Con l’accordo firmato lo scorso 22 novembre tra Confindustria, Cisl, Uil e Ugl (la Cgil non ha firmato, pur avendo partecipato alle fasi della stesura dell’accordo) si è intervenuti per aumentare la cosiddetta produttività del lavoro. Nelle settimane precedenti giornali e televisioni hanno dato grande spazio alla questione della “produttività” mettendo in evidenza dati statistici che a detta dei media e dei politici, dimostravano come nel nostro paese la produttività del lavoro fosse ferma da circa venti anni.
È così partito il nuovo mito della produttività, polarizzando l’attenzione di tutti su quello che è stato considerato un problema strutturale del nostro paese, con il governo che si è immediatamente mobilitato per la stesura di un accordo nazionale tra sindacati e Confindustria. Ma che cos’è la produttività del lavoro? Perché in realtà è un falso mito? Cosa stabilisce questo accordo?
Partiamo dall’ultima domanda. Con l’accordo sulla produttività continua l’attacco al contratto collettivo nazionale. Secondo il testo dell’accordo il contratto collettivo nazionale dovrà “contenere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materia e delle modalità che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività, quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro.” In questi casi in sostanza il contratto aziendale potrà delegare al contratto nazionale e anche alla normativa vigente, compresa la possibilità di demansionamento (attribuzione di una mansione inferiore, e quindi di un salario inferiore) fino ad ora non prevista nel nostro ordinamento. L’aumento dei salari, ipotetico, dovrà essere legato agli incrementi della produttività. Alcune espressioni utilizzate dall’accordo possono servire ulteriormente a chiarirne il senso. Tra le cause della ridefinizione dei sistemi di orari viene individuata “la fluttuazione dei mercati” e, tra gli obiettivi del’accordo, quello di “rappresentare un’alternativa a processi di delocalizzazione”, viene da aggiungere importando in Italia le condizioni di lavoro dei paesi con minori tutele e diritti dei lavoratori.
La produttività, a chiunque abbia un minimo di capacità di analisi, appare immediatamente come un falso mito. Cerchiamo di capire perché. Quella che stiamo attraversando è la classica crisi di sovrapproduzione, per cui gran parte della merce prodotta resta invenduta. Dunque nella società di oggi – almeno restando nei limiti di quello che viene prodotto attualmente – non c’è esigenza di produrre di più. Ci sarebbe l’esigenza di produrre altro, produrre in modo differente e ridistribuire la ricchezza in altro modo, ma questo non è di certo l’intento dell’attuale governo. Quindi per la società il problema non è di quanto si produce in rapporto a quanto si lavora, semmai è di quello che si produce e di come lo si produce.
A leggere bene i dati poi la realtà è abbastanza differente da quello che si dice. Sostengono i media che la produttività in Italia è rimasta ferma ai livelli del 1992. Ma cosa dice in realtà l’Istat? Citiamo le parole dell’Istituto di statistica: “Nel periodo 1992-2011 la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso medio annuo dello 0,9%, risultato di una crescita media del’1,1% del valore aggiunto e dello 0,2% delle orelavorate” Tasso medio annuo significa che ogni anno laproduttività del lavoro è aumentata in media dello 0,9%, quindi in venti anni la produttività del lavoro è aumentata di circa il 20%, ben più della produttività totale dei fattori, che secondo l’Istat “misura la crescitanel valore aggiunto attribuibili al progresso tecnico e della conoscenza”, cresciuto dello 0,5% medio annuo nel periodo di riferimento. Per capire immediatamente di cosa stiamo parlando basterebbe citare nei giornali il grafico giusto (FIG 1), che l’Istat mette a disposizione, ma non lo fa nessuno!
Nello stesso periodo la crescita dei salari in termini reali è stata – a detta sempre dell’Istat, nel rapporto pubblicato il 22 maggio 2012 – pari a zero. Scrive l’Istat: “tra il 1993 e il 2011 le retribuzioni contrattuali mostrano, in termini reali, una variazione nulla.” Incrociando i due dati (ci perdonerete per la non perfetta coincidenza dei dati, l’uno riferito al ’92 come inizio, l’altro al ’93, ma ci sembra trascurabile…) si evidenzia come i lavoratori in cambio di un generale aumento della produttività del 20% non abbiano ricevuto assolutamente nulla in termini di aumenti salariali reali (al netto cioè dell’inflazione).
Salari e produttività sono inoltre legati per un’altra motivazione. In Italia c’è una grande disponibilità di forza lavoro a basso costo, che lavora mediamente di più che negli altri paesi europei (basta incrociare i dati dell’area euro su ore lavorate e retribuzioni, nel primo caso nettamente superiori, nel secondo inferiori) a fronte di una evidente stagnazione della domanda. A questa si aggiunge un esercito industriale di riserva – per dirla con Marx – costituito da un numero sempre crescente di disoccupati. L’abbondanza di forza lavoro a basso costo riduce gli investimenti delle imprese in innovazione tecnologica e mezzi produttivi, di conseguenza diminuisce la quota di capitale per addetto e la produttività del capitale. L’Istat infatti ci dice che tra il 1992 e il 2011 – stesso periodo di riferimento della produttività del lavoro – la produttività del capitale (FIG 2) è diminuita in media dello 0,7% all’anno, con annate decisamente pesanti (-7,5% nel 2009). I fattori d’altra parte sono due, se uno aumenta l’altro diminuisce.
Chiedere un aumento della produttività in generale senza investimenti è come chiedere ai lavoratori di muovere più velocemente le mani, qualcuno crede davvero che sia possibile? E soprattutto qualcuno pensa che questo possa portare ad un rilancio dell’economia, in una produzione sempre più tecnologica come quella moderna? Assolutamente no. Le ragioni sono altre.
A fronte della diminuzione generale del saggio di profitto le imprese tendono a non investire più in innovazioni tecnologiche, coscienti dell’impossibilità nel medio periodo di ricavare profitto in relazione alle spese. Anche chi volesse farlo – pensiamo a molte delle piccole imprese – incontrerebbe una serie di difficoltà insormontabili a causa delle quasi totale impossibilità di accedere al credito in questo momento. La stagnazione della domanda produce una notevole difficoltà nella vendita delle merci e l’illusione generale è che si possa ovviare a questa situazione con una riduzione generalizzata dei prezzi e con un aumento delle esportazioni. Ma anche il mercato estero è saturo e, mentre una volta la svalutazione monetaria consentiva una diminuzione del prezzo finale della merce sul mercato estero, oggi con l’Euro e l’impossibilità di svalutare non è possibile trovare margini di concorrenzialità sulla moneta. Seguendo questo ragionamento non resta che una via: ridurre i costi di produzione. A fronte della diminuzione di capitale impiegato, per colmare questa lacuna e produrre profitto è necessario aumentare la produttività del lavoro, abbattendo i salari.
È lo stesso principio che è alla base delle delocalizzazioni, solo che al posto di spostare le industrie in paesi con una legislazione sul lavoro meno restrittiva, salari inferiori, e magari con una moneta più debole, si importa il peggioramento delle condizioni di lavoro. Con questo accordo dunque si pongono le basi per una riduzione dei salari attraverso lo strumento della contrattazione di secondo livello, che diminuisce la forza contrattuale dei lavoratori, che d’ora in avanti dovranno trattare impresa per impresa le loro condizioni. In definitiva altro non è che l’applicazione del modello Marchionne in tutta Italia. Possiamo azzardare come anticipazione, vedendo gli esiti prodotti dalla FIAT in questi mesi, che questo accordo produrrà gli stessi effetti.
Al contrario del rilancio propagandato dai media, falsificatori di professione, l’aumento della produttività in una situazione di economia ferma per ragioni strutturali, non produce alcuna ripartenza, ma rappresenta solo un canale momentaneo di sfogo per l’accumulazione del profitto. Si tratta solo di una delle prime misure in questa direzione perché non appena sarà chiaro che quanto ottenuto non è abbastanza, si procederà sulla stessa strada, in una discesa continua che durerà, a queste condizioni, diversi anni. Bisogna sempre ricordare infatti che la crisi genera un’enorme polarizzazione sociale. A fronte di una massa enorme di persone gettate nella miseria, i profitti di monopolisti e grandi gruppi bancari ed assicurativi stanno costantemente aumentando. Non siamo tutti sulla stessa barca.
Alessandro Mustillo