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«Noi non possiamo proteggerci». Intervista a Marcello Sergio, Vigile del Fuoco e sindacalista

Senza Tregua ha intervistato Marcello Sergio, vigile del fuoco a Roma e RSU per l’Unione Sindacale di Base (USB). Nelle ultime settimane Marcello è stato il più attivo sostenitore della campagna “Noi non possiamo proteggerci” lanciata dai lavoratori Vigili del Fuoco per denunciare le condizioni lavorative e di sicurezza in cui versa oggi la loro categoria.

 

Ciao Marcello. Le condizioni di lavoro quotidiane dei Vigili del Fuoco, è ormai noto, versano in condizioni critiche anche in periodi di “normalità” per il Paese. Come sta influendo questo periodo straordinario di emergenza nel lavoro di un vigile del fuoco?

Nel lavoro ordinario non è cambiato assolutamente nulla. Sono diminuiti leggermente gli interventi come l’apertura di porte o quelli sugli ascensori bloccati, per via delle limitazioni sugli spostamenti. Per il resto continuiamo ad intervenire come prima su fughe di gas, cornicioni pericolanti, soccorsi a persone etc. Per questo le criticità che c’erano prima rimangono ora.

Per la prima volta nella storia del corpo dei Vigili del Fuoco sono stati i cambiati i turni su tutto il territorio nazionale, passando da 12 ore (12 di lavoro/24 di riposo/12 di lavoro/36 di riposo) a 24 ore (e 72 di riposo). La motivazione ufficiale è stata quella di voler ridurre gli spostamenti per limitare il contagio, ma in realtà si tratta di una misura per tagliare i costi. In Italia infatti si conta un rapporto di 1 pompiere ogni 17.000 abitanti, 17 volte maggiore al rapporto indicato dagli standard europei di 1 ogni 1000, differenza per cui lo Stato paga anche una multa all’Unione Europea. Questo ovviamente comporta gravi carenze di personale in tutte le caserme. Con i turni di 12 ore, quindi, capitava spesso di dover fare un doppio turno per sopperire alle mancanze di organico e quelle ore in più venivano pagate come straordinari (quasi il doppio rispetto alle prime 12 ore). Oggi, invece, rientrano nel turno ordinario.

E a parte questa, ci sono state altre misure?

In realtà no, non quelle che dovrebbero. L’assurdità di voler limitare il rischio di contagio riducendo gli spostamenti si dimostra proprio guardando quello che non si sta facendo, in merito alle condizioni in cui i pompieri si ritrovano a operare. Alle carenze di personale in questo momento si sopperisce, in maniera comunque insufficiente, bloccando le ferie e i riposi, ma rimane il problema costante della mancanza di attrezzatura e di mezzi per gli interventi, aggravato dalla tragica assenza dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale). Sul rischio biologico le categorie maggiormente esposte sono i sanitari e i Vigili del Fuoco, e oggi siamo proprio quelli più impreparati. Già il personale sanitario, che ha il compito di curare il malato, si trova spesso in difficoltà in termini di attrezzatura adeguata per la sicurezza personale e la gestione dei pazienti, ma noi che rappresentiamo la prima linea, coloro che intervengono per primi in scenari di emergenza, ci troviamo in una situazione ancora peggiore, senza né mascherine, né guanti, né occhiali, né tute. Ogni giorno è a repentaglio la nostra salute e quella dei cittadini, con cui siamo costantemente in contatto.

Quindi tutt’ora questo materiale scarseggia?

Proprio così. In caserma abbiamo un numero di guanti, mascherine e occhiali pari soltanto al numero di pompieri in turno. I DPI devono rimanere chiusi in una scatola, e sono utilizzabili esclusivamente in caso di intervento di supporto al 118 con accertata presenza di persona infetta da Covid-19, usarli è vietato sia nel resto degli interventi che all’interno della caserma. Dopo il loro utilizzo, il nuovo ordine deve essere di volta in volta richiesto a un organo superiore (GOP) che verifica sul verbale se l’intervento corrispondeva all’unico caso in cui possono essere utilizzati, e ne spedisce degli altri, sempre in quantità contingentate, facendo passare giorni senza DPI in caserma. È come spegnere un incendio senza avere l’acqua, e ancora non è tutto. Questo periodo possiamo definirlo ancora di “pace”, dato che ad ora stiamo affrontando “soltanto” l’emergenza sanitaria. Ma se domani a livello locale o nazionale dovessero esplodere altre emergenze piuttosto comuni, come alluvioni, straripamenti, terremoti o propagazione di incendi, ci troveremmo in uno scenario di guerra, con un carico di lavoro che su turni di 24 ore diventerebbe insostenibile e l’assenza di protezioni sanitarie che graverebbe sulle carenze ordinarie.

Come e quando è nata l’idea di lanciare lo slogan “noi non possiamo proteggerci”?

L’idea è nata due settimane fa, all’inizio dell’aggravarsi della crisi sanitaria. Mentre l’OMS e l’ISS sui media diramavano le misure da adottare per fermare il contagio da Coronavirus (rispetto della distanza interpersonale di 1mt, limitazioni degli spostamenti, interdizione degli assembramenti etc.), ci siamo resi conto che noi, come gli operatori sanitari, non potendo rispettarle avremmo potuto continuare a lavorare soltanto utilizzando i dispositivi di protezione per tutto l’orario di lavoro. Nonostante il 90% dei nostri interventi siano a diretto contatto con la popolazione, però, non abbiamo ricevuto nulla di tutto questo, e abbiamo deciso di lanciare questa campagna.

Avete anche aperto una pagina sui social network legata alla campagna, state ricevendo solidarietà da altri lavoratori e dai cittadini?

Assolutamente sì, abbiamo ricevuto moltissimi messaggi di solidarietà sia dai cittadini che da altri lavoratori oggi sul campo. In particolar modo gli operatori sanitari hanno partecipato in prima persona alla campagna, scattando e inviando anche loro le proprie foto.

Nelle ultime settimane riemerge una polarizzazione in molti luoghi di lavoro: la retorica del “siamo tutti sulla stessa barca” pare soccombere davanti alla realtà dello scontro di classe. Sembra che la forza dell’emergenza abbia scoperchiato contraddizioni che normalmente rimangono sepolte nelle quasi indifferenza generale. Cosa pensi della reazione dei lavoratori e degli scioperi spontanei che si susseguono da molte parti?

Sono d’accordo con i lavoratori che in questo momento si trovano costretti a scioperare per l’assenza dei dispositivi di protezione, lavorando in aziende che pongono prima il profitto rispetto alla salute del lavoratore. Vediamo infatti aziende che non producono beni essenziali, come Amazon, che rimangono aperte costringendo i dipendenti a recarsi sul posto di lavoro, senza neanche fornirgli protezioni adeguate. È chiaro quindi che il lavoratore quando prende coscienza deve far fronte a questa situazione. Chi lo ha utilizza lo strumento dello sciopero, chi non ce l’ha, purtroppo, deve ripiegare su altri metodi.

Tu sei un RSU USB. Si sta facendo abbastanza secondo te a livello sindacale oggi in questa emergenza? Avete trovato solidarietà nelle altre sigle sindacali?

Noi stiamo facendo il possibile, ma dalle altre sigle sindacali dei VdF (Cgil, Cisl, Uil, Conapo*) invece non vediamo nessuna attivazione. Nonostante la campagna “noi non possiamo proteggerci” sia partita dai lavoratori per la tutela della propria salute, quando abbiamo proposto di mettere da parte le sigle sindacali per lanciare insieme questa iniziativa tutte e quattro le sigle hanno risposto no, chi per adeguarsi alla linea nazionale di basso profilo, chi perché ha “fiducia” nell’amministrazione.

Vuoi lanciare un appello ai tuoi colleghi in tutta Italia e ai cittadini che vivono questi momenti complicati?

Ai colleghi lancio l’appello di prendere coscienza della propria condizione e di proteggere noi stessi per rispettare il nostro obbligo morale: proteggere e difendere la popolazione. Non possiamo aspettare che arrivi niente dall’amministrazione, dobbiamo essere noi in primis a farlo.

Ai cittadini invece posso chiedere di supportare questa campagna per amplificare il messaggio e farlo arrivare più forte possibile e a quante più persone possibile.

*CONAPO si definisce comitato autonomo, non sindacato di base, ed è attualmente il secondo sindacato più forte nella categoria.

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