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Mondo reale e mondo virtuale: da “Pokémon Go” all’HTC VIVE

*di Francesco Raveggi

Chi frequenta con una cadenza quantomeno settimanale un qualsivoglia social network, fonte inestinguibile di mode più o meno apprezzabili, avrà già avuto modo di sapere che è approdato da poco più di una settimana, su ogni store online principale per smartphone in Italia, l’app “Pokémon Go”. Esaltata, criticata, disprezzata e talvolta perfino accolta con freddezza da tutti, fan della saga o meno, questa app ha segnato un punto di svolta importante per due fattori principali: il primo prettamente ludico, il secondo maggiormente sociale. Ma andiamo con ordine.

L’innovazione principale portata in campo ludico da Pokémon Go è innegabile in quanto ha portato su smartphone (quindi su un campo più diffuso rispetto a quello, minoritario seppur in crescita esponenziale, dei possessori di console o di computer adatti proprio al divertimento videoludico) un fattore tecnologico che proprio in questo periodo sta vedendo il suo sviluppo maggiore: quello di una connessione più stretta tra mondo reale e mondo virtuale o, in altri termini, di “realtà aumentata”. Con il termine “Realtà Aumentata”, si intende quell’insieme di strumenti tecnologici in grado di fondere le immagini provenienti dal mondo reale con elementi virtuali; ne è un esempio l’Hololens di Microsoft, presentato a più riprese in varie fiere1. Naturalmente, sia per le capacità tecnicamente inferiori sia per la natura stessa del prodotto, non si può parlare di Pokémon Go come di un prodotto che rientri appieno nella categoria della realtà aumentata in quanto non permette all’utente un’unione totale tra mondo reale e mondo. Tuttavia, come sempre in questi casi, le fazioni ai poli opposti hanno subito dato inizio ad una futile e, per certi versi, infantile guerra ideologica; da un lato coloro che difendono a spada tratta questa app che, si torna a ripetere, altro non è che l’ennesima moda diffusa tramite social che, per chiunque non sia fan dei Pokémon, sarà solo un divertimento passeggero, dall’altro i puristi vecchio stampo che in ogni occasione in cui si vada a parlare di tecnologia non perdono tempo per ricordare i “tempi d’oro” della loro adolescenza in cui si rincorrevano palloni nei parcheggi, ponendo in perenne contrasto la “degradazione” delle generazioni moderne che, a loro dire, non hanno conosciuto le sbucciature sulle ginocchia. In sostanza, un perenne scontro aprioristico tra tecnofilia e tecnofobia. Sarebbe però riduttivo discutere del fenomeno esclusivamente in questi termini.

Se, in definitiva, l’aspetto ludico si può riassumere in una massificazione del fattore della realtà aumentata – nei vari limiti del caso -, l’aspetto sociale rientra, come sempre, nella categoria di quell’isteria di massa che segue qualsiasi diffusione mediante social network. Al pari di un qualunque tormentone estivo, Pokémon Go ha suscitato l’interesse di una quantità impressionante di persone, risultando essere, quando ancora non era uscito ufficialmente ma solo tramite programmi di emulazione, l’app più scaricata sullo store italiano, nonché la più scaricata a livello mondiale su AppStore2. Non credo ci sia bisogno di dire che se una multinazionale affermata sul mercato mondiale da ormai diversi decenni come Nintendo avesse voluto evitare una diffusione anticipata del proprio prodotto prima del lancio ufficiale sul mercato, sarebbe potuta intervenire in diversi modi, prima di tutto imponendo sostanzialmente il ritiro dell’app dai vari store o agendo sui server già disponibili (seppur intasati per le troppe connessioni). Quello cui abbiamo assistito con la diffusione nei giorni antecedenti altro non è stata che un’enorme indagine di mercato, durante la quale Nintendo ha avuto modo di testare la quantità di utenti disponibili a scaricare l’app e riuscendo a farsi una sorta di campagna pubblicitaria “gratuita”, facendo conoscere il suo prodotto anche alle persone totalmente disinteressate nei confronti della saga. Ed è questo l’aspetto di cui tenere sempre conto: dietro queste operazioni e queste diffusioni, cui sempre si accompagna il sostegno maniacale delle masse, altro non ci sono che operazioni di marketing. Senza voler scadere in facili complottismi da internet, che i famigerati tormentoni diventino un veicolo di alienazione individuale rispetto ai conflitti sociali è un dato di fatto (serve far tornare alla mente la partecipazione di oltre 30.000 persone al flash mob della hit Sud coreana “Gangnam Style” in Piazza del Popolo, parallela ad una manifestazione studentesca, che peraltro riscontrò una partecipazione minimale?); lo è anche il fatto che la connessione tra mondo reale e mondo virtuale si concretizza anche nella costante necessità di essere sempre connessi, di vivere sempre in tempo reale ogni momento e, di riflesso, di essere perennemente individuabili ovunque ci si trovi. La connessione costante e la facile catalogabilità di ogni individuo in base ai propri gusti, alle proprie ricerche internet su motori di ricerca o siti di acquisto altro non sono che la dimostrazione pratica di come il mondo virtuale riesca ad entrare di prepotenza nella vita reale, sostanzialmente sfruttando ogni dato reperibile degli utenti connessi. Non è un mistero che questo fattore travolga tutti quei portali che più di tutti vengono utilizzati dagli utenti (Facebook, Amazon, YouTube, Whatsapp e così via) ed il fatto che Niantic, la SH che si è occupata dello sviluppo del gioco, abbia dovuto rassicurare gli utenti riguardo la risoluzione delle problematiche legate alla “fuga” di dati degli utenti non fa presagire nulla di buono (fattore peraltro presente anche nelle piattaforme sopracitate, come il recente “end-to-end” di Whatsapp), tenendo conto, inoltre, del fatto che spesso in questi casi vi è una collaborazione tra diverse multinazionali per occuparsi di svariati aspetti che portino a tutti un vantaggio; ne è un esempio, sempre parlando di Pokémon Go, la proposta di collaborazione tra Nintendo/Niantic ed il servizio Maps di Google. Apparentemente sono diversi i vantaggi portati da questa collaborazione agli utenti, risolvendo una serie di problematiche legate al gioco, ma è facile intuire come la localizzazione dei dati, unitamente alla geolocalizzazione data dall’utilizzo del servizio satellitare, possa rappresentare effettivamente una minaccia alla privacy degli utenti e debbano rappresentare un campanello d’allarme per chiunque, non solo riguardo a questioni relativamente semplici come quella di Pokémon Go, ma in generale per l’evoluzione della società occidentale (monito peraltro espresso recentemente anche da Oliver Stone3).

Tanto la Realtà Virtuale (vale a dire l’utilizzo di visori che, a differenza della Realtà Aumentata, eliminano totalmente gli elementi del “reale”, proiettando davanti agli occhi un mondo interamente virtuale) quanto la Realtà Aumentata potrebbero garantire progressi enormi in una vastissima quantità di campi, dalla medicina (è in studio la possibilità di utilizzare appositi programmi che permettano lezioni di anatomia senza far ricorso a cadaveri, in determinate università) alla progettazione, con la possibilità di proiettare davanti a sé una ricostruzione 3D del modello che si sta tentando di creare sulla bidimensionalità dello schermo di un computer; dallo studio delle civiltà antiche, col ricorso alla Realtà Aumentata per “ricostruire” davanti a sé le rovine dei parchi archeologici, alla sperimentazione visiva in luoghi altrimenti irraggiungibili (per esempio, la simulazione di un viaggio nello spazio). Ma, come ogni cosa, questi strumenti presentano inevitabilmente contraddizioni ed elementi negativi. Primo fra tutti, come sempre, l’elemento militare; è facile immaginare quale potrebbe essere il risultato dell’impiego bellico di una tecnologia che non solo permette, come per esempio l’impiego di droni da guerra, la piena sicurezza degli operatori militari, ma consente perfino un’immersione “totale” del soldato, quasi come se la vivesse in prima persona e che gli permette di riprodurre qualsiasi movimento esso faccia. Ma se l’utilizzo di queste tecnologie in campo militare è ancora lontano dalla realizzazione (non scordiamoci che sono ancora embrioni tecnologici che necessitano di numerosi perfezionamenti e che non a caso vengono prima “testati” su enormi campioni quali quelli che usufruiscono dei videogiochi in VR) è impossibile negare un fenomeno che, sebbene ipotizzato da alcuni, si è già avverato in determinate zone del mondo, dove queste tecnologie sono state introdotte per prime; si parla, ovviamente, di casi eclatanti come quello del Giappone.

La situazione dei giovani in Giappone ha raggiunto livelli allarmanti; il contesto sociale del Sol Levante, che si trascina dietro inesorabilmente da oltre un secolo e mezzo una compresenza di estremo tradizionalismo e di volontà di occidentalizzazione socio-culturale, unitamente ad un sistema educativo basato sulla competitività esasperata e su una rigidità didattica tra le più alte al mondo ha generato generazioni intere di giovani che hanno ricercato ogni possibile contesto di evasione dalla realtà. La cultura dell’utilizzo di droghe è, nei paesi asiatici, meno radicata rispetto ai paesi dell’occidente europeo e nord americano; è piuttosto entrato di prepotenza un ricorso massiccio ai suicidi4 alla cui base si ritrovava, a detta di determinati sociologi, proprio l’utilizzo eccessivo del cosiddetto “intrattenimento passivo” dato da internet e dalle piattaforme videoludiche. I giovani giapponesi hanno già da tempo, per la maggior parte, perso il contatto col mondo reale. In una società chiusa, conservatrice, dove i rapporti interpersonali stanno lentamente scomparendo e dove per i giovani non c’è possibilità di affermazione (tanto nel mondo del lavoro quanto nel mondo sociale), l’unico rifugio è internet e l’avvento di tecnologie in grado di proiettare davanti agli utenti un mondo idealizzato in cui sentirsi finalmente protagonisti ed in cui vedere proiettate i nostri sogni e le nostre aspirazioni rappresentano la via di fuga più facile. La morsa in cui è stretta la gioventù nipponica non lascia vie di fuga se non il suicidio o l’isolamento in mondi inesistenti. Tutto questo rientra nel contesto sociale del paese, se si pensa al fatto che non c’è mai stato un vero movimento di massa all’interno della società dell’isola asiatica (nonostante una discreta presenza del Partito Comunista, tutt’ora in attività).

Per quanto sia necessario stare attenti a non confondere la semplice piattaforma videoludica (ed il semplice intrattenimento) con l’evasione dalla realtà – si rende in questo caso necessario ribadire che, parimenti con qualsiasi altro media come film, fumetti ecc., i videogiochi possono rappresentare tanto una mera propaganda ideologica quanto un veicolo per messaggi più profondi e concreti -, è un dato di fatto che l’avvento di queste tecnologie rischia di rappresentare per le gioventù occidentali, in costante ricerca di nuovi mezzi di evasione dalla realtà, un blocco totale nei confronti di ogni possibilità di organizzazione concreta per l’eliminazione di quelle problematiche stesse che spingono i giovani all’evasione. La prospettiva di poter evadere, seppur temporaneamente, dalla realtà in un mondo in cui tutto è perfetto ed in cui è possibile sperimentare e vivere emozioni forti, magari anche impossibili da vivere nel mondo reale, sono senza dubbio fonte d’attrattiva per molti ragazzi. Il fenomeno del riflusso nel virtuale non è quindi da contrastare ponendo la prospettiva della generazione di falliti, incapaci di fare ogni cosa che non sia fittizia; il primo passo per comprendere questo fenomeno è capire che tanti giovani scelgono questa strada per una doppia disillusione ed alienazione sociale: la prima nei confronti della società, la seconda nei confronti dei coetanei. Troppo spesso si tende a considerare questi ragazzi come alienati volontari, come persone che, aldilà delle problematiche familiari, scolastiche, e così via, scelgono volontariamente di emarginarsi dai gruppi sociali. Se da un lato è appurato che un abuso dello svago virtuale può comportare un allontanamento da gruppi sociali in cui si è inseriti (in maniera non dissimile da una qualsiasi dipendenza), è pur vero che sono innumerevoli gli studi sociologici che, affrontando la tematica del rifugio nel fittizio mondo virtuale, hanno visto come questo fenomeno sia da imputare anche ad un distacco nei confronti del modo di divertirsi delle persone che li circondano: droghe, alcool, un certo senso di rassegnazione che predomina nei giovani d’oggi, sono tutti fattori che concorrono ad una ricerca costante di un mondo in cui trovarsi a proprio agio ed in cui confrontarsi con persone (che altro non sono che un insieme di poligoni e pixel) e situazioni che si vorrebbe ritrovare nel mondo reale.

L’utilizzo di videogiochi o di piattaforme che consentano un’immersione in un mondo virtuale non sono, in conclusione, il male assoluto. Oltre alle già citate applicazioni positive, rappresentano un metodo di divertimento come tanti altri. Bisogna tuttavia stare attenti a non considerare questo aspetto come prevalente rispetto alla vita reale; l’approccio nei confronti dei videogiochi deve essere consapevole dei limiti che questo mezzo pone nei confronti della propria vita e, soprattutto, come ogni altra cosa, non possono e non devono rappresentare una forma di evasione dalle problematiche del reale. La gioventù deve organizzarsi, deve lottare e rivendicare i propri diritti e questo processo non può che avvenire nel mondo vero.

Note
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1https://www.youtube.com/watch?v=xXy7lbs-D48

2http://www.macitynet.it/pokemon-go-app-store-record/

3http://movieplayer.it/news/oliver-stone-contro-pokemon-go-e-un-nuovo-livello-di-invasione_44319/

4http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/28/giappone-suicidi-prima-causa-di-morte-tra-under-24-giovani-soli-e-abbandonati/1727724/

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