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A dieci anni dalla morte di Giovanni Pesce

«Giovanni Pesce è stato il più grande partigiano, non d’Italia, ma di tutta l’Europa». Così affermava qualche anno fa il partigiano Mario Fiorentini, intervistato a Roma per la realizzazione del documentario “Noi sempre lotterem” in occasione dei 70 anni della Liberazione. Giovanni Pesce ci lasciava esattamente 10 anni fa, il 27 luglio 2007, dopo una vita intera di impegno nella lotta. È dalla sua opera più famosa, Senza Tregua, che riprende il nome il nostro giornale. Fu la prima opera a raccontare da vicino la guerra dei GAP (che appunto è il sottotitolo del libro), e resta tutt’oggi una delle poche sull’argomento. È merito di Pesce se oggi conosciamo la figura eroica di Dante Di Nanni, altrimenti destinato all’oblio come i tanti giovani partigiani che si batterono per l’uguaglianza e la giustizia contro l’oppressione fascista.

Giovanni Pesce nasceva nel 1918 a Visone, paesino del Piemonte che diventerà il suo nome di battaglia. Nel 1924 la famiglia emigrava in Francia, e nel 1931, a soli 13 anni, Giovanni lavorava in miniera per aiutare la famiglia. Nel frattempo frequenta la Jeunesse Communiste, giovanile del Partito Comunista Francese, e aderisce al Partito Comunista d’Italia clandestino.

visoneAveva solo 18 anni quando nel 1936 partì per la guerra di Spagna, arruolato nelle Brigate Internazionali organizzate dalla Terza Internazionale in difesa della Repubblica Spagnola minacciata dal fascismo. Un’esperienza comune a tanti comunisti italiani: “oggi in Spagna, domani in Italia” era il motto che evocava l’obiettivo di rovesciare il fascismo. «Se è vero che in terra spagnola il fascismo fece la prova generale della successiva aggressione all’Europa è altrettanto vero che in Spagna si formarono, si temprarono i valorosi combattenti della Resistenza italiana ed europea» – scrive Pesce – «Ed è proprio in virtù degli antifascisti italiani delle Brigate Internazionali che la Resistenza italiana poté contare, fin dall’inizio, su molti uomini politicamente e militarmente preparati, pronti cioè ad affrontare con mezzi di fortuna un nemico bene organizzato». Pesce è il più giovane fra gli italiani, fra i quali spiccano figure come Ilio Barontini o Felice Platone, rivoluzionari di professione che avevano fondato il Partito Comunista d’Italia assieme a Gramsci e Bordiga.

Nel marzo del 1940, con la Spagna caduta sotto il franchismo e la Francia occupata per metà dai nazisti, per di più con il PCF messo fuori legge dal governo “democratico” con l’assurda accusa di collaborare col nazismo, Pesce decide di tornare in Italia. Trova lavoro alla FIAT, ma pecca d’ingenuità e parla con troppa leggerezza del suo antifascismo, sapendone ancora poco di clandestinità. Viene quindi arrestato e rinchiuso nel carcere di Ventotene, assieme a tanti dirigenti comunisti, fra cui Umberto Terracini, in carcere dal 1926. È negli anni di Ventotene che Pesce approfondisce la sua formazione politica, dopo le lezioni dei commissari politici nella Brigata Garibaldi in Spagna.

Tornato in Piemonte dopo il 25 luglio e la caduta del fascismo, nell’estate del ’43, è fra i primi organizzatori dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) a Torino. Nel caos dell’Italia invasa dai tedeschi, con uno Stato sfasciato e l’esercito dissolto, il giovane Pesce, che allora aveva 21 anni, ha le idee chiare su cosa fare. In una settimana raduna un gruppo di ragazzi, e parte in treno per Alessandria per mettersi in contatto con il Partito Comunista e ricevere ordini. Una scelta certo motivata dalla convinzione politica, ma anche da una realtà in cui i comunisti erano l’unica forza politica pronta a combattere, essendo stati l’unico partito a mantenere un’organizzazione clandestina negli anni del fascismo. I gappisti, scriverà Pesce, «avevano dietro di sé l’esperienza della guerra di Spagna e la severa disciplina della cospirazione, del carcere fascista e del confino»

Nonostante la giovane età, Pesce diviene ben presto un esempio per i più giovani, come il già citato Di Nanni, morto eroicamente a 19 anni, lanciandosi da un balcone con il pugno alzato, per non farsi catturare vivo dai nazisti. Questo e altri episodi della lotta partigiana sono narrati da Pesce, che alla domanda “chi furono i gappisti?”, risponde: «Potremmo dire che furono “commandos”. Ma questo termine non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso di semplici “commandos”. Furono gruppi di patrioti che non diedero mai tregua al nemico […] Sono coloro che dopo l’8 settembre ruppero con l’attendismo e scesero nelle strade a dare battaglia, iniziarono una lotta dura, spietata, senza tregua contro i nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano ceduto la patria all’invasore, per conservare qualche briciola di potere».

Nel maggio 1944 Pesce prende il comando della 3° GAP “Rubini” a Milano, responsabilità che manterrà fino alla Liberazione. I giorni della liberazione di Milano sono raccontati in un’altra opera, forse meno conosciuta ma altrettanto consigliata, che è “Quando cessarono gli spari”. Un’opera dal profondo significato politico, oltre che storico, in cui Pesce insiste molto sulla “coralità” dell’insurrezione del 25 aprile e della Resistenza in generale, cioè sulla sua non riducibilità all’attività di gruppi isolati e slegati dalle masse popolari. Pesce illustra il ruolo fondamentale delle SAP (Squadre di Azione Patriottica) e l’importanza del radicamento nelle fabbriche. «Le brigate SAP che comprendevano nelle loro file elementi d’ogni partito operavano nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali, nelle carceri, reclutavano partigiani da avviare in montagna, aiutavano le famiglie dei caduti, dei deportati, proclamavano scioperi, alimentavano azioni di sabotaggio con raffinata precisione e cautela, distribuivano volantini d’informazioni, tenevano alto lo spirito d’indipendenza, fermo lo spirito di solidarietà». Proprio le fabbriche e la classe operaia sono fondamentali nella pianificazione dell’insurrezione. La cintura periferica di Milano, costellata di fabbriche in cui è forte il Partito Comunista, che circondano i centri di potere nazifascisti collocati nel cuore della città, diventa una “fascia rossa” pronta a chiudersi sul nemico, dopo mesi di intensa propaganda insurrezionale condotta proprio nelle fabbriche dai sappisti. In Senza Tregua è con queste parole che Pesce ricorda i festeggiamenti del 25 aprile: «Quarantotto ore prima eravamo pochi, ora siamo folla. Però, dietro di noi a sorreggerci, ad aiutarci, a nasconderci, a sfamarci, a informarci, c’è sempre stata questa massa di popolo che ora corre per le strade, si abbraccia e ci abbraccia, e grida: “Viva i partigiani”».

Nel 1947, in Piazza Duomo nell’anniversario della Liberazione, fu Terracini ad appuntare sul petto di Giovanni Pesce la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Pesce fu comunista, consigliere comunale del PCI a Milano, e lo rimase anche dopo la liquidazione di quel partito, rifiutando di seguire il PDS e aderendo a Rifondazione. Ha ricoperto incarichi nell’ANPI e nell’AICVAS (l’associazione del volontari combattenti antifascisti in Spagna).

Tutt’oggi la figura di Giovanni Pesce resta uno dei più grandi esempi per la gioventù, per le nuove generazioni che hanno il dovere di lottare. Tutta la vita e gli scritti di Pesce sono impregnati dalla fiducia nella necessità di rompere l’indugio, dalla consapevolezza di ciò che una piccola avanguardia organizzata può costruire con la sua lotta. Pesce è una figura fuori dal comune, ma al tempo non riducibile ad una individualità eroica. Fu piuttosto un grande esempio di dedizione, un militante animato dalla voglia di lottare, che acquisisce ruoli dirigenti e di comando per senso di responsabilità e non per tornaconto personale. Un esempio di ciò che un comunista deve essere dinanzi al suo Partito e ai suoi compagni.

Oggi tanti ricorderanno Giovanni Pesce per il suo contributo alla lotta di Liberazione; molti, prevedibilmente, cercheranno di volgere a proprio favore il significato storico di una figura altrimenti “scomoda”. È il caso di chi oggi utilizza l’antifascismo istituzionale per coprirsi a sinistra, con l’obiettivo di difendere lo stato di cose presenti, svuotando la Resistenza e la lotta partigiana del suo contenuto rivoluzionario. Una pratica molto in voga specie in quella sinistra che ha tradito i lavoratori e oggi è il principale esecutore delle politiche antipopolari volute dai padroni. La migliore risposta a ogni mistificazione di questo tipo sta nelle stesse parole rivolte da Pesce alla gioventù:

«Anche ora si devono infrangere le resistenze al progresso, si deve conquistare maggiore democrazia nelle fabbriche e nelle scuole; anche ora si deve lottare per la pace nel mondo; anche ora è dunque necessario lottare senza tregua».

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«”Il partito… il partito non mi aiuta?
“Sbagli, sbagli veramente di grosso. Sei tu il partito, siamo noi il partito e stiamo appunto aiutandoci l’un l’altro per combattere […] Dunque è vero: il partito non mi ha mai lasciato solo.»

(G. Pesce, “Senza Tregua”, p. 43-44)

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