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Papa: domanda alla piazza, ci si battezza da soli?

Perché la dottrina di Papa Francesco non ha nulla di rivoluzionario.

La critica del Papa non parte dalla natura dei rapporti sociali. Non condanna il capitale in quanto tale, ma i suoi eccessi. Non vede nei rapporti di classe e nella divisione del lavoro le origini della crisi attuale, della disuguaglianza e dello sfruttamento, ma individua questa origine nel «peccato» ossia nella rottura della «armonia tra il Creatore, l’umanità e tutto il creato» distrutta, secondo l’analisi del Papa «per avere noi preteso di prendere il posto di Dio». E non a caso la soluzione prospettata non è quella del rovesciamento dello stato di cose presente, del combattere l’ingiustizia sul terreno materiale dei rapporti economici che la determinano, ma nel «ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo» che è il «modo migliore per ricollegare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un dominatore». La Chiesa in sostanza fa il suo mestiere, e lo fa piuttosto bene, senza tradire le premesse del suo pensiero e rifugiandosi in misura finale nella teologia e nella visione del mondo che è propria del cattolicesimo. Il problema infatti non è la Chiesa ma la mancanza di un’autonoma visione del mondo delle classi subalterne, che in questo modo finiscono per essere intimamente attratta dalla nuova dottrina sociale della Chiesa. E poiché il pensiero della Chiesa si è affinato in duemila anni di storia, vanta una capacità e una forza intellettuale, filosofica e politica enorme, tanto più manca nell’intellettualità progressista la capacità di essere portatrice di un punto di vista autonomo, strutturalmente connesso con la lotta per l’emancipazione delle classi subalterne, tanto più queste saranno influenzate dal pensiero, in ultima analisi reazionario, della Chiesa cattolica. Il modo in cui segretari di partiti di sinistra, che in alcuni casi si definiscono impropriamente ancora comunisti, intellettuali progressisti e esponenti della sinistra hanno accolto le parole del Papa è il segno tangibile della capitolazione teorica, ideale e politica a cui assistiamo. E lo è prima di tutto per il rifiuto esasperato nell’utilizzo delle categorie proprie del materialismo storico, che da tempo quella sinistra rifiuta. Un marxista non può provare attrazione per l’Enciclica del Papa, non per un rituale gioco delle parti, una riedizione di Peppone e Don Camillo, ma perché le categorie e le premesse dell’analisi della Chiesa, e di conseguenza le sue conclusioni sono esattamente agli antipodi di una concezione materialistica della storia. Se una certa sinistra si ritrova nelle parole e nei modi del nuovo pontefice è perché ha costantemente scambiato la lotta di classe, con l’assistenzialismo cattolico, il proletariato con “i poveri del mondo”, il capitale con “la finanza che uccide l’economia reale”, la socializzazione dei mezzi di produzione con una politica di redistribuzione. Ma non è il Papa ad essersi spostato sulle nostre posizioni, siete voi che siete diventati dei bravi cattolici! La dottrina sociale della Chiesa è vecchia duecento anni, tanto quanto l’organizzazione del movimento operaio, di cui – è bene ricordarlo – è stata una risposta, anche piuttosto riuscita. Nessuna novità dunque. La straordinaria capacità di Papa Francesco oggi è di riuscire ad aggiornare in un momento di crisi economica, sociale, politica questa visione, renderla mediatica, e soprattutto rivolta universalmente ai popoli con una grande attenzione al “sud del mondo” e alle masse dell’Europa in preda alla crisi.

La spiegazione “teologica” della crisi, parte allora da questo concetto di “peccato” come rottura d’armonia tra Dio e l’uomo e vede nel riconoscimento del limite umano di fronte a Dio la sua antitesi e soluzione. Dietro l’apparenza progressista dell’Enciclica del Papa vi è la ricetta, intimamente e naturalmente reazionaria della Chiesa che punta prima di tutto l’indice contro «la pretesa dell’uomo di essere dominatore», relegandolo quindi al suo ruolo di parte del creato, e soggetto all’autorità e alla volontà superiore. Quale uomo progressista potrebbe accettare questa visione? Tutta l’Enciclica è pervasa delle categorie assolute: l’uomo, il lavoro, l’ambiente, priva di una concezione storica, e dunque dei rapporti sociali che contraddistinguono ciascuna fase della storia, e che trasformano le categorie di uomo, lavoro, ambiente, assoluto in null’altro che pure idee inesistenti.  Affermare che «l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi» non vuol dire nulla, se non si analizza quale essere umano, le sue caratteristiche, in relazione ai rapporti sociali che si esprimono. Intravedere in fondo la responsabilità in questo processo, nell’emancipazione dell’uomo dal dominio divino, altro non è che non volersi porre la questione dei rapporti di classe. Non sono gli interessi dell’uomo, ma se vogliamo porla su questo terreno, gli interessi degli uomini dominanti, ossia di coloro che detengono i mezzi di produzione che impongono alla società le proprie leggi. E contro di ciò non siamo certo d’accordo sull’idea che «Basta un uomo buono perché ci sia speranza». Al contrario è nel processo di emancipazione delle masse sociali che subiscono lo sfruttamento che è possibile la soluzione del problema.

Ma di questo ovviamente non c’è traccia. E non vale neanche come fatto da alcuni il legame alla Teologia della Liberazione, che è stata la massima espressione di impegno sociale e politico delle Chiese latinoamericane. Francesco che ben conosce quell’esperienza ne utilizza il linguaggio, alcuni argomenti, specialmente nella denuncia di alcune situazioni, ma ne evita sempre con accuratezza le conclusioni, che nella Teologia della Liberazione, erano proprio l’impegno diretto delle Chiese locali nella liberazione dei popoli, anche attraverso il sostegno esplicito, e in molti casi la partecipazione diretta alla lotta armata. E’ quest’assenza di qualsiasi riferimento all’emancipazione delle classi oppresse, come presa di coscienza ed atto rivoluzionario a contribuire a rendere la Chiesa di Papa Francesco una Chiesa sempre reazionaria, tanto quanto lo è stata in questi duecento anni. Ciò che lo rende più pericoloso è che tanto più si utilizzano argomenti radicali, tanto più si denunciano ingiustizie e diseguaglianze, tanto più si identifica nelle masse come riferimento, senza tuttavia prospettare alcun atto liberatorio –  se non la passività e l’attesa divina –  tanto più si diventa pericolosi e in definitiva reazionari.

Non è un caso che Papa Francesco attacchi in questa Enciclica la scienza, e in tutta una serie di situazioni la metta allo stesso livello della finanza. Forse in molti non si saranno soffermati sulla potenza dell’attacco rivolto innanzitutto al «metodo scientifico» ed in particolare alla sua « sperimentazione», la quale secondo il Papa «è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazio­ne» con «il paradigma tecnocratico» ad essere divenuto «dominante». Mai come su questo punto nell’Enciclica si cerca di dire cose  diverse, livellare varie letture, ma questa sfiducia emerge a fondo. E non emerge solo – in questo caso giustamente – in termini di dialettica con chi detiene la proprietà anche dei mezzi scientifici, come elemento particolare di una più generale proprietà dei mezzi di produzione, e usa la scienza per il proprio fine di profitto. Emerge verso la scienza come metodo, al pari di vederla un tutt’uno con la finanza e i gruppi di potere. L’accusa alla scienza e alla tecnica è di non riconoscere «i grandi princìpi etici» con la conseguenza che «la tecnica separata dall’etica difficilmente sarà capace di limitare il proprio potere».

Ma le cose stanno in modo diverso. La liberazione della scienza dal dominio del capitale, passa per l’emancipazione dell’umanità dal dominio del capitale. Nulla più. Non certo nel rifiuto dell’umanità del metodo scientifico in considerazione degli attuali rapporti sociali. Fino a quando la scienza, sarà soggetta al dominio del capitale gli interessi principali che essa porterà avanti saranno quelli del capitale, anche trasformando la scienza e la tecnica in strumento di oppressione delle masse. Ma non vi è un errore di fondo nello strumento. L’emancipazione delle classi oppresse passa per l’impadronirsi di tutti gli elementi della società che oggi sono soggetti al dominio del capitale. La scienza e la tecnica la cui funzione non è neutra per i rapporti di classe che hanno alle spalle, diverranno così strumento di emancipazione ulteriore delle classi oppresse. Ma che ne sarà allora della religione? Normale dunque che il Papa faccia il suo lavoro. Come sempre il problema sono quelli che gli vanno dietro.

La religione è la più alta forma di dominio ideologico presente in una società agricola, caratterizzata da rapporti di proprietà terriera dominanti. Mano a mano che a questo tipo di rapporti si sostituiscono quelli borghesi, ossia quando alla società agricola subentra quella industriale, la religione perde progressivamente la sua funzione. Il ruolo che essa ancora riveste in questa fase è un ruolo in esaurimento, legato per lo più agli spostamenti dalle campagne verso le città, al mantenimento di visioni e riti legati alle tradizioni popolari che permangono nelle classi subalterne, in via transitoria. Con il dominio dell’industria sull’agricoltura, della città sulla campagna, mano a mano questa influenza si perde. È un processo che si compie nel giro di poche generazioni, e che vede subentrare progressivamente la cultura del consumo, che la nuova fase del capitalismo monopolistico, del dominio dei grandi gruppi impone come religione moderna. Non è forse un caso che nei paesi a capitalismo avanzato il numero dei credenti sia in costante diminuzione? Che il ruolo della religione diminuisca nella vita sociale, insieme con il numero di “vocazioni”?

A questo ovviamente fa da contraltare il ruolo che ancora la Chiesa riveste nei paesi in via di sviluppo, specialmente nel Centro e Sud America, in alcune aree dell’Africa e dell’Asia. La “svolta” terzomondista della Chiesa di Roma, che da alcuni decenni appare ormai evidente, e che con Papa Francesco trova il suo culmine, nasce da un vero e proprio cambiamento geografico e economico della base sociale della Chiesa. La novità non è quindi la dottrina sociale della Chiesa, e neanche il suo aggiornamento con l’inclusione della questione ambientale, quanto comprendere il ruolo che la Chiesa intende esercitare e lo sguardo privilegiato che oggi tenta di intercettare maggiormente le popolazioni dei paesi “del Sud del mondo”, nei quali iniziano a verificarsi quegli stessi processi di crescita capitalistica che erodono il potere della Chiesa. Il suo è quindi innanzitutto un grido di disperazione. Combattendo il socialismo la Chiesa ha fatto l’ultimo suo regalo al capitalismo. Ora deve farlo ancora, specialmente nel continente che più di tutti vive rivoluzioni e sconvolgimenti politici in senso progressista: il Sudamerica. Ma così facendo a chi consegna il mondo se non a quel capitalismo neoliberista che a parole dice di avversare?

Senza dubbio nell’Enciclica del Papa emerge una critica al ruolo della finanze e al sistema di potere dei grandi gruppi monopolistici. Si tratta però di una critica del tutto insufficiente, che conferma il giudizio favorevole della Chiesa alla proprietà privata e all’economia di mercato. Una critica spuntata quindi, come quella di gran parte della sinistra radicale, che limitando la critica alla finanza, non spiega perché ad un certo grado di sviluppo del capitalismo la fusione di capitale bancario e produttivo renda il capitale finanziario dominante. La critica allora si limita alla nota affermazione secondo cui «la finanza soffoca l’eco­nomia reale». Di conseguenza «Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanzia­rio.» Sottolineo «perché vi sia una libertà economica», così come «è indispensabile promuovere un’e­conomia che favorisca la diversificazione pro­duttiva e la creatività imprenditoriale.» Una difesa del principio del libero mercato, della concorrenza, ma nella misura di un tessuto imprenditoriale diffuso, di un ritorno ad una fase superata del capitalismo. La teoria è fallace perché è il libero mercato che genera la concentrazione monopolistica, sono le leggi del libero commercio che favoriscono la centralizzazione della produzione, sono le leggi capitalistiche che trasformano le banche da prestatori di denaro in proprietari ultimi del valore prodotto dalle imprese. È “l’economia reale” che tanto si difende che genera la finanza, che ricorre ad essa per sfuggire dalla caduta dei margini di profitto. Se non si attacca alla radice la proprietà privata dei mezzi di produzione, si urla contro la febbre ma non contro la malattia che la produce. Ma per la Chiesa questo sarebbe troppo. D’altronde, alcuni passi citati dalla Bibbia citato dicono: Il ricco e il povero hanno uguale digni­tà, perché « il Signore ha creato l’uno e l’altro » (Pr 22,2), « egli ha creato il piccolo e il grande » (Sap 6,7), e « fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni » (Mt 5,45). Il ricco e il povero sono categorie eterne e immodificabili che come tali ci saranno sempre per la Chiesa perché le ha create il signore. Ma chi fa propria l’analisi materialista della storia sa che queste categorie non sono nulla, che al contrario è la lotta di classe a evidenziare la differenza tra sfruttatori e sfruttati, che questa differenza va ricervata nella proprietà dei mezzi di produzione e nei rapporti sociali che ne scaturiscono, e che questo quadro è storicamente tutt’altro che immutabile. Se la sinistra perde questa visione e sostituisce il proletariato ai poveri del mondo, sposa la dottrina della Chiesa. E quindi in definitiva il problema si risolve nella sfera morale dell’eccessivo arricchimento e non nel carattere dell’arricchimento. E’ questo che si imputa alla finanza, in un’ottica prettamente etica e moralista, la stessa della sinistra radicale. «Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né rac­coglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero » (Lv 19,9-10). Insomma non ingozzatevi con tanta voracità: lasciate almeno le briciole! E’ questo che la Chiesa vi chiede. Questo è il limite del buon cristiano. Purtroppo è diventato l’orizzonte anche di qualche sedicente comunista.

Anche la retorica sullo sviluppo e la svolta decrescita non appare convincente, per la stessa ragione dell’utilizzo di queste categorie assolute e prive di ancoraggio alla realtà. Progresso non vuol dire sviluppo capitalistico infinito, che è bene ricordarlo è orientato innanzitutto alla produzione di plusvalore, indipendentemente da cosa materialmente produca. Il progresso non è un qualcosa che si compie da sé, senza una lotta, senza un’azione emancipatrice. La dialettica tra sviluppo e progresso non può quindi che dipendere dai rapporti sociali di produzione, e non essere vista e considerata in senso astratto. Nel mondo c’è bisogno di produrre ciò che è necessario a soddisfare le esigenze della popolazione mondiale, non quello che è necessario alla riproduzione e all’accrescimento del capitale. Nel mondo di oggi al contrario si sovraproduce capitale e merci strettamente necessarie alla riproduzione del capitale, mentre si sottoproducono le merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni di una parte maggioritaria, e sfruttata, della popolazione. La «cultura dello scarto» contro cui giustamente il Papa si scaglia, è nulla però se non si considera il ruolo della merce e la sua funzione nel capitalismo, da cui deriva strutturalmente la necessità del consumo, e le distorsioni sociali che ne derivano. Stesse considerazioni valgono sul lavoro. «Non si deve cercare di sostituire sem­pre più il lavoro umano con il progresso tecno­logico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa». Qui il Papa tocca la questione dell’aumento dell’impiego di macchinari in relazione ai posti di lavoro. Ma anche in questo caso l’antistorico ritorno prospettato elude il centro della questione. Non è il macchinario in sé, ma la funzione storica del macchinario, anch’essa legata ai rapporti di produzione. Nel capitalismo la macchina diventa uno strumento nelle mani del capitale. Ma in sé non è la macchina il problema. La macchina liberata dal dominio del capitale è strumento di emancipazione per l’uomo, è riduzione del carico, della pesantezza e dell’orario di lavoro. Anche qui lo sviluppo da solo è lo sviluppo della tecnica, lasciato ai rapporti sociali esistenti, e inevitabilmente mezzo che si converte a livello immediato in strumento di oppressione. Ma l’emancipazione, come atto liberatorio, non torna indietro, si compie sul terreno posto in ragione dello sviluppo storico. Stesso discorso vale sul tema dell’ecologia, strutturalmente connesso con quello sociale, e anche sul tema della guerra, dove ogni impostazione etica, morale e assoluta, lascia nella realtà il passo alla concretezza degli interessi imperialistici.

In conclusione, senza nulla voler obiettare alla Chiesa che fa il suo ruolo come sempre, e senza voler pretendere che le categorie del materialismo storico siano fatte proprie da un pensiero il cui carattere teologico è strutturalmente connesso con la natura stessa di una confessione religiosa, la questione va allora posta nei confronti dell’intellettualità di ”sinistra” e “progressista”. E forse il punto è proprio quello smarrimento dell’ideale “progressista” che si manifesta nella riduzione meccanica ad una duplice scelta: da un lato la semplice identificazione del progresso con lo sviluppo economico capitalistico, visione acritica e antidialettica, che tende di fatto a trasformare gli intellettuali progressisti, privi di qualsiasi ottica di classe, nei migliori servi del dominio del capitale. Dall’altra la consapevolezza di tale condizione, unita al sistematico e viscerale rifiuto del materialismo storico, porta al recupero di visioni idealistiche e a scadere in posizioni che, sebbene addolcite e imbellite, finiscono per essere intimamente reazionarie. Il materialismo storico, come noto, rifiuta entrambe queste riduzioni. All’origine di tutto questo vi è anche, ma come derivato e non come causa, quel concetto che il Papa pone come “bisogno di costruire leadership che indichino strade». L’intellettualità progressista che ha esaurito il suo ruolo nel rifiuto del marxismo, cerca oggi questa guida in qualsiasi cosa appaia resistere sotto qualsiasi titolo e aspetto al dominio economico, politico e culturale del capitale.

Ma non sarà impantanandosi in nuove o vecchie paludi idealistiche e teologiche che le masse troveranno la via per la loro emancipazione. Chi pensa che la religione possa essere un alleato in questo processo sbaglia di grosso. La Chiesa oggi grida di fronte alla cultura del consumo che ne travolge l’influenza, costringendola a mutare la propria funzione, cerca anch’essa di resistere. Il suo è un grido di dolore e disperazione rispetto alla nuova religione, quella del consumo che ben presto travolgerà anche i paesi in via di sviluppo, lasciando alla religione lo stesso ruolo che oggi hanno gli aristocratici e i reduci di guerra. La sua critica al neoliberismo è intimamente e convintamente reazionaria, e dalla reazione le classi oppresse non hanno nulla da sperare sul terreno della loro emancipazione.

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