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Armi chimiche e mass media: come farci accettare una guerra in Siria

In guerra la prima a morire è sempre la verità. È questa l’impressione che, comunque la si voglia pensare, emerge dalla vicenda siriana. La propaganda di guerra, che nell’era digitale si combatte a suon di immagini, video e tweet, assume una tale viralità in un tempo così ristretto fino a rendere difficoltosa una verifica della veridicità di ogni notizia, con i media che evidenziano in parte una colpevole complicità, in parte l’urgenza di lanciare una notizia eclatante non curandosi di verificarla.

Dopo l’aggressione degli USA, che la scorsa notte hanno bombardato una base aerea dell’esercito siriano, probabile azione apripista di un intervento militare, è ormai chiaro l’intento che si celava dietro la “notizia”, lanciata a reti unificate da tutti i media, del presunto utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito fedele ad Assad, la cui aviazione avrebbe sganciato bombe al Sarin (un tipo di gas nervino) sulla città di Khan Sheikhun, nella provincia di Idlib, dove sono morte 74 persone, fra cui donne e bambini. Sul web sono subito impazzate foto e video di uomini, donne e bambini inermi, che avrebbero sconvolto chiunque e dinanzi alle quali difficilmente si resta indifferenti.

Come prevedibile USA, UE e paesi alleati (primi fra tutti Israele e Turchia) hanno colto la palla al balzo per condannare il governo siriano e invocare, chi più chi meno velatamente, un intervento militare. L’alto rappresentante UE per gli affari esteri e la sicurezza, Federica Mogherini, si è subito precipitata ad affermare che «il regime di Assad è responsabile del terribile attacco chimico in Siria», senza presentare né citare alcuna prova evidente e senza che esista alcuna indagine. La Francia ha convocato d’urgenza una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, durante il quale l’ambasciatrice americana ha dichiarato che se l’ONU «continua a fallire nel suo dovere di agire collettivamente, saremo costretti ad agire da soli per il bene delle vittime», riprendendo la stessa retorica usata nel 2003 ai tempi dell’invasione dell’Iraq, che fu condotta unilateralmente dagli USA e dalla “coalizione dei volenterosi”, persino al di fuori della “legittimità” ONU. Una posizione, questa, in accordo con quella espressa dal presidente Donald Trump che afferma di aver “cambiato idea” sulla Siria. Molto più oltre si spinge il premier di Israele, Benjamin Netanyahu, che su Twitter scrive «è dal 2013 che invito la comunità internazionale ad adempiere ai suoi obblighi», premendo sulle potenze USA e UE affinché si decidano “finalmente” a invadere la Siria.

Alla condanna a reti unificate si sono aggiunte diverse organizzazioni non governative (ONG). Immancabile la condanna di Amnesty International che ha invocato un intervento internazionale, così come Save the Children, la dichiarazione dell’UNICEF per cui “l’umanità è morta oggi” e, soprattutto, i molto più controversi Caschi Bianchi, che in Siria sembrano essere ampiamente infiltrati, se non controllati, dalla falange locale di Al-Qaeda (Fateh al-Sham, ex al-Nusra).

Il governo siriano ha subito affermato di non possedere armi chimiche: «l’esercito non le ha e non le usa, in passato come in futuro, perché non le ha, in primo luogo». L’esercito siriano non nega l’attacco su Khan Sheikhun, città controllata da una coalizione di “ribelli” che include al-Qaeda, ma afferma piuttosto di aver colpito un “enorme magazzino terroristico” convertito in una fabbrica di missili nella quale i “ribelli” stavano costruendo armi chimiche, utilizzando il jet da combattimento di fabbricazione russa Su-22 per effettuare l’attacco. Una versione che ha una sua coerenza, perché, le bombe del Su-22 non possono essere riempite con sostanze chimiche, essendo diverse dalle bombe sganciate dagli elicotteri d’attacco. Una versione confermata anche da Mosca, attraverso le dichiarazioni del Generale Maggiore russo Igor Konashenkov, portavoce del Ministero della Difesa russo.

Ma anche senza voler prendere per oro colato la versione fornita dalla Russia, tanti sono gli aspetti oscuri su questa vicenda. Quello che invece, e purtroppo, è fin troppo chiaro, è che se l’obiettivo di questa operazione mediatica a reti unificate era quello di preparare l’opinione pubblica europea e nordamericana a una nuova guerra, ovvero a un intervento militare in Siria con forze di terra, l’obiettivo sta per essere raggiunto. Chiunque abbia Facebook può facilmente verificare lo stato di psicosi generato dalla notizia, con centinaia di persone che hanno scritto “non si può più stare a guardare, bisogna intervenire”, senza comprendere pienamente il senso di queste parole. Non è un caso se l’attacco degli USA all’esercito siriano, un crimine internazionale e un atto di aggressione a tutti gli effetti, sia avvenuto ieri notte, a pochi giorni dalla “notizia” sulle armi chimiche, sfruttando proprio l’ondata di questa notizia. Il clima di oggi assomiglia molto a quello che nel 2003 ha preceduto l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione guidata dagli USA, scavalcando persino l’ONU.

Allora si parlò di un paese governato da un feroce dittatore, che costituiva una minaccia per la pace mondiale poiché possedeva armi chimiche (mai trovate a distanza di quasi 15 anni), che violava continuamente i diritti umani e aveva legami con il terrorismo islamico e al-Qaeda (accusa che apparve paradossale a chiunque conoscesse un minimo il mondo islamico: il partito Ba’th, cioè il partito di Saddam e di Assad, era ed è – con differenze fra le fazioni dei due paesi – un partito laico e di ispirazione vagamente socialista). Nel 2003 una gigantesca campagna mediatica, condotta a colpi di menzogne trasformate in verità attraverso la tecnica goebbelsiana (cioè inventata da Goebbels, ministro della propaganda nazista) della ripetizione continua e prolungata dello stesso messaggio, finì per far approvare all’opinione pubblica una guerra che, lo vediamo oggi, ha trasformato il Medio Oriente in una polveriera. In tanti, troppi, erano convinti della giustezza o quantomeno dell’inevitabilità dell’invasione dell’Iraq.

Oggi la situazione è molto simile, e simile è l’operazione mediatica. Basta mostrare bambini in agonia, decine di persone che soffrono per l’esposizione ad un agente chimico, e il sentimento immediato, che scalfisce anche l’animo di chi solitamente non si interessa di politica o attualità, è quello per cui “non si può continuare così, bisogna intervenire”. L’abilità della propaganda sta nella capacità di sfruttare questo sentimento immediato, legandolo istantaneamente a una prospettiva che presenta una “soluzione”: la guerra volta a esportare i diritti umani e la democrazia. Una proposta semplice, capace di scuotere le coscienze e di presentarsi come l’unico elemento di possibile cambiamento di una realtà orribile, sapientemente mostrata attraverso video e immagini utilizzati ad hoc. Ma quale sarebbe la conseguenza di tutto questo, se la realtà fosse diversa da quella che ci viene raccontata? Chi gioverebbe da questa enorme operazione di propaganda?

 

– Troppi aspetti che non quadrano…

Anche senza prendere per oro colato la versione di Mosca, certo tutt’altro che disinteressata, sono troppe le cose che non quadrano nella narrazione che abbiamo sentito. Quella principale, che quasi stupisce abbia destato ben poche domande nella testa di chi ostenta sicurezza, non richiede particolari indagini ma una semplice domanda e una capacità di rispondere in modo logico. Il governo di Assad e l’Esercito Arabo Siriano, grazie al supporto fondamentale dell’aviazione russa, allo stato attuale delle cose stanno vincendo una guerra contro i “ribelli moderati” e i jihadisti (per la verità fra loro compenetranti e non più facilmente distinguibili l’uno dall’altro). Una guerra in cui l’intervento di USA, Regno Unito e Francia è ambiguo: da un lato le aviazioni di questi paesi bombardano alcune postazioni jihadiste, dall’altro non mancano di approfittare della situazione per colpire avamposti di Assad, o anche ospedali (come accaduto tempo fa), mentre mantengono di fatto un ruolo nel sostentamento economico delle organizzazioni terroristiche. Ma la domanda fondamentale, che anche un bambino potrebbe farsi, è la seguente: perché Assad, che già sta vincendo la guerra contro i jihadisti, dovrebbe voler utilizzare armi chimiche, vietate dal diritto internazionale, fornendo così un pretesto per un’invasione aperta della Siria da parte di potenze straniere? La città di Idlib, nella cui provincia è avvenuto il presunto bombardamento chimico (attacco a un deposito jihadista di armi chimiche, secondo la versione siriana e russa), è oggi controllata da una falange di al-Qaeda, accerchiata quasi del tutto dalle forze leali ad Assad, e la sua riconquista è solo questione di tempo. Quale sarebbe l’interesse nell’utilizzare armi chimiche colpendo i civili? Nessuno.

In secondo luogo, è significativo che la notizia sia stata lanciata dal già noto Osservatorio siriano per i diritti umani, dal quale tutte le principali agenzie di stampa hanno ripreso la notizia, citandolo come fonte. Questo “osservatorio” dal nome altisonante è da anni riuscito ad accreditarsi, non si sa come, come l’unica fonte di informazione “affidabile” sulla Siria. Da anni, anche grazie a un articolo del New York Times che fu costretto ad ammetterne la vera natura, è noto che questo Osservatorio è in realtà una “organizzazione” costituita da una sola persona, tale Rami Abdul Rahman, al punto da avere la sua “sede” nell’abitazione dello stesso, a Coventry (UK). Viene da sé che l’osservatorio non ha nessun operatore sul campo, in Siria. Abdul Rahman ha lasciato la Siria da 17 anni ed è un oppositore del governo siriano, ha un rapporto diretto con il Ministero degli Affari Esteri inglese, e sembra sia stato “sistemato” a Coventry proprio dal governo inglese in qualità di oppositore di Assad. Scrive candidamente il New York Times che Abdul Rahman percepisce «piccole sovvenzioni dell’Unione Europea e di un paese europeo che non vuole indicare». Non è difficile indovinare che il paese europeo da cui questo fantomatico “Osservatorio” è finanziato è proprio il Regno Unito. La domanda è come sia possibile che decine di paesi e ONG “autorevoli” considerino questo osservatorio come la principale fonte affidabile di notizie sulla Siria. Come si fa a considerare un “attivista per i diritti umani” una persona che in realtà è un propagandista ben remunerato dalla UE e dal governo di un paese tutt’altro che disinteressato nella vicenda siriana? Questo “osservatorio”, tra l’altro, ha più volte dimostrato di simpatizzare per gli estremisti sunniti, creando volutamente confusione fra i cosiddetti “moderati” (la cui effettiva esistenza è sempre più dubbia) e i jihadisti, fatti rientrare tutti sotto la comune definizione di ribelli con lo scopo di attaccare ogni operazione militare dell’esercito siriano utilizzando formule mistificatorie come “l’esercito di Assad attacca i ribelli” o la ben peggiore “città riconquistata dai ribelli”, con cui si è data spesso la notizia di una vittoria dei jihadisti contro l’esercito siriano!

Dubbi simili emergono anche se si pensa ai già citati “Caschi bianchi” (White Helmets), autori di diversi video che mostrano presunte violazioni dei diritti umani e crimini di guerra in Siria. Questa organizzazione è inspiegabilmente presente nelle sole aree controllate dai jihadisti, nelle quali detiene una sorta di monopolio (perché tutti gli inviati di altre organizzazioni simili vengono uccisi nei modi più brutali). Diversi filmati che mostravano salvataggi di bambini si sono poi rivelati falsi, con bambini ingaggiati per recitare la parte del morto.

Perplessità ha causato anche l’annuncio secondo cui sarebbe stato utilizzato il gas Sarin. Una versione non credibile e non compatibile con quando si vede in foto e video che circolano. «Userei una certa cautela nell’affermare che nell’attacco chimico avvenuto oggi in Siria è stato utilizzato il gas Sarin» – questo ha affermato subito Matteo Guidotti, esperto di armi chimiche dell’Istituto di Scienze e Tecnologie molecolari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istm-Cnr) e figura di spicco dell’Università degli Studi di Milano – «Ho già visto in passato immagini e video di persone colpite con il Sarin e i segni erano molto più evidenti. I corpi sono madidi di sudore, lacrime, saliva ma soprattutto escrementi. I soggetti intossicati generalmente vengono colpiti da fortissime convulsioni. E dai video diffusi localmente non si vede tutto questo». «Ma i dubbi maggiori vengono – dice ancora il ricercatore – dalla disinvoltura con cui gli operatori sanitari maneggiano i corpi delle vittime. Molti sono senza guanti e non indossano neanche le mascherine. C’è una serie di protocolli da rispettare per evitare che anche i soccorritori vengano contaminati dall’agente tossico.» «Il fatto è che è in atto una guerra di immagini con cui si fa propaganda» – ha aggiunto – «per cui bisogna avere molta cautela». Le notizie più recenti stanno già ritrattando l’annuncio che parla dell’utilizzo del Sarin, affermando che in realtà si trattava di cloro. Ma certo la tempestività con cui i media si sono lanciati a senso unico nel riportare “il mostro” in prima pagina testimonia il reale interesse dietro la diffusione di questa notizia, avvenuta senza nessuna verifica dei fatti, con il solo obiettivo di manipolare l’opinione pubblica.

Ma tornando all’illogicità della scelta di utilizzare armi chimiche quando si sta già vincendo, per la verità non è nulla di nuovo. Già nel 2013 sollevò scalpore l’utilizzo di armi chimiche nei sobborghi di Damasco. Un episodio che avveniva, stranamente, alla vigilia dell’ispezione ONU in Siria. L’allora presidente USA Obama aveva indicato precedentemente nell’utilizzo di armi chimiche la “linea rossa” che, se superata, avrebbe dovuto scatenare l’intervento dell’ONU e degli USA in testa (e che in effetti fu usato per giustificare i raid aerei degli USA). Già allora non era insensato chiedersi quali ragioni avrebbe dovuto avere il governo siriano nel fornire un tale pretesto per un intervento militare estero.

E infatti un’inchiesta del giornalista pluripremiato Seymour Hersh, vincitore del premio Pulitzer nel 1970, evidenziò come in realtà furono i “ribelli” ad utilizzare armi chimiche su pressione della Turchia di Erdogan  (fra i principali paesi finanziatori), con l’obiettivo di forzare un intervento militare americano (cioè costringere gli USA ad attaccare la Siria), visto come l’unica opportunità di ribaltare le sorti di una guerra che stavano perdendo. Della stessa opinione Gian Micalessin, che in occasioni di altri attacchi con armi chimiche in villaggi siriani affermò che gli unici che avrebbero potuto utilizzare queste armi sono proprio i ribelli legati ad al-Qaeda, evidenziando che «L’attacco con armi chimiche avvenne con una tempistica straordinaria, solo 72 ore dopo l’arrivo in Siria degli ispettori che dovevano investigare proprie sull’uso delle armi chimiche. Accadde poi in una zona molto vicina di Damasco, dove l’esercito governativo non aveva bisogno di utilizzare alcun tipo di arma chimica perché stava vincendo».

In ogni caso nel 2013 la vicenda si concluse, grazie alla mediazione della Russia, con l’adesione della Siria alla Convenzione sulle Armi Chimiche, la consegna dell’arsenale chimico del paese all’ONU e la sua distruzione. Ma proprio a causa della situazione di instabilità del paese, con un governo che non controlla tutto il suo territorio, una parte del vecchio arsenale chimico siriano, oggi distrutto, è finita nelle mani dei ribelli e dei jihadisti. Se si considera questo, la versione russa, pur da prendere con le pinze, non sembra in effetti fuori dal mondo.

Nel complesso, troppi elementi risultano essere fuori posto per accettare come credibile la versione che abbiamo sentito a reti unificati da tutti i giornali, telegiornali, agenzie di stampa, blog e chi più ne ha più ne metta. Si può essere certi che ciò che ci è stato raccontato corrisponde alla verità? Certamente no. Ma a questo punto viene da chiedersi quale sia la vera natura dell’operazione, e come si inserisce in quello che sta avvenendo in Siria.

 

– Per una lettura complessiva della vicenda siriana

In conclusione, diventa infinitamente più facile comprendere cosa sta realmente avvenendo se si ricostruiscono brevemente gli avvenimenti di questi anni in Siria. L’operazione di USA e UE in Siria era rovesciare il governo di Bashar al-Assad e avere un governo “amico”, necessità dettata da varie ragioni: la costruzione di un enorme gasdotto che permetta di scavalcare la rotta di Suez per gli scambi commerciali, ma anche privare la Russia della sua unica base militare sul Mediterraneo. Sull’onda delle “primavere arabe” del Nord Africa, viene organizzata in Siria una rivolta fomentata da gruppi armati e sostenuti dalle petrolmonarchie come Arabia Saudita e Qatar, dalla Turchia e anche da paesi come Francia e Inghilterra, con un ruolo di primo piano (e più volte ammesso dagli USA) della CIA nell’addestramento di questi gruppi. L’esplosione della guerra civile in Siria ha comportato sin da subito l’affluenza di cellule terroristiche e organizzazioni jihadiste, già presenti nel vicino Iraq.

L’operazione è diventata dunque una grande guerra per procura (proxy war) in cui USA, UE, Turchia e paesi del Golfo hanno finanziato e sostenuto indiscriminatamente un ampio fronte anti-Assad, che spaziava dai cosiddetti “ribelli moderati” del Free Syrian Army (FSA) alla falange locale di al-Qaeda (che ha cambiato diversi nomi e si è fusa più volte con altri gruppi) e allo Stato Islamico (in precedenza ISIS). Una dinamica tutt’altro che inaspettata o anomala, che al contrario è insita nella stessa natura della proxy war: i gruppi guerriglieri e terroristi cambiano nome e ideologia, si fondono e si scindono, nascono e scompaiono, ma ai finanziatori interessa unicamente l’obiettivo (cioè la destituzione di Assad), per cui si finanziano tutti senza farsi tanti problemi.

La crescita dei jihadisti è stata però inaspettata rispetto alle aspettative dei loro finanziatori. L’ISIS, in precedenza legato ad al-Qaeda e poi entrato in aperto conflitto con essa, nel 2014 ha conquistato importanti città e proclamato lo Stato Islamico. La cosa ha fatto scalpore, ma alla fine USA e UE si sono detti “poco male: se vincono i moderati, avremo un governo amico; se vincono i jihadisti, avremo un buon pretesto per intervenire militarmente e instaurare un governo amico”. Certo è che nel fronte anti-Assad da tempo hanno vinto i jihadisti. I cosiddetti “moderati”, ammesso che siano mai esistiti, sono del tutto scomparsi e di fatto la principale lotta interna fra i gruppi di ribelli non è più fra estremisti e moderati, ma fra la falange locale di Al-Qaeda e lo Stato Islamico. I media hanno assunto negli ultimi anni un comportamento contraddittorio, a volte ingigantendo il peso reale dello Stato Islamico (strategia che poteva far pensare a un incombente intervento militare); altre volte creando volutamente confusione fra moderati e jihadisti con l’intento di condannare alcune operazioni militari dell’esercito siriano (ad esempio la riconquista di Aleppo, vergognosamente presentata come una “caduta” della città nelle mani del governo Assad dai media che hanno parlato di violazioni dei diritti umani da parte di un esercito che ha riconquistato la città dalle mani dei jihadisti).

La chiave di volta che ha cambiato diversi equilibri in gioco è stata comunque l’intervento dell’aviazione russa in sostegno dell’esercito siriano (al fianco del quale, è bene ricordarlo, combattono anche i comunisti che seppur contrari alle politiche liberiste portate avanti da Assad prima della guerra, individuano l’obiettivo della fase attuale nella liberazione della Siria dagli aggressori stranieri e dai jihadisti). Agli USA e alla UE importava poco che vincessero i “moderati” o gli islamisti, perché l’obiettivo primario era destituire Assad. Nei loro piani, nel peggiore dei casi avrebbero poi dovuto far fuori l’ISIS, operazione che con truppe di terra avrebbe richiesto meno di un mese, tempo necessario per rovesciare i talebani in Afghanistan (e i talebani, a differenza dell’IS, avevano uno Stato vero).

Le soluzioni più fantasiose parlavano di un piano di ridefinizione dei confini medio-orientali che rievocava le spartizioni ottocentesche, creando ad esempio uno Stato alawita nella Siria occidentale con i Ba’thisti al potere, uno Stato curdo al nord, uno o due grandi “sunnistan” nelle aree sunnite di Iraq e Siria, uno Stato sciita nel sud iracheno. Una “soluzione” suggestiva ma di dubbia praticabilità per diverse ragioni (una fra tutte: un grande “sunnistan” nel pieno del deserto mesopotamico, slegato dalle risorse agricole del Sud e dai giacimenti del Nord e privo di sbocco al mare, cos’altro potrà diventare se non un terreno fertile per i Jihadisti?)

L’intervento in sostegno all’esercito siriano da parte della Russia, che certo non persegue chissà quali obiettivi anti-imperialisti ma al contrario interviene nella competizione inter-imperialistica in difesa degli interessi economici dei propri monopoli (come Gazprom) o di interessi strategici-militari, ha certo cambiato le carte in tavola. Oggi l’Esercito Arabo Siriano sta di fatto vincendo la guerra, e per USA e UE si fa sempre più incombente il “rischio” che Assad torni al governo di una Siria liberata e riunificata, con un certo consenso dovuto alla fine della guerra e alla sconfitta dei terroristi e degli invasori. È questo oggi il maggiore timore di USA e UE: un ritorno allo status quo precedente rappresenterebbe una situazione inaccettabile dopo le ingenti risorse investite nel conflitto siriano e le numerose esternazioni dei leader politici che hanno tuonato per anni contro Assad. Una prospettiva inaccettabile per i monopoli nordamericani ed europei, ma oggi assolutamente concreta. E sta qui la ragione dell’enorme operazione di propaganda che abbiamo subito.

L’imperialismo USA e UE vede oggi l’unica via di uscita nell’intervento armato in Siria per evitare il ripristino del governo di Assad, scomodo per i suoi interessi. Ormai è evidente che i circoli imperialisti più scellerati stanno seriamente valutando, e anzi già mettendo in pratica, un intervento simile a quello condotto nel 2003 con l’invasione dell’Iraq. Certo è che il clima, come già scritto in precedenza, è molto simile a quello di quell’anno.

– La prospettiva di guerra e la lotta per la pace

Dopo gli orrori delle due guerre mondiali, il desiderio di pace e il ripudio della guerra sono sentimenti così radicati nella coscienza dei popoli europei e del mondo, che la guerra non si giustifica più da sé, ma ha bisogno di una motivazione “nobile”. Da allora, tutte le guerre imperialiste sono state giustificate con la presenza di un “nemico” disumano e crudele da scacciare, nel nome della “libertà” e della “democrazia”. Per la guerra di Corea (1950-53) o la guerra del Vietnam (1955-1975), si parlava di “contenimento” del comunismo che minacciava il mondo, scusa con la quale gli USA hanno supportato, dal 1979, i mujaheddin in Afghanistan. Dopo il 1991, tutte le guerre sono state spacciate per “missioni di pace”, o come guerre necessarie per eliminare dal mondo la minaccia di un tiranno folle, omicida e guerrafondaio. Prima la Jugoslavia di Milosevic, poi l’intervento in Afghanistan nel 2001, poi la grande vergogna, nel 2003, dell’invasione dell’Iraq da parte degli USA e della coalizione dei volenterosi. Allora George W. Bush teorizzò la “guerra preventiva” contro un paese accusato di possedere armi chimiche e di supportare il terrorismo islamico, vere e proprie menzogne che però fecero breccia nel popolo americano ancora sconvolto dall’11 Settembre.

Gli anni dell’amministrazione “democratica” di Obama hanno visto un’inversione di rotta soltanto apparente, inerente più la forma che la sostanza. Se la linea “dura” dei repubblicani opta per l’aggressione diretta contro i paesi “sgraditi”, la linea “soft” dei democratici predilige la destabilizzazione di questi paesi attraverso rivolte etero-dirette, fomentate e supportate (anche finanziariamente) dall’estero con lo sforzo congiunto di servizi segreti e mezzi di comunicazione, limitandosi magari a un successivo intervento dell’aviazione. Oggi l’amministrazione repubblicana di Trump sembra prediligere un ritorno alla linea “dura”, al punto da dichiarare che gli USA sono pronti a intervenire militarmente in Siria anche contro l’ONU, mentre l’UE rilascia dichiarazioni simili invocando la necessità di un intervento. E infatti sembra di rivivere lo stesso clima degli anni dell’invasione dell’Iraq, l’ultima vera e propria aggressione a uno Stato sovrano condotta apertamente, in aperta violazione del diritto internazionale per giunta, senza la “maschera” della rivolta eterodiretta (come in Libia, in Ucraina o nella stessa Siria).

La propaganda martellante ricostruisce l’immagine del “mostro”, del dittatore sanguinario da sconfiggere, del “nuovo Hitler” che tutto il mondo europeo e nordamericano deve odiare e temere. Le immagini delle vittime di quella guerra, i cui principali responsabili non sono in Medio Oriente ma nei ricchi salotti d’Europa e d’America, circolano senza sosta con l’obiettivo di alimentare il sentimento d’urgenza, l’idea che sia necessario intervenire subito per liberare il mondo da quell’orrore. Un pensiero unico che ingloba tutto, di cui finiscono vittime anche e soprattutto coloro che si ritengono armati di critica e buon senso, in cui la verità scompare o finisce per diventare un arma nelle mani di chi ha il potere. È in situazioni come questa che emerge con forza quanto, per dirla con Gramsci, la verità sia rivoluzionaria. In tanti, fra i nostri amici, colleghi o coetanei, invocano e continueranno a invocare la necessità di un intervento in Siria, animati dalle più candide convinzioni, magari inconsapevoli del fatto che le loro parole alimentano le ragioni di una guerra che non sarà fatta per la democrazia o per ragioni umanitarie, ma per la depredazione, la sopraffazione e la spartizione del Medio Oriente fra le potenze imperialiste.

Uno scenario dinanzi al quale non possiamo trovarci impreparati. Per decenni in tutto il mondo si è sentita la voce di quel grande movimento che ha visto i lavoratori e la gioventù in prima linea nella difesa della pace, nella lotta contro l’imperialismo e le guerre volute dai padroni. In quella che sembra la vigilia della preparazione di una nuova guerra imperialista, suonano profetiche le parole di Bertolt Brecht:

Al momento di marciare

molti non sanno

che alla loro testa marcia il nemico.

La voce che li comanda

è la voce del loro nemico.

E chi parla del nemico

è lui stesso il nemico.

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