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«Teoricamente dovrei fare 40 ore, in pratica non c’è più un monte ore». La distribuzione alimentare nell’Italia in quarantena

Continuiamo con le testimonianze dei lavoratori ai tempi dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, riportando stavolta quelle di giovani operatori nel settore della distribuzione alimentare. Mentre si blocca gran parte del Paese, in tanti sono ancora obbligati a lavorare. La distribuzione alimentare rientra chiaramente tra i servizi essenziali, a differenza di altri settori in cui i padroni si ostinano a voler continuare con la produzione nonostante sia necessario solo per il loro profitto – e per nessun’altra ragione. Questo non significa però che nella distribuzione alimentare l’emergenza coronavirus non stia comportando un incremento dello sfruttamento dei lavoratori. Avviene anzi proprio questo, come ci hanno riportato diverse testimonianze provenienti sia da grandi catene (Esselunga, Carrefour, Pam, giusto per citarne alcune) sia da supermarket più modesti.

Viviamo in un clima di sospetto reciproco, ormai non ci fidiamo più nemmeno dei nostri colleghi. Le norme che hanno deciso sono inattuabili – ci racconta Andrea (nome di fantasia) giovane lavoratore milanese di una nota catena – entrano scaglionati ma la distanza di un metro tra noi che lavoriamo e i clienti non c’è mai! È impossibile da tenere. Le mascherine che ci danno sono poche, finiscono e non aderiscono nemmeno al volto, sono totalmente inutili. Proprio in questi giorni tanti colleghi si stanno mettendo in malattia per badare ai figli o semplicemente per paura, e per noi che continuiamo ad andare aumentano i turni. L’azienda fa di tutto pur di non chiudere anche se il bilancio risulta in perdita, non interessa a nessuno se stiamo buttando una montagna di prodotti scaduti che non si vendono, l’importante è continuare a tenere aperto. Abbiamo un bersaglio sulla schiena noi che lavoriamo lì, siamo i primi”. Alle parole di Andrea fanno eco quelle di altri lavoratori con cui siamo entrati in contatto e che descrivono una situazione analoga. Giovanni, impiegato in un’altra catena nella provincia di Monza, ci racconta un dettaglio fondamentale: “Ai ragazzi e le ragazze con contratto da stagista, che per legge sarebbero dovuti restare a casa, è stato fatto un contratto (non so di che tipo né per quale durata) per farli lavorare, mettendoli nelle condizioni degli altri dipendenti ed esponendoli al rischio di contagio”. Fatta la legge, trovato l’inganno! È in questa situazione d’emergenza che viene a galla lo stato di sfruttamento in cui versano migliaia di giovani nel nostro paese, dove al ruolo essenziale di questi ultimi nei posti di lavoro corrispondono contratti di facciata e retribuzioni da fame.

Le condizioni peggiori si rinvengono, però, nei piccoli punti vendita di catene minori, tanto al nord, dove abbiamo riscontrato una situazione altamente drammatica, quanto al centro sud. “Dove lavora mio fratello, i lavoratori sono costretti a fare tantissime ore extra senza essere retribuiti, probabilmente perché essendo un piccolo privato non ha controlli e non ha a che fare con i sindacati – racconta Elisa (nome di fantasia) di Roma – Pensa che li fanno lavorare per dodici ore e li pagano per sei. Anche riguardo la sicurezza sono messi male: non hanno mascherine e guanti, nemmeno le scarpe antinfortunistiche. Non hanno nulla proprio. Entri lì e ti metti le mani nei capelli per come stanno messi!”.

Infine, nel centralissimo corso Sempione a Milano, Luca (sempre nome fittizio) ci fornisce un quadro lavorativo da brividi: “Teoricamente dovrei fare quaranta ore settimanali, in pratica non c’è più un monte ore settimanali, si va da un minimo di quaranta ad un massimo non definito (il mio superiore questa settimana ha fatto ottantacinque ore, mentre una mia collega cinquantotto). C’è un enorme carenza di personale ovunque e ci è stato attualmente tolto il giorno di riposo e diviso in due turni liberi a settimana; questo porta a fare un minimo di sei/sette ore di straordinari fino a quando non finirà la situazione di emergenza. Siamo talmente sottorganico che alcuni colleghi nonostante stiano male, sebbene non siano risultati positivi al tampone, e il medico di base abbia loro consigliato di stare a casa, devono venire a lavorare perché non riescono a prendere giorni di malattia”. Alla domanda relativa alle misure di sicurezza ci risponde: “Le mascherine attualmente non le abbiamo, dobbiamo procurarcele da soli; l’unica cosa che ci danno sono i guanti e una boccettina di simil-amuchina che deve bastare per tutti, anche per i clienti. Oggettivamente è impossibile tenere il metro di distanza nel momento in cui si è oberati di lavoro, visto che a turno siamo in due; l’igienizzazione dei carrelli e dei cestelli riesci a farla una volta sì e purtroppo dieci no, perché c’è troppo lavoro, te lo dimentichi o i clienti li prendono prima che la fai. La situazione ogni tanto diventa anche pericolosa: abbiamo dovuto chiudere i nostri store online per tre giorni perché arrivavano cinquanta/sessanta ordini con i riders che si accalcavano fuori e alcuni di loro ci hanno anche aggrediti, tanto che abbiamo dovuto chiamare più volte la polizia”. Conclude Luca, visibilmente provato: “È un disastro, non possiamo continuare così. Le aziende non riescono a garantire minimamente gli standard igienici e sanitari che ci chiedono e soprattutto non riescono a garantire la salute psicofisica di ognuno di noi. Io la settimana prossima non so quante ore farò, so soltanto quello che faccio domani e mi è stata richiesta testualmente “estrema flessibilità giornaliera su ogni singolo turno”.

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