di cittadinanza, e sul reddito minimo garantito, sposato anche da sinistra e da ambienti di movimento che poco o nulla hanno capito della congiuntura di fase e della posta in gioco in questo momento.

Proveremo a farlo in poche parole. La produzione italiana è stata negli anni del dopoguerra un insieme di grande impresa monopolistica nazionale ed internazionale e piccola e media impresa. Entrambe hanno vissuto per anni del beneficio di una svalutazione monetaria che consentiva di rendere le merci più convenienti sul piano del mercato mondiale, mantenendo un livello salariale accettabile a livello nazionale. La svalutazione della moneta copriva la svalutazione del lavoro, almeno in parte, e questo attirava anche investimenti stranieri. Oltre questo, specialmente il grande capitale nazionale, legato alle grandi famiglie borghesi, otteneva una serie di aiuti di stato (vedi la FIAT). La piccola e media impresa si reggeva sullo stesso meccanismo di prodotti a basso costo per la congiuntura di cambio monetario. Con l’entrata nella UE e nell’euro questi meccanismi non possono più essere applicati: gli aiuti di stato sotto qualsiasi forma sono vietati, non abbiamo sovranità sulla moneta, e ogni iniziativa volta a limitare la circolazione ci capitali viene severamente sanzionata. Una gabbia per il tessuto produttivo nazionale, con varie conseguenze.

In primis la crisi delle piccole e medie imprese che inserite in un mercato globale non sono competitive e subiscono la concorrenza dei grandi monopoli, perdendo migliaia di posti di lavoro. Ma il costo più elevato del lavoro allontana anche le grandi aziende che delocalizzano la produzione all’estero. Ma se le industrie non ci sono più, se l’agricoltura è in crisi profonda, chi produce la base della ricchezza nazionale? Qualcuno pensa davvero che il terziario, compresi i settori produttivi inseriti al suo interno impropriamente, possa mantenere la ricchezza di un paese?

Non lo pensano neanche loro che sono al governo e la prova finale è che per rispondere alla crisi dei consumi che si genera, le imprese restanti guardano oltre i confini nazionali per trovare il loro mercato. Misure temporanee, perché insostenibili a lungo corso in questa situazione, come il reddito garantito, servono a oliare questo meccanismo, lì dove un’eccessiva disoccupazione a breve termine potrebbe portare ad una rottura traumatica, a generare quella coscienza che un lento scivolamento verso il basso al contrario può ridurre. L’Italia che ha in mente chi è dietro questo governo è l’Italia della disoccupazione di massa, dei sussidi in grado di mantenere un minimo di mercato interno, del paese dei balocchi per una fascia ricca della popolazione mondiale che verrà a fare le sue vacanze, a degustare il nostro vino e la nostra produzione alimentare, ma che non sarà di certo in grado di sostenere sessanta milioni di persone. In tutto questo i lavoratori saranno sottoposti in ogni settore al massimo livello di sfruttamento, a salari da fame, a livelli di diritti praticamente inesistenti in nome delle leggi del mercato. Questo colpirà in particolare la nostra generazione.

Ecco perché la classe operaia oggi sta facendo quanto di più moderno si possa fare. Non sta sostenendo interessi di categoria, ma l’interesse generale delle masse di questo paese, dei giovani, del futuro stesso dell’Italia. Lo sta facendo mentre chi si presenta come il nuovo, sta in realtà portando il paese al disastro. Ecco perché è nostro dovere sostenere la lotta degli operai come abbiamo fatto oggi, senza farci prendere in giro dalle vuote parole del governo. Perché ogni giovane studente, ogni giovane lavoratore deve dire grazie a chi oggi sta lottando anche per il suo futuro. Perché allora si comprenderà pienamente come una giornata ordinaria nasconda in realtà una lotta straordinaria.

 

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