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A chi interessa la nazionalità di una società privata?

da Redazione

La Tecno, società che detiene il 22,4% della Telecom Italia, una posizione di maggioranza relativa del capitale sociale, ma che consente il controllo effettivo del consiglio di amministrazione, passerà sotto il controllo di una società spagnola, Telefonica, che dall’attuale 46% del capitale azionario, deterrà a breve il 70% delle azioni. Contemporaneamente si fa strada l’ipotesi dell’acquisto dell’Alitalia da parte di Air France , dopo che cinque anni fa per intervento dell’allora governo Berlusconi la cessione ad Alitalia fu evitata e la società acquistata da una cordata di imprenditori italiani. La coincidenza della vendita di due grandi società ha scatenato molti commenti e riaperto la questione del controllo strategico di un paese su alcuni settori fondamentali dell’economia. Il messaggio che viene fatto passare da molti è la perdita del controllo italiano su alcune aziende. Tuttavia il messaggio appare confuso. Dietro l’idea del controllo nazionale, si evoca da una parte quello statale, o addirittura collettivo, si spinge ad un’immedesimazione nella perdita, quando nella realtà dei fatti le cose sono ben diverse.

Sia Alitalia che la Telecom furono tra le società investite dalle ondate di privatizzazione dei primi anni ’90, con le quali, dopo il crollo dell’URSS, si inaugurava il nuovo corso economico all’insegna del liberismo. La privatizzazione diventa la regola, perché si concedono margini di profitto privato su quei settori che per la loro importanza in precedenza ne erano stati esclusi. Telecom Italia viene privatizzata passando sotto il controllo di una società del Lussemburgo, fatta stranamente (sic) di nomi italiani. Così Telecom da azienda di Stato passa nelle mani del fior fior del capitalismo nostrano: Colaninno, Tronchetti Provera, Benetton, Gnutti, Bernabè fino alla notizia recente dell’acquisto della Tecno da parte di Telefonica. E’ bene notare che nell’epoca del monopolio la privatizzazione di una società di Stato, che esercitava il monopolio sul settore, avviene attraverso il suo mantenimento in posizione dominante nel mercato. Si privatizza il monopolio di Stato, e non certo si torna alla fase della libera concorrenza come vorrebbero farci credere. Infatti oltre a privatizzare la società, che gestisce il servizio, si privatizza anche la rete, ossia il complesso di strutture tecniche a supporto materiale del servizio, che vengono ceduti allo stesso privato.

Discorso simile vale per Alitalia, passata dall’89% di controllo dell’IRI agli anni della privatizzazione. Nel 2007 il governo Prodi decise di avviare una nuova fase di vendita, con la cessione del 40% della azioni statali restanti. La vendita attirò l’offerta della cordata Air France – KSM che tuttavia incontrò la forte opposizione di settori nazionali, imprenditoriali e politici. Il resto è storia nota. La cordata dei “volenterosi” im(prenditori) italiani prese il controllo della nuova Alitalia. Anche qui l’italica schiera ha nomi eccellentissimi: Salvatore Ligresti, Marco Tronchetti Provera, Emilio Riva, Francesco Bellavista Caltagirone, Antonio Angelucci, Marcegaglia. La “Bad Company” –  eufemismo con cui vengono chiamati i debiti –  rimase allo Stato e la stiamo ripagando noi. I grandi “patrioti” presero la parte sana dell’azienda. Privatizzazione del profitto e socializzazione delle perdite, il famoso socialismo per ricchi. L’acquisto ventilato da parte di Air France oggi si preannuncia come l’ennesima beffa, che, con tutta probabilità, ancora una volta graverà sullo Stato italiano per l’accollo dei debiti che sarà spalmato sulla collettività.

Possiamo rimpiangere questi “patrioti” o pensare che a queste persone interessasse qualcosa della collettività? Quale grande cambiamento ci sarà nel passaggio tra capitalisti nostrani ad altrettanto capitalisti europei? Il messaggio che si fa passare e che ingenera confusione è che il popolo italiano perda qualcosa da questi passaggi di proprietà. Ma ormai non è assolutamente così. La perdita, se tale si può considerare, perché andrebbe aperto un giudizio complessivo sul ruolo dello Stato in un paese capitalista, c’è stata negli anni delle privatizzazioni selvagge. La Telecom, l’Alitalia in mano a gruppi di monopolisti spagnoli e francesi non hanno nulla di diverso dall’essere in mano a gente del calibro di Tronchetti Provera, Caltagirone, Colaninno ecc.

Questo riguarda tanto i casi citati, quanto gli altri casi che periodicamente salgono alla ribalta, e che puntano a creare un sentimento popolare interclassista, coperto da valori nazionalistici, che fa concepire come perdita della collettività un qualcosa che alla collettività viene già quotidianamente espropriato. E’ il caso dei marchi storici della moda, dell’agroalimentare ecc. Poche volte però si dice con altrettanta chiarezza quante e di quale entità sono le operazioni di acquisto da parte di società controllate da capitalisti italiani, di società straniere. Basta vedere le partecipazione, anche recentissime, che gruppi come la Eni, Enel, Luxottica, Finmeccanica,, tanto per citarne alcuni tra i moltissimi, hanno acquistato. Il caso più lampante è quello della FIAT che acquista la Chrysler, ma ce ne sono decine, che tuttavia non vengono mai menzionati.

Qui bisogna fare una distinzione fondamentale tra trasferimento, chiusura degli impianti produttivi, licenziamento dei lavoratori da una parte, e trasferimento della nazionalità dell’azionista di maggioranza dall’altra. La prima questione ci interessa, la seconda francamente un po’ di meno. Sarà agevole notare che il primo caso è assolutamente indipendente dalla nazionalità di chi conduce la società. La delocalizzazione della produzione, fenomeno assai diffuso, lascia immutata la proprietà, e la nazionalità del proprietario, ma trasferisce gli impianti produttivi, chiude i battenti, lasciando lavoratori a casa. Comprare un’azienda di un altro paese non è sempre vantaggioso per i lavoratori di nessuno dei due paesi. L’operazione sulla Chrysler, che secondo la vulgata della nazionalità, dovrebbe essere a questo punto vantaggiosa per l’Italia, costa la chiusura di stabilimenti FIAT, la cassa integrazione per migliaia di lavoratori in tutta Italia! In tutti questi casi da una parte c’è il profitto del monopolio, dall’altra lo sfruttamento di chi lavora.

E’ piuttosto al processo di deindustrializzazione che dobbiamo guardare con preoccupazione. Quel processo che ha portato in pochi anni l’Italia, paese ricco di industrie, quinta potenza manifatturiera del mondo, a perdere una parte rilevante delle attività produttive presenti sul territorio nazionale, con conseguente perdita di posti di lavoro. La responsabilità di questo processo grava innanzitutto sui capitalisti italiani, che senza alcuno scrupolo nazionale – quello stesso sentimento che oggi si pretenderebbe di suscitare evocando la nazionalità delle imprese – non esitano ad inseguire il profitto a costo di lasciare miseria  e terra bruciata nel loro paese. Il capitalismo italiano abituato a vivere con gli aiuti di Stato, con leggi fatte su misura, oggi non trova più interesse a restare in Italia a queste condizioni. Poi ci sono le grandi multinazionali europee e statunitensi che hanno sfruttato fino al possibile e che oggi chiudono i loro stabilimenti in Italia. Queste operazioni, è bene chiarirlo, si sono rivelate in gran parte vantaggiose per i grandi monopoli, che hanno trasferito la produzione in paesi a più basso costo del lavoro. Ma si rivelano estremamente dannose per  l’Italia, ben più del trasferimento della quota di maggioranza ad una società che batte bandiera straniera. E’ qui che una potenziale ricchezza viene definitivamente espropriata. E’ contro la deindustrializzazione che è necessario combattere fino in fondo, unire i lavoratori e lottare perché gli impianti non vengano chiusi, rivendicandone la gestione operaia.

Ciò che deve interessare un movimento di lotta di classe non è dunque la nazionalità del padrone. Nell’epoca del monopolio tanto il capitale italiano, quanto quello straniero seguono le stesse leggi, e per chi lavora non cambia nulla. Quello che deve interessare è la difesa degli stabilimenti, dei posti di lavoro, la rivendicazione dell’autogestione dei mezzi di produzione contrapposta al profitto di chi detiene i mezzi di produzione. Questo vale tanto se di fronte c’è un imprenditore straniero, tanto se ce ne è uno italiano e i casi della FIAT dell’ILVA, della stessa gestione operata in questi anni proprio da Telecom ed Alitalia lo dimostrano.

Allora si percepisce come la questione della nazionalità del controllo delle società diventa una falsa questione, enfatizzata ad arte per spostare l’attenzione dal conflitto di classe. Un prodotto culturale più sofisticato del volgare “siamo tutti sulla stessa barca”, che non a caso fa leva sul sentimento comune nazionale, che, declinato in questi termini, diviene vero fumo negli occhi per le masse.

 Gli imprenditori che difendono gli interessi nazionali non esistono. L’unica bandiera che portano è quella del profitto, in nome del quale sono disposti a piegare tutto. Semmai è vero il contrario, e cioè che lo Stato difende i loro interessi, e che oggi nel mondo globalizzato dominato dall’imperialismo, con l’inserimento nel quadro dell’Unione Europea, lo Stato diventa anch’esso strumento del monopolio internazionale più forte, in virtù della libera circolazione di merci, capitali e servizi eretta a principio fondante del sistema giuridico europeo.

Bisogna avere quindi la capacità di separare i piani. Di mettere da una parte la nuova ondata di privatizzazioni del patrimonio pubblico che si propone, e che vedrà ancora una volta svendere beni dello Stato per i profitti facili di capitalisti nostrani e non. Un processo che non potrà che vedere una strenua opposizione. Dall’altra evitare di cadere nel tranello della nazionalità. Porsi dalla parte dei lavoratori in caso di chiusure di stabilimenti, licenziamenti, da qualsiasi parte provengano. E soprattutto spingere affinché tra i lavoratori torni la parola d’ordine del controllo sui mezzi di produzione, dell’autogestione operaia. Perché la classe torni a rivendicare il suo ruolo, la fine dello sfruttamento del lavoro salariato. Con la crisi e la chiusura delle aziende, queste parole d’ordine che il pensiero unico dominante voleva seppellite dalla storia, tornano invece attualissime di fronte alla realtà della situazione. Difendere la produzione, la ricchezza del paese e fare in modo che le masse possano divenirne effettivamente padrone. Il patriottismo di oggi è la difesa dall’aggressione dei monopoli, la richiesta del controllo collettivo sulla produzione e sull’economia. La nazionalità del padrone di turno è solo fumo negli occhi.

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