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La gioventù e il diritto di voto a 16 anni

*di Federico Bongiovì

Dal settembre 2014, mese del referendum per l’indipendenza della Scozia, nel Regno Unito la proposta di abbassare l’età con la quale si acquisisce il diritto di voto ai sedici anni conta sempre più sostenitori. Fin dalle votazioni che avrebbero deciso il futuro dell’isola, infatti, le classi novantasette e novantotto dei giovani scozzesi hanno potuto decidere se rimanere o meno sudditi inglesi e, stando ai dati resi pubblici da Generation Yes, la branca giovanile di Yes Scotland, sono stati centoventimila i votanti under diciotto. Una massiccia partecipazione che ha influito in maniera preponderante.

Successivamente a questo voto referendario, dunque, varie organizzazioni politiche hanno fatto propria questa rivendicazione. Fra esse il candidato sindaco laburista di Londra Ed Liliban dichiara: “Dobbiamo ascoltare di più la voce dei giovani nella nostra democrazia, è un segno di fiducia nelle nuove generazioni”. Esistono già alcuni paesi che hanno istituito il voto a 16 anni: l’Austria, l’Argentina, il Brasile, l’Ecuador, il Nicaragua, tre piccoli paesi della Corona Britannica ad amministrazione autonoma, Isola di Man, Jersey e Guernsey; in Bosnia, Serbia e Montenegro i giovani tra i 16 e 18 anni possono votare se hanno un lavoro. Anche nel paese socialista di Cuba, la Costituzione riconosce dal 1974 il diritto di voto a tutti i cubani che hanno compiuto il sedicesimo anno di vita. In Svizzera il diritto di voto a 16 è riconosciuto nel Cantone di Glarona, mentre in Germania in alcuni Lander tra cui la Bassa Sassonia, Schleswig-Holstein, la Sassonia-Anhalt, la Renania Settentrionale-Vestfalia e il Meclemburgo-Pomerania Anteriore.

Se ne parla ormai in molti paesi e su questa scia anche l’Italia ha avviato un processo di “istituzionalizzazione del voto per i giovanissimi”, come afferma la deputata Pd Rita Moriconi, relatrice dell’assemblea legislativa che ha approvato l’estensione del diritto di voto dei sedicenni alle elezioni regionali e amministrative. La convalida di questo decreto legge non è, comunque, esclusivo appannaggio dei democratici, in quanto hanno votato a favore anche i deputati della Lega Nord, dell’Idv, di Sel-Verdi, del Gruppo Misto e del M5S. Questi ultimi, in una loro mozione di riforma costituzionale e istituzionale, hanno proposto anzi di estendere la validità di tale provvedimento a un referendum popolare di indirizzo sull’opportunità di modifica della forma di Governo e di Stato.

Sebbene, stando alle dichiarazioni di coloro che propongono questo importante processo riformistico, la motivazione di tale volontà sia la convinzione che “riconoscere ai sedicenni il diritto di voto alle elezioni amministrative e regionali significa prendere consapevolezza dei grandi cambiamenti della nostra società negli ultimi decenni” (Moriconi) e che “investire sui giovani è investire sul futuro” (Grillini – Gruppo Misto), la reale causa di tutto ciò è da ricercare altrove. La profonda crisi dei regimi rappresentativi borghesi, che si traduce in un crescente disinteresse del proletariato alla vita politica, fa sì, infatti, che la necessità di conservare le proprie velleità democratiche li spinga alla ricerca di serbatoi elettorali sempre più vasti.

A dimostrazione di ciò, si consideri l’Italia stessa come modello esemplificativo della situazione generale in cui versano i vari Paesi Membri dell’UE. Nonostante la media partecipativa del popolo italiano alle elezioni sia sempre stata superiore a quelle degli altri Stati, questa emorragia di voti, infatti, interessa anche e soprattutto la nostra nazione.

Nella seconda metà del secolo scorso, in piena Prima Repubblica, il tasso registrato di affluenza alle urne per le elezioni di Camera e Senato è alto: sfiora il novantasette percento del totale nel 1963 e si mantiene stabile oltre i novanta punti percentuali fino agli inizi degli anni ottanta. Sono anni di grande fermento politico nelle masse, di grandi lotte e conquiste sociali e civili, in cui i principali partiti, sindacati e loro organizzazioni collaterali hanno un forte radicamento nella società che si riflette anche nella partecipazione al voto. Sono gli anni di un capitalismo in fase espansiva, pur sempre con le sue contraddizioni, crisi e conflitti sociali, dove la linea riformista dello stesso PCI conseguiva qualche risultato positivo soprattutto grazie al peso internazionale del blocco socialista sui rapporti di forza. La progressiva mutazione genetica del PCI fino allo scioglimento e la ristrutturazione capitalistica con una sempre maggiore concentrazione del potere economico, portano anche ad un profondo cambiamento nel sistema politico/istituzionale a cui sono state funzionali le frequenti inchieste giudiziarie che mettono in evidenza la corruzione insita nel sistema politico-economico borghese; si dà così inizio ad un graduale allontanamento delle classi popolari alla partecipazione politica e allo svuotamento della stessa. La stessa caduta dell’URSS porterà alla conseguente vittoria ideologica del Capitalismo, la cui propaganda riuscirà infine ad istillare il germe nichilista della rassegnazione e del disinteresse nel proletariato che tanto oggi ostacola la lotta delle gioventù comuniste, in Italia e nel mondo.

Proprio in questi anni, in particolare dal 1992, anno successivo alla cosiddetta “Svolta della Bolognina” e alla completa trasformazione del P.C.I., la decrescita del flusso dei votanti subisce un’accelerazione, che diviene vero e proprio slancio dagli anni duemila, con le ulteriori trasformazioni dal PDS fino al PD sotto la guida di D’Alema, Veltroni,Bersani fino a Renzi. Il PD è attualmente il principale servitore degli interessi della grande borghesia, attuando il processo di internazionalizzazione del capitalismo italiano nel blocco imperialistico europeo e alla competizione globale, adattando il sistema economico, politico e istituzionale italiano alla sempre maggiore concentrazione e centralizzazione della ricchezza e del potere. Tutte le riforme attuate in questi anni rispondono a questo obiettivo, colpendo interi settori della società, a partire dalla classe operaia fino ad ampi settori del ceto medio in fase di proletarizzazione, che si ritrovano senza una reale rappresentanza politica. Da questo deriva anche la progressiva trasformazione del PD stesso, che prima dell’arrivo di Renzi manteneva ancora una impostazione di “partito di massa” che oggi non c’è più in quanto non più funzionale ai compiti che questo partito svolge nel quadro della gestione del capitalismo. Questo ha in parte il suo riflesso nell’ulteriore contrazione dei votanti di quest’ultimo periodo. L’analisi dei dati delle ultime elezioni regionali comprova ciò: il tasso di astensione generale è balzato in media dai cinquanta punti percentuali del 2010 ai quaranta di quest’anno, ma i picchi più consistenti si situano soprattutto proprio nelle cosiddette “Regioni Rosse”, ossia i feudi tradizionali dei partiti di centro sinistra quali il PD.

Questo partito è oggi uno dei maggiori promotori dell’abbassamento della soglia di acquisizione del diritto di voto a 16 anni. Il motivo è, a questo punto, chiaro: dato il drastico calo dei propri votanti, esso cerca di porvi rimedio con l’afflusso di quelli provenienti dalle fasce giovanili. Nelle scorse settimane, anche il parlamento europeo, riunito in sessione miniplenaria, ha votato a favore di una riforma del sistema elettorale che risale al 1972, in cui si prevede proprio l’abbassamento del diritto di voto a 16 anni, l’istituzione di consultazioni elettroniche (pensate soprattutto per chi vive all’estero) e l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea. Non è pertanto un caso la relazione tra questa riforma e la crescita dell’astensionismo, ancora più forte e generalizzato nei confronti delle istituzioni europee e di un progetto elitario distante dai popoli come quello dell’UE. Infatti, secondo quanto afferma il deputato Jo Leinen, uno dei relatori della legge, l’obiettivo è “quello di accrescere l’interesse dei cittadini” compresa quella “generazione dei giovani” che deve essere “incoraggiata a prendere parte a queste decisioni”. Cercano di porre al centro del dibattito il “protagonismo giovanile” nella politica in una declinazione a sé funzionale e quindi rinchiusa nella partecipazione elettorale e istituzionale, come se l’unica forma di partecipare e discutere che possiamo avere noi giovani fosse quella di andare a votare per poi stare a guardare cosa fanno del nostro presente e futuro. Il diritto a votare va sempre difeso come una conquista del popolo, così come partecipare alle forme legali di partecipazione politica e le elezioni possono contribuire ma non risolvere la contraddizione principale che colpisce le condizioni della classe lavoratrice, dei settori popolari della società e la sua gioventù. In questo senso, abbassare l’età in cui si ha diritto al voto ha l’intento di ridurre la partecipazione politica dei giovani nell’unico aspetto delle elezioni per cercare di incanalare la ribellione giovanile verso i partiti di sistema e istituzionali, in particolare quelli, come il PD e la sinistra pseudo-radicale, che possono intercettare attraverso le loro associazioni studentesche la propensione più progressista insita in molti settori della gioventù.

Nonostante la natura delle sue politiche profondamente tradizionalista e garantista nei confronti del Capitale, che sono quanto di più lontano ci possa essere da una linea “progressista”, queste organizzazioni tentano da ormai parecchio tempo di sembrare più “giovani”. La proposta alla Camera di una legge per la legalizzazione della marijuana, così come, per esempio, gli svariati annunci della volontà del Governo di legalizzare le coppie di fatto e quelle omosessuali sono tentativi attuati nel disperato tentativo di piacere ai ragazzi. Numerosi studi compiuti successivamente al referendum scozzese hanno infatti dimostrato come costoro siano più propensi a dare il proprio voto a partiti dalle politiche riformatrici, quali, guarda caso, la regolamentazione giuridica dei diritti degli omosessuali o una maggiore flessibilità nei riguardi delle droghe leggere.

Come ogni volta, dunque, non bisogna farsi ingannare da quanto viene affermato dai servi dei padroni, né credere alla sincerità della loro volontà di riforma sociale negli interessi del popolo. Essi sono mossi sempre da un solo ed unico obbiettivo: difendere il Capitale.

Questo intento è però possibile ribaltarlo. La gioventù del nostro paese è stata storicamente sensibile e capace di grandi mobilitazioni per le cause popolari, dal grande contributo alla lotta di Resistenza ai grandi movimenti di massa dei giovani dalle magliette a strisce negli anni ’60 contro il governo Tambroni, i movimenti del ’68 e ’77 e quelli contro la guerra e le mafie, i movimenti studenteschi degli anni ’90 ecc., per questo il grado di coscienza politica non dipende dall’età ma dalla capacità di incorporarsi nella lotta politica fin dalla più giovane età contro l’oppressione politica e sociale, nelle varie forme e spazi, coscienti che per risolvere un problema bisogna organizzarsi, partecipare nelle strade, lottare contro il degrado nei propri quartieri, sviluppare nuove forme di aggregazione e sport popolare, occupare una scuola, una facoltà, una fabbrica. Da queste grandi pratiche di democrazia si impara che la politica non significa lasciare le nostre vite nelle mani di chi ci opprime ma renderci protagonisti della storia e della politica del nostro paese sulla base dei nostri interessi che non hanno una distinzione di età, ma di classe.

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