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Prato la prima zona economica speciale d’Italia

da Redazione

Sette lavoratori morti e due gravemente feriti, questo il bilancio dell’incendio che ha colpito una fabbrica tessile di Prato nelle scorse ore. L’incendio, scoppiato nella notte ha sorpreso nel sonno i lavoratori, tutti di origine cinese, accampati nella stessa fabbrica, dove lavoravano, vivevano, mangiavano e dormivano, in condizioni di sfruttamento e miseria totale. Spesso si parla di delocalizzazione della produzione industriale, verso i paesi emergenti, ma poche volte si sente parlare del fenomeno inverso e speculare: l’importazione delle condizioni di lavoro disumane presenti in molti paesi anche in Italia. Sono fenomeni solo apparentemente inversi, ma in realtà assolutamente coincidenti, originati dalla stessa causa, dagli stessi interessi, che mirano allo stesso fine: l’aumento dei margini di profitto, la diminuzione dei livelli salariali e di tutele dei lavoratori.

 La fabbrica bruciata a Prato è una delle tante che hanno scalzato le fabbriche presenti in precedenza, trasformando quello che era il primo distretto tessile d’Europa in una sorta di zona economica speciale, in cui le regole del diritto del lavoro sembrano non essere vigenti. Migliaia di piccole e medie aziende tessili hanno chiuso in questi anni, cadute sotto il peso di un commercio mondiale in cui le economie emergenti producono merci a costi sempre più bassi. Migliaia di lavoratori impiegati nel tessile hanno perso il lavoro in questi anni. A poco a poco le aziende esistenti sono state sostituite in numero sempre maggiore da nuove aziende straniere, in maggioranza cinesi, con uno sfruttamento disumano della manodopera immigrata, principalmente orientale. Questa aziende fondano la loro fortuna proprio sulla produzione di merci a costi bassissimi, ottenuta mediante lo sfruttamento totale della forza-lavoro immigrata, con livelli salariali bassissimi, assenza totale di diritti e tutele sul lavoro, orari di lavoro massacranti, ritmi produttivi elevatissimi, nessuna assistenza ai lavoratori, che in molti casi passano la loro intera esistenza dentro la fabbrica. Spesso queste aziende, e i loro lavoratori, non risultano neanche allo Stato e possono così ottenere profitti in nero, guadagnando doppiamente.

La grande industria tessile, fatta di grandi e rinomati marchi della moda, che rendono l’Italia conosciuta in tutto il mondo, sfrutta senza porsi troppe domande le nuove aziende tessili, ottenendo ulteriori margini di profitto sulla merce venduta in ogni parte del mondo. Una vera manna piovuta dal cielo per i grandi monopoli dalla moda, che lungi dal difendere, come a parole vogliono farci credere “l’italianità” dei loro prodotti, difendono solo i loro interessi, ottengono margini di profitto più ampi, e per di più realizzano il loro prodotto sul territorio nazionale, potendo a tutti gli effetti parlare di “made in Italy”. Pazienza se le condizioni dei lavoratori sono di sfruttamento totale, ma si sa il profitto non conosce freno morale. Le aziende cinesi in Italia sono la perfetta quadratura del cerchio: garanzia territoriale del “Made in Italy” e costi da “Made in China”.

Le vecchie aziende italiane che non chiudono, cercano a loro volta di rientrare nel mercato abbassando anche loro i costi di produzione nell’unico modo in cui questo è possibile: aumenti degli orari di lavoro, riduzioni salariali per i lavoratori, in molti casi assumendo lavoratori a nero, o fingendo licenziamenti per riassumere a mutate (in peggio) condizioni di lavoro. Alla fine ci rimettono sempre i lavoratori, che vengono licenziati o nel migliore dei casi sono costretti a scegliere tra perdere il lavoro e lavorare a ritmi e condizioni disumane, e a rimetterci è anche qualche piccolo industriale onesto, magari nelle piccole aziende a conduzione familiare, che per non fare questo è costretto al fallimento. Così il fenomeno della delocalizzazione, come trasferimento all’estero della produzione, trova l’altra faccia della medaglia: l’importazione delle condizioni di lavoro dei paesi emergenti in Italia, la riduzione sistematica dei livelli salariali, l’aumento degli orari di lavoro, la distruzione di ogni diritto conquistato con le lotte operaie del secolo scorso. Le grandi case della moda, che sono dietro questo processo, ne escono in larga parte pulite –  salvo scandali temporanei subito affossati dopo pochi giorni – usando catene di intermediari che si assumono nel subappalto la responsabilità formale della cessione a queste fabbriche. Ma è il segreto di Pulcinella, tutti sanno, nessuno fa niente.

Non fa niente la politica nazionale e locale, interamente collusa con gli interessi dei monopoli della moda, pronta a chiudere entrambi gli occhi verso le condizioni di lavoro e sicurezza non presente nelle fabbriche. Non fa nulla a livello nazionale per porre misure come il salario minimo garantito che spezzerebbero questo sfruttamento. Non fa nulla nel denunciare questa condizione, in cui il livello di collusione evidentemente riguarda anche apparati dello Stato che non intervengono lì dove dovrebbero. Ma la responsabilità è anche dei sindacati concertativi, che non hanno difeso gli interessi dei lavoratori, sia italiani, che immigrati, che hanno lasciato che questa competizione al ribasso si compiesse nella più totale naturalezza. Neanche il diritto del lavoro, o quel che ne rimane, viene applicato a Prato, altrimenti la maggioranza delle aziende dovrebbe essere chiusa, ma questo, si capisce, sarebbe un danno enorme per i profitti delle case della moda, che con le esportazioni guadagnano miliardi di euro in tutto il mondo.

Al contempo l’unico elemento veramente diffuso, e che sempre maggiormente va diffondendosi, rischia di essere il razzismo, come se le migliaia di lavoratori cinesi ed orientali sfruttati fossero i responsabili della condizione e non fosse invece l’italianissimo grande capitale monopolistico, che da anni sfrutta questa condizione per il proprio profitto. Così quando accadono tragedie come quella del rogo che ha visto la morte di sette lavoratori, ci si indigna, e ci si chiede il perché. Ma per capirlo non serve la tragedia, basta guardare la realtà di tutti i giorni. Migliaia di persone segregate vive per creare profitto, per generare una competizione al ribasso con i lavoratori italiani, senza nessun diritto, nella totale complicità delle istituzioni locali e nazionali, e della maggioranza dei sindacati. Le responsabilità hanno, come sempre, nomi e cognomi.

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