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Germania, l’estrema destra è terzo partito, ma nessuna “alternativa”

Le elezioni tedesche di ieri sembrano confermare quella che è una tendenza generale in Europa: una crescita delle forze reazionarie a scapito dei partiti tradizionali. Le elezioni confermano un quadro profondamente mutato rispetto al 2013, con un partito di estrema destra, l’AFD (Alternative fur Deutschland) che diventa terzo partito, passando dal 4,71% del 2013 al 12,6%, con un incremento di quasi 8 punti percentuali che lo porta per la prima volta nel Bundestag con 94 deputati.

Crolla di 8 punti la CDU/CSU, che pure si conferma primo partito con il 32,9%, mentre la socialdemocrazia (SPD) raggiunge il suo risultato più basso dagli anni’50, piazzandosi al secondo posto con il 20,5%. Stazionari rispetto ai risultati precedenti i Verdi e la Sinistra (Linke), rispettivamente all’8,9% e al 9,2%. In seguito alle dichiarazioni di Martin Schulz, leader della SPD che ha annunciato che il suo partito non governerà più con la Merkel, la CDU sembra andare verso un governo di coalizione con liberali (FDP, che tornano in Parlamento dopo la sconfitta del 2013) e Verdi.

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Se la presenza di sei forze politiche differenti nel Bundestag e il tracollo dei partiti tradizionali di centro-destra e centro-sinistra rappresentano delle novità in Germania (ma non nel contesto europeo dove da tempo si assiste all’emergere di nuove forze che soppiantano i partiti tradizionali), ancor più interessanti sono alcuni dati sulla distribuzione del voto. In linea con quanto si osserva già da tempo in altri paesi, l’estrema destra e la sinistra “radicale” raccolgono voti fra le classi popolari, intercettando il voto di protesta. Emblematico è il dato dell’AFD che arriva a superare la CDU nelle regioni dell’ex Germania Est, oggi le più povere del paese, dove la Linke non sfonda pur registrando risultati mediamente più alti.

La prima considerazione che si può fare osservando l’emergere di un voto “di protesta” in questo paese, è sull’infondatezza della narrazione della Germania esaltata come modello “virtuoso” di europeismo. Se da un lato la Germania è stata indubbiamente il paese che ha ottenuto i maggiori “benefici” dalla presenza nella UE, nella quale ricopre il ruolo di paese guida, questi benefici (in termini di crescita del PIL e altri indicatori economici) hanno interessato principalmente i monopoli tedeschi, le grandi imprese e le banche, piuttosto che i lavoratori e le classi popolari, che hanno ben poco da guadagnare dalla crescita dei bilanci di Deutsche Bank, Volkswagen, Bayer, ecc. È indicativo che la Merkel abbia impostato la sua campagna elettorale con lo slogan “Rafforzare l’Europa per rafforzare la Germania”, che ben sintetizza il pensiero delle classi dominanti tedesche, consapevoli di quanto la posizione di forza dei monopoli tedeschi nel mercato libero europeo sia foriera di profitti per le loro tasche.

Sull’altro versante ci sono le politiche anti-popolari che si sono abbattute in tutta Europa e che hanno colpito anche la popolazione tedesca. L’immagine della Germania del welfare state e priva di disoccupazione si infrange contro la realtà dei mini-jobs: un esercito di milioni di lavoratori precari, con retribuzioni da contratto spesso inferiori ai 500€, che falsano enormemente al ribasso i dati reali sulla disoccupazione.

L’AFD ha cavalcato, negli anni precedenti, un nascente sentimento antieuropeista “alla tedesca”, in cui i paesi più poveri della UE, come quelli del Mediterraneo, sono dipinti come una palla al piede per il popolo tedesco. Una retorica non troppo raffinata, ma che riesce ad assolvere le responsabilità dei padroni tedeschi facendo avanzare l’idea che siano i paesi del Mediterraneo ad essere responsabili della condizione dei lavoratori del paese, alimentando un sentimento nazionalista. Una retorica che, per buona pace di Salvini che ha celebrato la scalata degli “amici di AFD”, non ha risparmiato neanche attacchi contro gli immigrati italiani, notoriamente numerosi in Germania. Ma sembra essere la svolta xenofoba la vera ragione del successo dell’AFD, che dopo il mediocre risultato del 2013 ha radicalmente modificato la sua retorica politica, ponendo in secondo piano l’uscita da UE ed euro e incentrando la sua propaganda sul tema dell’immigrazione e della sicurezza. Temi su l’estrema destra, dopo il risultato di ieri, viene ormai rincorsa dalla Merkel che ha recentemente annunciato una maggiore attenzione al tema del controllo dell’immigrazione.

A differenza di altri paesi, fra tutti Grecia e Francia, in Germania la socialdemocrazia tradizionale continua a resistere, vedendo il proprio dominio intaccato solo in parte dalla Linke. In Grecia la sinistra radicale di Syriza si è ormai completamente sostituita al Pasok, cioè al partito socialista tradizionale; in Francia le ultime elezioni consegnano un Partito Socialista “pasokizzato” di fronte all’avanzata di Melenchon. In Germania, invece, a una Linke stazionaria che cerca di liberarsi di una eredità che ritiene scomoda, quella dell’esistenza sul suolo tedesco di un’esperienza socialista (la DDR) che rappresentò effettivamente una alternativa per le classi popolari, si contrappone un’estrema destra che “sfonda a sinistra” e fa propri i temi della sinistra “radicale”. Alice Weidel, leader dell’AFD e omosessuale dichiarata, è arrivata ad affermare che la più grande minaccia per i diritti dei gay sono proprio gli immigrati con le loro “culture e religioni omofobe”… un modo tutto suo di fare propria una tematica “di sinistra”.

Tanto in Germania quanto nel resto dei paesi europei, però, dietro questa ristrutturazione dei sistemi partitici e l’avanzata di nuove forze politiche non c’è una reale alternativa per le classi popolari. L’AFD è un partito reazionario, che assolve dalle sue responsabilità la classe borghese tedesca fomentando una guerra fra poveri, indirizzando la rabbia dei lavoratori e delle classi popolari contro gli immigrati. Un partito che, nonostante lo spauracchio agitato dalla stessa CDU, si rivela funzionale a interessi tutti interni alla borghesia tedesca, e che è guidato non a caso da una donna con un passato in Goldman Sachs e Allianz.

Sul versante opposto la Linke, similmente agli altri partiti della Sinistra Europea, è un partito sostanzialmente socialdemocratico, che insegue l’idea di un capitalismo riformabile e di una UE “dei popoli”. Certo, si potrà obiettare, in Germania la socialdemocrazia “tradizionale” è la SPD. Ma il punto è proprio che, tanto in Germania quanto nel resto d’Europa, a fronte di una socialdemocrazia “tradizionale” ormai compromessa agli occhi dei lavoratori (e che in Germania ha governato assieme alla CDU), avanzano nuove forze di sinistra “radicale” che, pur in assenza di un effettivo radicamento di classe equiparabile a quello dei partiti socialisti di inizio ‘900, recuperano l’originario ideale socialdemocratico del riformismo, dell’accettazione del sistema istituzionale borghese come unico terreno di scontro, senza neanche mai concepire l’idea del superamento del sistema economico capitalista. Un ideale riformista che non assume un carattere “rivoluzionario” solo perché è stato abbandonato dalla stessa socialdemocrazia tradizionale, ormai convertitasi in una forza padronale a tutti gli effetti. La Grecia, in cui la sinistra radicale al governo è finita ad imporre le misure di austerità volute dai memorandum della BCE, al pari del PASOK, è l’esempio più evidente di tutto questo.

Oggi come ieri, in Germania come in Italia, ogni illusione riformista resta una strada perdente per le classi popolari e l’unica alternativa sta nella lotta per il rovesciamento di un sistema ingiusto, che condanna milioni di persone a vivere nella miseria. L’avvento del terzo millennio non ha mutato le ragioni della lotta per il socialismo, che è anzi più attuale che mai. L’assenza in diversi paesi di un’organizzazione autonoma della classe operaia, di sindacati di classe e, soprattutto, di partiti comunisti e operai capaci di tenere alta la bandiera della lotta per il socialismo, fa sì che le masse siano trascinate alla coda di interessi di settori della borghesia, spesso proprio da movimenti populisti o reazionari. La risposta a tutto questo non sta negli appelli delle forze tradizionali affinché si faccia quadrato attorno ai partiti di governo per isolare “gli estremismi”. La verità è che l’estrema destra avanza soprattutto laddove è mancata per troppi anni una prospettiva di classe che orientasse le lotte nei luoghi di lavoro e nei quartieri popolari e di periferia. Questa prospettiva possono portarla solo i comunisti, che con il loro radicamento rappresentano l’unico argine reale a una nuova avanzata di forze reazionarie in tutta Europa.

In Germania, un ordinamento costituzionale figlio della Guerra Fredda ha delineato quella “democrazia protetta” che ha portato, nel 1956, alla messa al bando del Partito Comunista di Germania (KPD), con una sentenza dal sapore decisamente fascista che si rivelò un duro colpo per il movimento operaio tedesco. Nel 1968 fu fondato il Partito Comunista Tedesco (DKP), di recente uscito dalla Sinistra Europea e i cui militanti, fra mille avversità, conducono oggi una lotta per la ricostruzione in Germania di un partito capace di essere alla testa delle rivendicazioni delle masse popolari. Una lotta difficile, che si scontra con un sistema istituzionale che ancora oggi prevede misure repressive per i comunisti e leggi anticomuniste in diversi dei Lander in cui è diviso lo Stato tedesco. Ma se si vuole guardare ad una “alternativa” reale per la classe lavoratrice tedesca, questa è rappresentata proprio da chi lotta per restituirle il suo più importante strumento di lotta ed emancipazione. Fuori da questa lotta ci sono solo illusioni, menzogne e sconfitte.

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