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Università e nepotismo: davvero sta calando?

È stata recentemente pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) dell’Accademia delle scienze degli USA una ricerca sui cognomi dei ricercatori nelle università americane ed europee. Un’analisi condotta sui dati di 133mila ricercatori da Italia, Francia e Stati Uniti, che ha evidenziato una realtà in parte già nota del sistema italiano. La presenza di ricercatori con lo stesso cognome, in ogni singolo dipartimento, è in Italia superiore rispetto a quella che ci si aspetterebbe con una disposizione del tutto casuale delle assunzioni. Una “anomalia” spiegabile solo in parte con la geografia, cioè con la concentrazione di alcuni cognomi in determinate regioni, e che fa pensare piuttosto a un nepotismo tutt’altro che sparito dall’università.

I dati più eloquenti si riferiscono alla Campania, la Puglia e la Sicilia; le facoltà più colpite dal fenomeno sono quelle di Chimica e Medicina. Un fenomeno che, a quanto pare, è comunque in diminuzione negli ultimi anni, più per l’effetto combinato di pensionamenti e riduzione delle assunzioni dovuta ai tagli, piuttosto che per il divieto di assumere parenti dei docenti introdotto con la riforma Gelmini del 2010. Nel 2000, erano ben sette (su quattordici) i settori disciplinari in cui emergevano forme di nepotismo.

Quello che la ricerca non dice, comunque, è una cosa di cui è a conoscenza chiunque conosca il mondo accademico: se il nepotismo “familistico” tipicamente italiano tende a ridursi, nonostante le resistenze, viene sostituito da un nepotismo “accademico”, cioè quello dei professori che impongono i loro assistenti. In molte università essere assistente di un professore è ormai una “gavetta” obbligata se si vuole ottenere un posto. In altre parole, la riduzione delle assunzioni “familiari” non si traduce in un aumento della tanto sbandierata “meritocrazia”, che è stato lo slogan di tutti i governi negli ultimi anni.

Tutte le voci “autorevoli” sembrano puntare il dito contro l’eccessiva “stanzialità” degli accademici italiani, abituati a insegnare nella loro città natale a differenza dei loro colleghi esteri. Ma siamo sicuri che il punto principale sia questo?

Bisognerebbe riflettere piuttosto su altri aspetti. In Italia, se si guarda alla strategia complessiva delle classi dominanti rispetto al sistema produttivo, si è scelta come “via di uscita” dalla crisi quella dell’incremento della “produttività” attraverso la dequalificazione del lavoro (che si accompagna a compressione di salari e diritti); un quadro in cui la ricerca assume un ruolo sempre meno importante. In altre parole, i settori dominanti dell’economia italiana hanno scelto che investire in ricerca non è nei loro interessi.

La ragione principale della “fuga dei cervelli” sta qui, prima che nell’assenza di “meritocrazia” dovuta al nepotismo; quest’ultimo può anche essere interpretato, in parte, come la reazione “fisiologica” dei piccoli poteri locali e familiari dinanzi al restringimento dei margini di inserimento nel mondo accademico. Esattamente quello che è avvenuto con l’istituzione dei contratti precari di 3 anni per i ricercatori e l’esaurimento di quelli a tempo indeterminato, con la riforma Gelmini del 2010. Una misura che lungi dall’aver eliminato i privilegi, ha favorito proprio il nepotismo accademico e rapporti di clientela in risposta alla precarietà.

Se si pensa, infine, ai concorsi negli atenei (sia per la ricerca che per l’insegnamento), che spesso sono fatti su misura per un vincitore già designato, viene da chiedersi: siamo sicuri che la tanto acclamata “autonomia” delle università, sempre più slegate dallo Stato, non c’entri nulla? O forse, cosa molto più plausibile, l’autonomia universitaria lungi dal migliorare la qualità della didattica e della ricerca attraverso l’effetto benefico della “concorrenza” (tanto cara ai teorici neoliberisti che la applicherebbero ovunque) favorisce proprio i gruppi di potere locali, familiari e accademici…?

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