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Da Mao a Ma: l’uomo più ricco della Cina è iscritto al PCC

Da Mao a Ma: l’uomo più ricco della Cina è iscritto al PCC

*di Lorenzo Vagni

Ma Yun, comunemente noto con lo pseudonimo di Jack Ma, ha 54 anni ed è l’uomo più ricco della Cina. Il suo patrimonio netto stimato dalla rivista Forbes al 24 ottobre 2018 era di 34,6 miliardi di dollari. La stessa rivista, che pone Ma al 20° posto nella classifica degli uomini più ricchi al mondo, al 7° in quella dei più ricchi nel ramo della tecnologia e al 21° in quella dei più potenti del pianeta, stima che ad un mese di distanza dalla redazione dell’annuale classifica il suo patrimonio sia salito a 35,8 miliardi[1]. Ma è il fondatore di Alibaba Group, un colosso dell’economia mondiale, composto da un conglomerato di imprese operanti nel commercio elettronico, nella vendita al dettaglio, in piattaforme di pagamento, in motori di ricerca per lo shopping, nell’intelligenza artificiale e nel cloud computing. Alibaba, il cui valore di mercato aveva superato nel giugno 2018 i 540 miliardi di dollari[2], è secondo la rivista Fortune al 9° posto nella classifica mondiale delle imprese per valore di mercato[3]. Nel settembre 2018 Ma ha annunciato di voler lasciare entro un anno la carica di presidente esecutivo di Alibaba, ufficialmente per dedicarsi ad attività filantropiche.

La figura di Ma è molto apprezzata in occidente: ad esempio, nel 2010 fu inserito, ancora da Forbes, nella lista degli “Eroi della Filantropia dell’Asia” per la lotta contro la povertà, letteralmente per aver «aiutato i contadini ad aumentare i raccolti e introdotto programmi educativi in Cina»[4]. Altri elogi giungono a Ma da Bloomberg:

«La sua visione ha cambiato la Cina. Mentre Ma pianifica di lasciare Alibaba Group Holding Ltd., la sua eredità sarà duratura. Ha fatto molto più che il semplice creare e costruire un gigante dell’e-commerce facendolo diventare la società di maggior valore in Asia, per quanto questo possa essere notevole. Ha mostrato che un’impresa privata innovativa poteva prosperare sotto il regime di un Partito Comunista un tempo ostile, e ancora sospettoso a volte, nei confronti di capitalisti ambiziosi. […] Il suo approccio ha dimostrato come il successo imprenditoriale possa coesistere con il regime comunista, aprendo la strada a un nuovo tipo di startup.»[5]

Non sorprende il fatto che la figura di un ricco e potente capitalista proveniente da uno stato ancora ufficialmente socialista attiri le simpatie e l’ammirazione di gruppi il cui scopo è quello di fungere da piedistallo per gli uomini più ricchi del mondo. Questi elementi, come l’articolo di Bloomberg testimonia con chiarezza, vedono in Ma la prova di come l’arrivismo personale, la lungimiranza e il “merito” possano prevalere sui valori del comunismo (o di quello che negli Stati Uniti considerano tale). I rapporti di Ma con l’occidente non si limitano ai semplici apprezzamenti da parte dei media. Vi sono stati nel recente passato diversi scambi con Donald Trump, tanto che Ma fu tra i primi a congratularsi con quest’ultimo a seguito della sua vittoria elettorale, anche se ultimamente i rapporti si sono inaspriti: infatti, dopo aver annunciato, proprio durante un incontro con Trump, la creazione di un milione di posti di lavoro negli USA, Ma è arrivato ad annullare tale programma a seguito delle politiche statunitensi sui dazi alla Cina, in una contrapposizione dovuta più all’acuirsi di attriti tra blocchi imperialisti avversi che non a premesse ideologiche.

Ciò che può, al contrario, generare stupore è il fatto che la figura di Jack Ma sia apertamente presa a modello perfino nella Cina stessa. Un articolo del The Economist mette in luce come Ma sia diventato fonte di ispirazione per la nuova generazione imprenditoriale che si sta sviluppando in Cina:

«Uno dei lasciti del signor Ma è il passaggio ad una cultura che valuta le startup come non mai. Il suo carisma e le sue raccomandazioni gli hanno garantito un culto tra gli imprenditori del paese.»[6]

Tuttavia l’articolo sottolinea anche come Alibaba sia diventato nei fatti un monopolio ed impedisca l’affermarsi autonomo di nuove imprese:

«[Alibaba, n.d.r.] è diventato talmente grande che molte startup decidono di lavorare con Alibaba piuttosto che procedere da sole. […] È oggi più difficile essere dirompenti come fu il signor Ma 20 anni fa. Questo avviene in parte in quanto la sua creazione è dominante.»

La piena accettazione, se non l’aperta esaltazione, della figura di Ma arriva però dal Partito Comunista Cinese, il cui Comitato Centrale, come riportato da un articolo del Quotidiano del Popolo del 26 novembre[7], premierà Jack Ma, insieme a Ma Huateng (32,8 miliardi di dollari, 2° uomo più ricco della Cina[8]) e Robin Li (14,6 miliardi di dollari, 8° uomo più ricco della Cina[9]), fondatori rispettivamente di Tencent e Baidu, per il loro contributo “alla riforma e all’apertura”. In particolare il CC si spende a favore di Jack Ma, affermando che «è stato una notevole forza trainante per la domanda interna» ed elencando i traguardi raggiunti da Alibaba. Contestualmente l’articolo annuncia ufficialmente, per la prima volta, che Ma è un membro del PCC.

Il fatto che uno dei capitalisti più ricchi del pianeta sia iscritto a un partito comunista non è giustificabile in alcun modo. È dunque necessario analizzare come la situazione attuale del partito cinese permetta e favorisca una tale deriva. L’ingresso di alcuni degli uomini più ricchi del paese è legittimata da alcune teorie che sono state introdotte nel partito a partire dalle riforme di Deng, di cui ricorre il 40° anniversario. Tra tutte queste, la più chiara nel definire i suoi intenti è la “teoria delle tre rappresentanze”, ideata da Jiang Zemin nel 2000 e assunta ufficialmente come ideologia del PCC nel corso del suo XVI Congresso, due anni più tardi.

Secondo l’elaborazione di Jiang, il partito comunista deve rappresentare le esigenze delle “forze produttive più avanzate del paese” e garantire gli interessi dei più ampi strati della popolazione. Una simile affermazione avveniva in un paese che aveva visto, a partire dall’inizio delle riforme di mercato nel 1978, lo sviluppo e il consolidamento di nuove classi imprenditoriali e manageriali che avevano tratto vantaggio dalle massicce privatizzazioni e liberalizzazioni[10]. Attorno al 2000 tuttavia la composizione degli iscritti al PCC vedeva ancora una percentuale nettamente prevalente di operai e contadini (45,1%) [11] mentre negli anni successivi si ha una tendenza inversa con la costante diminuizione della percentuale di operai e contadini (circa il 32%) rispetto ad un netto incremento del personale manageriale. L’obiettivo di Jiang era quindi aprire anche formalmente le porte del partito agli imprenditori nati grazie alla riforma economica, in poche parole ai capitalisti. Questo fatto mette in luce come analisi esistenti nel campo della sinistra che tendono ad equiparare la NEP sovietica alle riforme di mercato cinesi siano quanto di più lontano dalla realtà.

Oltre alle differenze materiali nelle condizioni socio-economiche dei due paesi al momento delle riforme citate (sistema economico preesistente semifeudale, conseguenze della guerra, quasi assoluta inesistenza di un’industria nazionale, ecc.) vi sono differenze concrete dal punto di vista politico-ideologico: in URSS, in cui la NEP ebbe la durata di soli 7 anni, le classi venutesi a sviluppare dal piccolo commercio privato, i cosiddetti “uomini della NEP” ed i kulaki, erano emarginati e non godevano di alcun diritto politico, tantomeno gli era concesso di far parte del partito, grazie al fatto che le tesi di Stalin ebbero la meglio su quelle di Bucharin, incline non soltanto a tutelare quelle classi, ma a favorirne l’ulteriore sviluppo; al contrario in Cina, per quanto detto in precedenza, i cedimenti ideologici del partito, che vedono in Jiang il loro apice, hanno compromesso la composizione stessa del PCC, che grazie all’ingresso esplicito di elementi borghesi è divenuto quindi nei fatti interclassista. Ciò rende assolutamente irrealistica la tesi secondo cui in un futuro indefinito il Partito Comunista Cinese possa riprendere in mano le redini dell’economia e riportare il paese ad una forma di socialismo, essendo venuta meno del tutto la natura proletaria del partito. In tutto questo figure come Jack Ma vengono non solo esaltate e prese a modello, ma perfino riconosciute come comunisti.

Nessuna tattica intrapresa da un partito comunista potrà mai portare alla comunanza di interessi tra il proletariato ed i padroni. L’unica possibilità di edificare una società basata su interessi diversi da quelli del profitto di pochi elementi parassitari passa unicamente per le mani dei lavoratori.

___________

[1] www.forbes.com/profile/jack-ma/?list=china-billionaires#27ccf0291ee4

[2] ycharts.com/companies/BABA/market_cap

[3] fortune.com/2018/05/29/chinese-brands-alibaba-tencent-brandz

[4] www.forbes.com/2010/03/08/asia-heroes-charity-personal-finance-philanthropy-china.html

[5] www.bloomberg.com/news/articles/2018-09-11/how-jack-ma-became-the-role-model-for-china-s-startup-generation

[6] www.economist.com/leaders/2018/09/15/china-will-struggle-to-produce-another-jack-ma

[7] en.people.cn/n3/2018/1126/c90000-9522161.html

[8] www.forbes.com/profile/ma-huateng/?list=china-billionaires

[9] www.forbes.com/profile/robin-li/?list=china-billionaires

[10] Dalla creazione delle prime 4 zone economiche speciali, l’introduzione dell’impresa privata e delle relazioni mercantili. Dal 1992 viene riconosciuto il ruolo decisivo del mercato nel sistema cinese. Le relazioni mercantili private sono ormai dominanti: dal 1998 al 2007, il numero di imprese statali si è ridotto da 238.152 a 115.087, ossia, meno 52%. Tra le 2.926 grandi imprese statali presenti nel 2007, l’86,88% sono state riformate negli anni seguenti e il 34,52% è passata a proprietà mista. Negli ultimi anni sono state trasferite al capitale privato 2.618 imprese statali di varie dimensioni. Dal 2013 sono state istituite 12 zone di libero commercio. Lo Stato cinese controlla meno del 2% delle imprese, sebbene in esse lavori il 18% della classe operaia del paese. www.resistenze.org/sito/os/mo/osmoim22-020915.htm

[11] Xiao Ding, “Is China about to Collapse?” in Beijing Review, vol. 45, n.27, 4 luglio 2002. Citato in https://www.tuttocina.it/Mondo_cinese/112/112_edit.htm

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