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Una sentenza ribaltata

* di Federica Savino, resp.Commissione Donne FGC

Il 26 luglio del 2008, nei pressi di Firenze, una giovane donna che allora aveva ventitre anni, fu stuprata in un auto in un parcheggio da un gruppo di sei ragazzi tra i venti e venticinque anni.
Il primo grado di giudizio aveva condannato il branco a quattro anni e mezzo di reclusione; la sentenza della corte d’Appello ribalta completamente la pena sostituendola con la piena assoluzione.
Una sentenza che risuona come un’enorme retrocessione.

Dalle pagine di motivazione della sentenza si evince che pur essendo la ragazza non sobria, essa risultava comunque presente a sé stessa e la sua versione risulterebbe vacillante pertanto il reato non sarebbe stato commesso, d’altronde essa poteva apparire consenziente ai suoi aguzzini.
Tra le poche pagine della sentenza trapela  che sotto accusa ci sia lo stile di vita, le attitudine della ragazza e non lo stupro.

Diversa nei suoi particolari ma simile nella sostanza, la tragica storia di questa ragazza riporta alla memoria la vicenda narrata nel film “Sotto accusa”; una vicenda realmente accaduta nel 1983 in Massachusetts, uno stupro di gruppo avvenuto in un bar con tanto di pubblico che incitava i violentatori. La protagonista della storia diviene in tribunale una doppia vittima, dove vengono messa al banco degli imputati, sotto processo, anche lei e il suo essere una donna disinibita e di “facili costumi”, come se il suo concedersi agli uomini potesse autorizzarli ad avere un rapporto sessuale con lei senza il suo consenso.

Una sentenza quella del tribunale di Firenze che ci riporta indietro anni luce, che non solo non rende giustizia ad una donna che ha subito un tale becero atto, ma che la fa sentire vittima due volte. La pericolosità di una sentenza di tal genere sta anche nel creare un precedente a cui altri processi simili potranno rifarsi, al fomentare una cultura della colpa della donna che viene stuprata che speravamo di aver, se non completamente cancellato, ma almeno arginato; una cultura maschilista in cui esso è predatore e non può non cedere alla propria indole maschile, è la donna a dover mantenere dei costumi consoni al proprio essere donna. Una sentenza che chiude il cerchio della realtà in cui i diritti sociali e civili vengono costantemente violati e negati: i tagli al welfare sono sempre più massicci, i centri antiviolenza ricevono sempre meno finanziamenti ed arriva anche una giustizia che non sostiene la donna, anzi che la vede accollarsi non solo la sofferenza di dover affrontare un processo la cui sentenza arriva ben sette anni dopo i fatti, ma di dover sostenere economicamente un iter dal quale né è uscita doppiamente vittima e sconfitta, una giustizia a cui solo chi è in grado di pagarsi autonomamente le spese giudiziarie può accedere. Un danno e una beffa che non hanno mai fine! Una sentenza che va contro le donne, che si dovrebbe occupare delle vittime di violenza ma invece contribuisce alla propria sofferenza, rendendo inutile l’esigenza, l’importanza e la necessità della denuncia. Una giustizia, quella borghese, che si inserisce pienamente in una logica di smantellamento totale dello stato sociale, di deprivazione di ogni diritto e di ingiustizia, in cui la donna non ha spazio di vedersi riconosciuti i propri diritti.

Solo nel 1996 il nostro codice penale è stato modificato nella parte concernente il reato di violenza sessuale, che da reato contro la morale pubblica diviene reato contro la persona; una cultura quindi che è dura a morire!

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