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Operazione “Mare Aperto”: negli atenei italiani si insegna a fare la guerra

di Riccardo Sala


Dal 26 marzo al 18 aprile 2025 si svolgerà l’operazione “Mare Aperto”, la principale esercitazione annuale della Marina Militare italiana, solitamente strutturata in due sessioni, una primaverile e una autunnale, quest’anno in edizione singola. Dalla sua nascita negli anni ’80 ad oggi ha visto un coinvolgimento di truppe e unità in tendenziale crescita, fino ad arrivare nell’edizione 2024 allo schieramento di quasi diecimila militari provenienti da 22 nazioni – di cui 11 paesi NATO – e un elevato numero di personale non militare, tra cui Protezione Civile, Croce Rossa e 65 studenti, con professori accompagnatori, da 15 atenei italiani.

La rilevanza che assume Mare Aperto non è caratterizzata solo dal numero degli effettivi messi in campo nel corso dell’esercitazione, ma anche e soprattutto dall’ampiezza delle operazioni, dalla loro collocazione e finalità: 600mila chilometri quadrati nel mediterraneo centrale in cui “confrontarsi realisticamente all’interno di uno scenario estremamente aderente alle sfide del mondo odierno”. Un segnale chiaro da un paese, l’Italia, che sta intensificando sempre più gli sforzi di proiezione internazionale per un suo ruolo di primo piano nel Mediterraneo, specialmente verso i Balcani e il nord Africa.

L’apertura agli studenti di questa operazione nasce nel 2014 con la collaborazione tra la università privata LUISS di Roma e il Ministero della Difesa che ha portato alcuni studenti a visitare il Comando NATO in Kosovo; tre anni più tardi invece, nel 2017, il primo bando, 16 studenti della LUISS partecipi attivamente all’esercitazione Mare Aperto. Ad oggi gli studenti coinvolti sono aumentati notevolmente, così come il numero di atenei promotori, principalmente nelle facoltà di Scienze Politiche e Giurisprudenza, ma si trovano facilmente alcuni bandi che spaziano verso facoltà di ingegneria. Una volta imbarcati sulle unità della squadra navale, si è chiamati a svolgere il ruolo di advisor politici, legali e addetti agli uffici stampa in un contesto di crisi internazionale.

Gli atenei promotori dell’edizione 2025 sono quindi l’Università degli studi di Bari, l’Università di Genova, la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS) di Roma, l’Università per gli stranieri di Siena, l’Università Sant’Anna di Pisa, l’Università Federico II di Napoli (nel 2023 anche per 3 studenti del dipartimento di ingegneria industriale), l’Università di Trieste, l’Università di Roma La Sapienza, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Per la domanda di accesso al “tirocinio curricolare”, oltre alla cittadinanza italiana, viene chiesto di presentare il proprio CV ed una lettera motivazionale che spieghi la natura del proprio interesse per l’iniziativa.

Il coinvolgimento diretto degli studenti e dei professori referenti di tali progetti nei piani militari del nostro paese è solo la cima del complesso sistema che vede l’università e la ricerca sempre più legate agli sviluppi dell’azienda bellica; un sistema che affonda le sue radici in modo strutturale nella compartecipazione dei privati all’interno dell’istruzione pubblica, definendone gli indirizzi e la didattica. Le proteste dello scorso anno hanno acceso un dibattito riguardo i rapporti tra gli atenei del nostro paese e la macchina della guerra, a partire dalla collaborazione con enti di ricerca e università dello stato genocida di Israele ma che, a cascata, ha messo nel mirino anche aziende private, su tutte la Leonardo S.p.A..

Le proteste, che giustamente si sono concentrate sulla immediata rottura di ogni complicità degli istituti italiani con lo sterminio a Gaza e in Palestina, hanno aperto il vaso di pandora sul mondo del “dual-use”, cioè tutti quei campi di ricerca e innovazione che possono avere applicazioni sia nel mondo civile che in campo bellico. Tuttavia, l’introduzione della guerra all’interno del nostro sistema scolastico parte da lontano: sono anni che denunciamo le campagne delle forze dell’ordine fin dalle scuole materne e primarie, le gite studentesche e l’alternanza scuola lavoro presso basi militari o aziende belliche, fino appunto alle tesi universitarie, gli stage, i dottorati e le borse di ricerca direttamente collegate al settore militare.

Se da un lato è evidente l’aspetto propagandistico e il tentativo di normalizzare la guerra agli occhi delle nuove generazioni, che traspare dalle numerose dichiarazioni dei ministri susseguitisi negli anni, con particolare accentuazione nell’esecutivo Meloni dal Ministro della Difesa Crosetto, dall’altra parte è altresì evidente quale sia la posta in gioco. L’interesse strategico nella scuola e nell’università per l’apparato bellico è comprensibile soltanto guardando l’intero sistema che porta mano d’opera gratuita, competenze per ricerca e sviluppo, fondi e laboratori pubblici, ma soprattutto che porta lo spostamento progressivo degli obbiettivi e degli sforzi dell’istruzione italiana allineandoli agli obbiettivi di quei settori della borghesia che dalle guerre traggono profitto.

L’opposizione a questi progetti nasce da un netto rifiuto della guerra imperialista, che deve necessariamente fondarsi su presupposti di classe, e non di un generico antimilitarismo. Da comunisti siamo ben consapevoli di quale sia il rapporto tra gli obbiettivi militari dello Stato italiano e i profitti della classe dominante: sono gli interessi diretti della borghesia nazionale e internazionale a indirizzare le politiche dei partiti che li rappresentano nei rispettivi parlamenti; sono poi i governi a farsi carico delle strategie politiche o militari per difendere quegli interessi. Ed è in questo contesto, determinato da una crisi sistemica del capitalismo, dall’avanzare di nuove potenze economiche, da forti contrasti tra settori opposti di borghesia anche all’interno dei singoli stati, che assistiamo ad un intensificarsi della lotta, tutta interna alla classe dominante, per conquistare posizioni avvantaggiate nella piramide imperialista.

Tutto ciò è ben visibile nelle missioni attualmente in corso in territorio africano, in Yemen, nel controllo del traffico marittimo mediterraneo così come nel supporto a Ucraina e Israele. Oltre 40 operazioni militari internazionali in cui l’Italia figura in prima linea come principale contributore dell’UE, e nella NATO seconda solo agli USA, in cui schieriamo uomini e armi a difesa degli interessi strategici della nostra borghesia, ci assicuriamo rotte commerciali, approvvigionamento di materie prime e combustibili fossili.

Su questi presupposti va sviluppata una critica alla penetrazione del comparto bellico nell’istruzione pubblica italiana, sviluppando una lettura che sappia mettere in discussione per intero la natura di classe del sistema economico in cui viviamo e da cui scuola e università non sono esenti. L’alternativa a questa critica, che spesso vediamo mossa da quei settori di sinistra vicini al PD ed alla CGIL, complici di aver introdotto l’alternanza scuola lavoro e di aver supportato tutte le riforme dell’istruzione dell’ultimo decennio, si basa solo su principi idealistici che vorrebbero scuola e università “libere” all’interno di un sistema marcio, come delle oasi nel deserto, da preservare nella loro integrità originaria e difendere da collaborazioni con quelle poche aziende “sbagliate”.

Grazie ai PCTO, agli stage e tirocini universitari, alle borse di dottorato e ricerca, gli studenti sono pienamente inseriti negli ingranaggi del sistema capitalista; lavorano, mandano avanti settori strategici riducendone i costi e aumentando i profitti. Per questo risulta indispensabile evitare ogni genere di opposizione studentesca che possa avallare questi ingranaggi: lo abbiamo visto l’anno scorso con la polizia in tenuta antisommossa all’interno degli atenei a sedare le proteste antimilitariste, lo vediamo con la pericolosa deriva autoritaria imposta dal DDL 1660 nel quale un articolo ad hoc viene dedicato ai rapporti tra servizi segreti e atenei, imponendo a questi ultimi di collaborare qualora richiesto.

Cosa possiamo fare noi in tutto questo?

Denunciare apertamente l’operazione Mare Aperto, saper mettere in luce la compromissione dei nostri atenei con i piani imperialisti e militari dello stato italiano. Tutti gli studenti che nel proprio corso di studio ricevono proposte per partecipare a questa, come ad altre, esercitazioni belliche devono denunciare questa schifosa ingerenza opponendosi in modo organizzato. Nelle mani dei padroni non esistono bombe buone, ma solo controllo e devastazione per l’interesse economico di pochi, mentre a farne le spese sono intere popolazioni e interi paesi saccheggiati e depredati delle proprie risorse.

Il FGC dalla sua nascita condanna la natura di classe del nostro sistema d’istruzione, schierandosi contro l’alternanza scuola-lavoro e contro ogni ingresso dei privati nella scuola pubblica. Nei CDA dei nostri atenei vediamo rappresentate tutte le principali aziende italiane. Organizziamo un’opposizione politica e di classe contro chi trae beneficio dal portare nelle università le parole d’ordine della guerra e dal piegare l’istruzione a vantaggio degli interessi dei padroni di questo paese.

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