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Elementi di attualità del leninismo.

di Alessandro Mustillo *

 Novanta anni fa moriva Lenin, senza dubbio uno dei più grandi, forse il più grande rivoluzionario della storia. Sotto la sua guida il partito bolscevico condusse la prima rivoluzione socialista che giunse alla vittoria nella storia dell’umanità, aprendo una stagione di rivoluzioni, lotte, conquiste che ha travolto il mondo intero e che non ha precedenti nella storia delle classi oppresse. A vedere la realtà con occhi superficiali sembrerebbe che di quell’eredità non rimane pressoché nulla: lo stato sorto dalla Rivoluzione d’Ottobre, l’Unione Sovietica, non esiste più; l’internazionale comunista, neanche; l’intero movimento comunista vive a livello internazionale una fase di profonda difficoltà. Il simbolo che tutti hanno della fine del socialismo nell’est Europa è l’abbattimento delle statue del rivoluzionario sovietico, oggi replicate dalle forze politiche filo europee. Con la fine dell’URSS Lenin è stato messo in soffitta da gran parte di quei partiti che in passato si erano ispirati al marxismo-leninismo.

Se da un lato molti hanno condotto operazioni intellettuali volte a ricercare un’autenticità del pensiero di Marx, a recuperare (sarebbe più corretto dire adattare) il “grande fondatore” ben altra sorte è toccata a Lenin, troppo legato al destino dell’URSS, una vera e propria zavorra di cui disfarsi per meglio presentarsi e ricollocarsi nel panorama politico nazionale ed internazionale. Una zavorra inoltre perché se l’opera di Marx poteva essere ricondotta ad una visione puramente intellettuale e filosofica, a prezzo chiaramente di stravolgerla del tutto, la figura di Lenin non si prestava e non si presta a questa operazione. Egli è prima di tutto un rivoluzionario, e per di più un rivoluzionario vincitore. Qualcosa che la borghesia non perdona. Essa è disposta a concedere l’onore delle armi ai rivoluzionari sconfitti, a elevarli a figure romantiche per loro definizione perdenti, ma chi ha portato a compimento positivamente la sua missione, deve essere dimenticato, denigrato, demonizzato, perché quello che è accaduto non si ripeta, perché sul suo esempio non si educhino nuove generazioni rivoluzionarie. Nulla di nuovo si intende, né di sorprendente, considerato che è tipico degli opportunisti di ogni secolo utilizzare la copertura di pensieri e figure fino a quando si ritiene conveniente, per poi disfarsene a condizioni mutate, per abbracciare teorie e riferimenti più funzionali alle nuove collocazioni ricercate. Non è caratteristica degli opportunisti fare bilanci storici, compiere analisi, comprendere ciò che di valido esiste e ciò che è superato nella fase storica concreta. Non è degli opportunisti contribuire a rendere il marxismo una teoria viva, che vive della e nella realtà concreta, preferendo limitarsi alla critica come strumento di revisione, nel senso deteriore del termine, di superamento, di abbandono delle posizioni ideologiche e politiche conquistate, di piegare ogni riferimento ideale alle esigenze della tattica immediata.

Al contrario la figura di Lenin merita un bilancio storico, che a novant’anni dalla sua morte può essere senza dubbio condotto. In primo luogo è da sfatare l’idea che Lenin sia responsabile del crollo dell’URSS, che quella rivoluzione fosse viziata dall’inizio, e tutte le varie teorie utilizzate all’epoca dai socialdemocratici per respingere la rivoluzione d’Ottobre. L’involuzione dell’Unione Sovietica inizia parecchi anni dopo, quando la teoria leninista viene sostituita lentamente, quando si introducono nel sistema socialista elementi di controtendenza economica e politica, rispetto a quanto fatto in precedenza. È lì che l’URSS perde la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre” (e non nel senso berlingueriano dell’espressione), non certo per un vizio iniziale. Ma se posso, questa è materia che interessa gli storici, e anche se la definizione degli avvenimenti ha un preciso valore politico anche per noi che oggi lottiamo contro il capitalismo, credo che la riflessione su Lenin e la sua attualità vada prima di tutto impostata su altri aspetti, che riguardano in modo diretto l’azione dei comunisti oggi e la riflessione sullo stadio attuale del capitalismo.

A Lenin va il merito di aver formulato l’analisi dell’imperialismo, come fase dello sviluppo del sistema capitalistico. In questo Lenin si è posto in continuità con Marx, registrando e analizzando le modificazioni che lo sviluppo del sistema comportava nella composizione e nella natura del capitale e nella dimensione dello scontro di classe che si proiettava a livello mondiale. Lenin intuisce il ruolo del monopolio, delle organizzazioni imperialiste che si ripartiscono il mondo intero, degli stati che sono trasformati in strumenti al servizio dei grandi monopoli economici. Il monopolio è categoria centrale nell’analisi economica e politica della situazione odierna. In questo la lezione leninista è attualissima. La fusione tra capitale industriale e capitale finanziario, l’aumento dell’esportazione di capitali rispetto a quella delle merci, sono fenomeni che non hanno abbandonato il mondo con la fine del XX secolo, ma che anzi hanno trovato nel XXI una proiezione su scala ancora superiore. Lenin sviluppò l’analisi di Marx a partire da quella tendenza alla concentrazione monopolistica che già Marx aveva ravvisato nella dinamica del prezzo delle merci, intuì il ruolo della finanza nel mercato, portando a concepire il fenomeno della produzione industriale con quello finanziario non più come elementi separati e paralleli. Se oggi analizziamo la composizione del grande capitale ci rendiamo immediatamente conto che è impossibile suddividere un capitale produttivo, da un capitale finanziario, dove spesso una visione economica tende a mettere in luce la presunta bontà del primo, rivalutando la cosiddetta “economia reale”. Il capitale si concentra oggi in grandi blocchi monopolistici, dominati da un’interazione continua di banche, assicurazioni, istituti finanziari di vario genere, con società che producono nell’industria di ogni tipo, nell’agricoltura, nei trasporti. Prendete un consiglio di amministrazione a caso, leggete i membri di quel consiglio e ricercateli negli altri, troverete una continua compenetrazione in cui azionisti di maggioranza e minoranza rappresentano tutto e invertono i propri ruoli nelle diverse società con una continuità generale impressionante. Una fitta rete indistricabile, che non trova ostacoli nei confini nazionali, oggi sempre più sostituiti da norme che facilitano la circolazione di merci capitali e servizi. Un paradosso di un’economica che a parole difende il libero mercato e la libera concorrenza, nei fatto crea le condizioni per la concentrazione monopolistica che stritola la piccola impresa nel gorgo del grande capitale. Un paradosso che Lenin aveva intuito all’inizio del XX secolo, e che di certo non si può dire estraneo alle dinamiche economiche di questo secolo.

Questa tendenza ad uscire dai confini nazionali, a sviluppare un sistema in cui la valorizzazione del capitale dipendeva da intrecci internazionali, dalla sottomissione economica, portata anche armi alla mano, dei paesi arretrati, alla creazione di associazioni imperialistiche che si spartiscono il mondo intero è una tendenza che si verifica sul finire dell’ottocento e che è costante della nostra epoca. Nonostante l’apparente comunanza di interessi, la natura di questi li pone in contrasto continuo, generando conflitti imperialistici, che possono sfociare in conflitti armati. Lenin ha il merito di porre in questa luce le cause dei conflitti che viviamo ancora oggi, di eliminare ogni moralismo borghese ed ancorare ad un’analisi delle cause economiche la contrarietà ai conflitti imperialistici. E se negli anni precedenti qualcuno ha cercato di ridurre alla categoria di impero il concetto di imperialismo, è sotto gli occhi di tutti come, lungi dal costituire un grande ed unico sistema mondiale, l’imperialismo genera al contrario competizione, lotta economica, guerra per il raggiungimento degli interessi del capitale, che trovano a livello nazionale e nelle organizzazioni imperialistiche che racchiudono i diversi stati, l’elemento di forza ulteriore, le forme di colazioni di interessi internazionali che consento di perseguire gli interessi del capitale in modo più conseguente alla fase attuale. Lenin ha il merito di consegnare questa visione dell’imperialismo, di non limitarla e legarla al solo fattore della guerra (errore troppo spesso condotto anche oggi), ma di ricercarne le sue ragioni nel processo economico capitalistico. Sviluppando gli spunti che Marx aveva lasciato, ad esempio nel ruolo svolto dall’Inghilterra, Lenin intuisce il ruolo degli stati imperialisti, un ruolo tuttora evidente nelle dinamiche mondiali. Il mutamento della natura del capitale nei paesi imperialistici che è allo stesso tempo fenomeno indicato dalle leggi del capitale, per ottenere nuovi margini di profitto, boccate d’ossigeno per sfuggire momentaneamente allo spettro della caduta tendenziale del saggio di profitto, e strumento per allentare la pressione del proletariato nei paesi industrializzati. Nascono così Stati che derivano la loro ricchezza dalla finanza, dai servizi, le aristocrazie operaie come fenomeno per spezzare le rivendicazioni di classe nei centri del potere economico.

Osservatori poco attenti hanno colto questi fenomeni separati dal contesto globale in cui sono inseriti ed hanno pensato di trarne legge universale, parlando di terziarizzazione globale dell’economia, diminuzione della produzione, diffondendo la leggenda di un capitalismo nuovo non più legato alla produzione. Ma hanno dimenticato di cogliere il nesso che lega un fenomeno presente nei paesi sviluppati alle sue ragioni, e a quanto contemporaneamente avveniva a livello mondiale. Lo sviluppo economico dei settori industriali nei cosiddetti paesi in via di sviluppo altro non è che la tendenza più spinta all’esportazione di capitali, alla delocalizzazione della produzione lì dove garantisca attraverso salari più bassi, orari di lavoro più lunghi, un maggior livello di profitto. La “finanziarizzazione” dell’economia dei paesi avanzati ha potuto essere messa in atto perché per anni dai paesi emergenti venivano (e vengono) immessi nelle arterie della circolazione finanziaria migliaia di miliardi provenienti dallo sfruttamento del lavoro nella produzione in questi paesi. Senza questa manna che non piove dal cielo, ma è frutto dello sfruttamento capitalistico di nuove aree mondiali, il sistema finanziario e l’economia dei paesi sviluppati come la conosciamo non esisterebbe. Altro che fine della produzione, su scala mondiale le forze produttive non sono mai state così sviluppate come in questo momento storico.

Oggi questi paesi, e le borghesia nazionali nascenti, reclamano un aumento della loro parte del bottino, non più disposte a concedere facili capitali alle borghesie dei paesi imperialistici tradizionali. Anche in queste economie cresce la circolazione del capitale a livello interno, si creano istituti bancari e finanziari che assumono sempre maggior peso, che limitano e mettono in discussione le quote spettanti ai monopoli statunitensi ed europei. Questo fattore contribuisce ad aggravare la crisi dei paesi occidentali, inseriti nella piramide imperialista ma in posizione non apicale, o non più tale, come quelli del sud Europa, in cui la quota di approvvigionamento diminuisce e le borghesie nazionali perdono terreno nella competizione mondiale. In questo grande e nuovo scontro tra capitale e lavoro a farne le spese sono i lavoratori e la maggior parte dei popoli del mondo. Anche oggi è presente il rischio che una strumentalizzazione della questione nazionale crei le premesse per porre i lavoratori alle spalle della lotta del capitale nazionale, un grande elemento di distrazione di massa dal conflitto capitale/lavoro, che elude la questione centrale: nella fase imperialistica la lotta per la conquista della sovranità popolare e la lotta contro il capitale non sono momenti separati, rappresentano la stessa lotta. Chi parla della prima senza la seconda, o ritarda la seconda ad un momento successivo, insistendo sul concetto di riconquista della sovranità come tappa primaria contribuisce a intorbidire le acque, a creare alibi per il capitale nazionale, finisce per porre i lavoratori alle spalle di rivendicazioni borghesi. Storicamente abbiamo visto come tale impostazione abbia preso la direzione del fascismo in chiave reazionaria, e anche dove sia stata condotta con una visione democratica e progressista, come con la lotta di Liberazione nazionale (che partiva da premesse storiche differenti) e la linea del PCI nel dopoguerra, abbia portato al massimo a risultati limitati e non duraturi. L’esperienza storica dovrebbe farci riflettere. L’Italia di oggi non è un paese coloniale, non è un paese arretrato è uno dei dieci paesi con maggiore presenza produttiva; è un paese imperialista. In questo sta la differenza sostanziale tra la nostra condizione e la situazione di una lotta di liberazione nazionale: la lotta per la sovranità popolare non può essere momento distinto dalla lotta di classe. Questo è un principio basilare del leninismo applicato alla condizione attuale.

 Ma Lenin cosciente della dimensione internazionale della lotta di classe nella fase imperialista seppe concepire lo strumento adatto per organizzare quella lotta. La costruzione dell’Internazionale Comunista, il legame che univa partiti fratelli portati ad agire come un solo partito di fronte alle sfide che l’imperialismo poneva. Una dimensione unitaria che condusse il movimento comunista all’apice della sua forza. Oggi viviamo nell’epoca in cui molti partiti comunisti hanno al contrario interiorizzato l’idea delle “vie nazionali al socialismo”. In Lenin è fortemente presente la tensione tra dimensione nazionale ed internazionale propria dei comunisti, e mai l’internazionalismo è concepito come visione cosmopolita, senza ancoraggio alla realtà materiale di ciascun paese. In questo Lenin è cosciente della lezione di Marx ed Engels per cui il proletariato “deve fare i conti prima di tutto con la propria borghesia nazionale”. In numerosi scritti sviluppa il tema della questione nazionale, ma sempre tenendo fisso che la rivoluzione socialista presenta caratteri comuni in ciascuna parte del mondo, e per questo richiede un coordinamento stretto tra i partiti che si pongono l’obiettivo della rivoluzione. L’autonomia dei partiti comunisti da un comune livello internazionale, l’idea delle vie nazionali, del policentrismo del movimento comunista, sono elementi che portiamo dietro da molti anni, e che hanno dimostrato tutto il loro fallimento. La lezione leninista anche qui è di straordinaria attualità, perché l’unità a livello internazionale, che vada oltre la forma degli incontri bilaterali o delle assemblee annuali di scambio di opinioni, è il fattore fondamentale per vincere, a maggior ragione nella crisi del capitalismo a cui assistiamo oggi.

Lenin studiò lo Stato e le sue dinamiche, il rapporto con la rivoluzione, riprendendo il pensiero di Marx ed Engels e ripulendolo dalle interpretazioni della socialdemocrazia. La rivoluzione per Lenin è un momento necessario, con la presa del potere, la dittatura del proletariato. Anzi, il vero marxista è solo chi estende tale concezione fino all’ammissione della necessità della dittatura del proletariato. Oggi l’insieme di queste due parole suona all’orecchio come un retaggio del passato, come un concetto non applicabile. Su queste due parole è stata condotta una doppia campagna ideologica che le rende ostiche, e vorrei provare a spiegarne il senso. Oggi si rifiuta l’idea della divisione sociale in classi, dell’esistenza del proletariato. Chiamiamolo come vogliamo, ma un proletario è colui che non possiede i mezzi di produzione e che il suo sostentamento deve vendere la propria forza lavoro in cambio di salario. Il termine sembrerà pure vecchio, ma il concetto  è attualissimo, dato che la maggioranza della popolazione vive di lavoro salariato. L’idea di dittatura richiama alla nostra memoria il fascismo e il nazismo, e nelle operazioni di equiparazione il comunismo sovietico, i morti, il terrore ecc ecc…tutte operazioni che ben conosciamo. Oggi una minoranza ristretta della popolazione domina sulla maggioranza. Il suffragio universale, incontra il limite della presenza di partiti omogenei, di leggi che rendono difficile o vietano addirittura il formarsi di elementi contrari al sistema. Una minoranza ristretta domina sulla maggioranza, e si chiama democrazia, ma in realtà altro non è che dittatura: dittatura dei monopoli. Marx intuisce che la storia è un processo dialettico in cui gli elementi del nuovo si mischiano con quelli del vecchio. Il socialismo non a caso è concepito come fase di transizione, come momento necessario, in cui il processo rivoluzionario viene condotto attraverso l’utilizzo del potere politico conquistato. Nessuno cede i suoi privilegi in modo spontaneo, specie quando con ciò si intende il proprio profitto conquistato a spese del lavoro altrui. La dittatura del proletariato altro non è che lo strumento attraverso il quale la maggioranza della popolazione,i salariati, espropriano i mezzi di produzione, stabilizzano il nuovo ordine. In questo è un concetto democratico nel senso più nobile del termine, e non certo nel pantano della democrazia liberale borghese. Ritenere che le classi dominanti spontaneamente cedano il loro potere, il loro profitto è utopia nel migliore dei casi, opportunismo e complicità nel peggiore. Lenin lo dice chiaramente, sostenendo che il vero marxista è solo colui che è disposto ad arrivare fino a questo punto, senza il quale il socialismo – è chiaro – non può essere costruito. La visione della socialdemocrazia, l’idea della lotta perseguita solo attraverso lo sciopero generale, con la crescita dei consensi nelle elezioni, si riduce ad attesa eterna nel contesto dell’Europa capitalista.

Ma altro grande merito di Lenin è aver compreso e dimostrato che la rivoluzione socialista era possibile anche nei paesi a minore sviluppo industriale, con la classe operaia minoranza della popolazione. Questo “forzare la storia” senza attendere le fasi di sviluppo borghesi ha un’importanza fondamentale nel destino del mondo. Lenin comprende la necessità delle alleanze di classe, che pongano la classe operaia in rapporto diretto con le altre classi subalterne schiacciate dal capitalismo, contadini in primo luogo. Anche il concetto delle alleanze di classe ha oggi la sua grande attualità nel mondo della frammentazione delle tipologie di lavoro, nel processo di schiacciamento e proletarizzazione del ceto medio e della piccola borghesia. Ma oggi come allora le alleanze di classe presuppongono la centralità delle rivendicazioni delle classi che divengono motore del processo rivoluzionario. Lenin non scade in una visione interclassista, ma rende il proletariato classe dirigente, in grado di elevarsi a classe dominante. Lo strumento attraverso cui ciò avviene è il partito.

Lenin ruppe con il passato, con la tradizione socialdemocratica trasformando radicalmente l’idea di partito, sapendo trarre una lezione dagli errori della socialdemocrazia, che tanti danni produssero al movimento operaio. La rottura della logica del partito dei “circoli” delle divisioni interne, l’idea del centralismo democratico, del partito concepito come avanguardia di classe. Una concezione di militanza che irrompe sulla scena mondiale, nel rapporto tra partito e masse, che innova con la centralità della funzione e della figura dei quadri di partito. La concezione leninista del partito dei quadri, della direzione delle masse operaie e contadine è un elemento di cui oggi i comunisti non possono fare a meno, anche in un contesto di classe mutato nelle forme, ma non certo nella sostanza dello sfruttamento e del conflitto capitale/lavoro. Lì dove il partito socialdemocratico aveva rotto il monopolio borghese del partito politico, modificando la natura e l’essenza stessa del partito, trasformandolo in strumento della partecipazione delle masse alla vita politica, Lenin compie l’ulteriore passo di costruire un partito per la rivoluzione, che riunisce l’avanguardia della classe, l’elemento più cosciente della sua condizione.

Lenin innova, dà forma alla sostanza, trasforma in azione il marxismo, per troppi anni rinchiuso nella visione della socialdemocrazia. Lenin insegna che la rivoluzione non si aspetta, si fa, che è compito del partito creare le premesse per il cambiamento rivoluzionario e non di attendere passivamente che in virtù di avvenimenti economici la rivoluzione si compia da sé. La sua è una reazione  alla capacità dimostrata dal capitale di resistere anche alle proprie contraddizioni, e l’emancipazione dalla visione socialdemocratica che ha condotto la classe operaia al disastro, la stessa reazione che è oggi necessaria per riportare a vincere il movimento comunista. In questo recupera quel rapporto tra teoria e prassi che è premessa e punto cardine del pensiero di Marx, e per ciò, per dirla con Gramsci, Lenin innova il marxismo con la sua azione rivoluzionaria. La lotta contro l’opportunismo diventa terreno fondamentale, ieri come oggi, per fare emergere la necessità di una lotta rivoluzionaria, combattendo le derive moderate, l’economicismo sindacale, che divengono veri e propri fattori controrivoluzionari. La crisi dei partiti comunisti non è crisi del modello leninista ma dell’abbandono di quel modello, di trasformazione in partiti di massa, spesso con forte natura interclassista, che ha creato le premesse per l’abbandono delle posizioni ideologiche conquistate, oppure di abbandono della concezione leninista in favore di una visione prettamente elettorale, tipica dei partiti borghesi. Oggi il ruolo del quadro e del partito di quadri ha una straordinaria attualità. I comunisti devono di certo rigettare ogni tentazione di costruire partiti seguendo il filone elettoralista, una sorta di ritorno alla vecchia concezione politica dei partiti borghesi, con mutate forme. Chi ha tentato questa strada, chi si è limitato a questo ha capitolato senza riserva.

La costruzione di un partito di avanguardia presuppone la presenza nelle lotte, la loro organizzazione, un ruolo esercitato all’interno delle classi subalterne, da chi vi appartiene. L’avanguardia non è eterodirezione, non è coercizione, è consenso e presenza in prima fila è per dirla con Gramsci “comprendere e sentire” come funzione intellettuale moderna. Proprio Gramsci ritengo abbia interpretato questo concetto in modo esemplare. L’avanguardia non è qualcosa di isolato, non è sentinella per dirla con Secchia, non è qualcosa di distaccato dalla classe. In questo l’avanguardia sente perché è parte, non ha nulla del vecchio prototipo dell’intellettuale tradizionale. Ma oltre a sentire essa comprende, ha una coscienza superiore, una conoscenza delle dinamiche della società che le permette di elevarsi e dirigere la massa, di cui in questo processo resta parte. Il quadro leninista, diventa pilastro di un partito che realizza in sé quell’unità di teoria e prassi, propria del marxismo, non limitandosi a interpretare il mondo ma lottando per cambiarlo. L’allontanamento da questo spirito rompe questa unità, inficiando l’azione politica in modo irreversibile. Il partito diviene allora strumento nelle mani di dirigenze burocratiche legate ai propri interessi particolari, come abbiamo visto in questi anni; il legame di classe si perde, si spezza in modo netto con conseguenze politiche enormi.

In definitiva ritengo che a novant’anni dalla morte di Lenin gli elementi che hanno arricchito il marxismo con la visione leninista siano fattori indispensabili per una moderna teoria rivoluzionaria e per una moderna azione rivoluzionaria. Se in questi anni Lenin è stato nascosto in soffitta, oggi è il momento di rimetterlo nel posto che gli spetta, alla luce del sole. Il movimento comunista ha subito una sconfitta, derivata in larga parte dalla perdita di quella tensione ideale che con la Rivoluzione d’Ottobre aveva visto il suo inizio, perdita avvenuta a partire dagli anni ’50. L’insieme di alcuni fattori che hanno portato a quella sconfitta e il tracollo successivo ci pongono di fronte alla necessità di una nuova emancipazione, di una nuova rottura con il precedente. Come accadde all’inizio dello scorso secolo con la nascita del movimento comunista, con la critica alla socialdemocrazia e all’opportunismo, così oggi è necessario compiere un processo analogo, per ripartire, per tornare a vincere. E qui gli elementi di attualità del leninismo sono evidenti, e notevole è il loro peso, necessario tornare a studiarli ed applicarli. Con buona pace di qualche sinistroide vario, una moderna teoria rivoluzionaria non può fare a meno di Lenin.

* segretario nazionale del Fronte della Gioventù Comunista

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