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Smart working: come cambierà il lavoro dopo l’emergenza?

di Alessio Angelucci

Nelle ultime settimane in Italia l’emergenza COVID 19 ha portato all’ordine del giorno decine di questioni, tra queste si è imposta nella vita di milioni di italiani quella dello smart working.

Da molti viene presentato come il lavoro del futuro, per altri è semplicemente una soluzione temporanea per evitare i contagi, per altri ancora una condizione lavorativa difficile da sostenere a causa degli innumerevoli problemi che porta con sé. Una cosa è però interessante: questo mutamento nel sistema dei rapporti di lavoro non sarà temporaneo e relegato all’emergenza di questi mesi, di conseguenza siamo chiamati a una riflessione più approfondita per cercare di comprendere meglio cosa sta accadendo.

Lo smart working viene sperimentato per le prime volte negli Stati Uniti, in Regno Unito ed in Olanda e rappresenta una modalità lavorativa a cui spesso viene assimilato: il telelavoro.

Il telelavoro, nato negli anni ’70 negli USA, rappresentava il semplice spostamento del luogo di lavoro nell’abitazione del lavoratore. Non era prevista alcuna variazione nel rapporto lavorativo né in termini di diritti né in termini di doveri per il dipendente. Quest’ultimo riceveva dall’azienda il necessario per la conduzione della propria attività, rimaneva soggetto al medesimo orario di lavoro e alle medesime forme di controllo previste per il lavoro in sede.

Lo smart working invece ridefinisce la natura stessa dell’attività lavorativa, che raggiunge il grado massimo di “flessibilità”. Il lavoratore può lavorare dove preferisce (anche in luoghi diversi nel corso della stessa giornata), con il dispositivo che preferisce, negli orari che preferisce, purché raggiunga gli obiettivi previsti dall’azienda. L’azienda si disinteressa di quasi tutto ciò che non sia il raggiungimento del risultato. Questa maniera di lavorare rientra nel così detto “result-based management”, uno dei principi cardine sul cui si fonda quella che viene definita “Industria 4.0”. In Italia è stato introdotto dalla legge 81/2017, approvata per disciplinare un fenomeno già messo in atto senza una regolamentazione formale attraverso accordi tra imprese e sindacati.

In apparenza lo smart working potrebbe rappresentare un’opportunità per i lavoratori e sembrare una scelta neutrale per le imprese o persino una concessione. Se però andiamo più in profondità ci accorgiamo che non è così. Infatti, dietro all’allettante prospettiva di poter lavorare comodamente nel proprio soggiorno, senza dover affrontare le peripezie connesse ai trasporti, che sono vissute ogni giorno da chi esce di casa per andare in ufficio, in realtà si nascondono prospettive tutt’altro che favorevoli per il lavoratore.

Ad esempio, alcuni dei costi che normalmente sono a carico dell’impresa finiscono per essere a suo carico. È lui che se lavora in casa mette a disposizione la sede fisica, paga l’attrezzatura necessaria per lavorare, la connessione internet, l’elettricità, il riscaldamento, l’eventuale manutenzione dei dispositivi. Il padrone in questo modo, oltre a risparmiare su queste voci, risparmia anche sui costi necessari per adibire e gestire una sede lavorativa, come l’acquisto o l’affitto di immobili, le pulizie, la manutenzione della sede, un’eventuale mensa. Questo trasferimento delle spese, a cui i lavoratori potrebbero non dare molta importanza, per le imprese è invece molto vantaggioso. Si tratta infatti di un taglio “costi fissi”, tradizionalmente molto gravosi e complessi da abbattere, che, in un contesto come quello attuale in cui si acuisce la concorrenza nei vari mercati, rappresenta un’opportunità per essere più competitivi e aumentare sensibilmente i profitti.

Allo stesso tempo, il lavoratore che si carica di questi costi non riceve una maggiorazione salariale. Infatti, la legge chiarisce che la retribuzione dello “smart worker” non può essere inferiore rispetto a quella di un lavoratore che svolge la sua stessa mansione, ma all’interno dell’azienda. Questo riferimento esplicito fa emergere, tra le righe, come lo smart working sia concepito già di per sé come una concessione, per cui risulta necessario chiarire come, a seguito di tale “grazia”, non possa in ogni caso applicarsi una riduzione salariale. Per il lavoratore cambia anche il calcolo della retribuzione: si passa da una retribuzione oraria a una retribuzione fissata in base al raggiungimento dell’obiettivo concordato con l’impresa. Ciò significa che per l’impresa si apre la possibilità di individuare degli standard produttivi molto elevati, che magari richiedono un dispendio orario più elevato poiché non raggiungibili semplicemente attraverso un aumento del tasso di produttività dell’impiegato, mantenendo però invariata la retribuzione. In questo caso, quindi, l’imprenditore può risparmiare sul costo del lavoro poiché non deve farsi carico del pagamento di straordinari per un eventuale aumento di ore lavorate, visto che il lavoratore non viene più pagato su base oraria. A testimonianza di queste considerazioni vi è una ricerca fatta dall’Osservatorio per lo Smart Working (OSM) della School of Management del Politecnico di Milano, che valuta i benefici di una transizione diffusa allo smart working in circa 37 miliardi a vantaggio delle imprese, tra abbattimento del costo del lavoro e aumento della produttività, risparmi su spazi fisici e spostamenti per il lavoro1.

Nel novero della riduzione dei costi si include spesso una diminuzione delle ricadute ambientali del lavoro grazie alla diminuzione degli spostamenti verso il proprio luogo di lavoro. Ci sembra però azzardato sostenere questa tesi, poiché questi spostamenti rappresentano una percentuale irrisoria delle emissioni a livello globale e nei paesi industrializzati. Una retorica di questo tipo al massimo può essere utile per il green washing di quelle grandi imprese che, pur continuando a macchiarsi di tremende devastazioni ambientali in giro per il pianeta, cercano di promuovere queste soluzioni insufficienti per darsi una facciata di eco-compatibilità. È evidente che la soluzione della questione climatica e ambientale vada ricercata nel cambiamento di aspetti ben più profondi afferenti all’attuale modo di produzione.

Inquadrare il fenomeno dello smart working soltanto in una diminuzione generalizzata dei costi per le imprese sarebbe però riduttivo. Staremmo infatti trascurando tutto ciò che attiene all’analisi della natura sociale del luogo di lavoro e di ciò che un mutamento della stessa può determinare per il lavoratore. Trasferire l’attività lavorativa in una sfera fortemente individualizzata non è assolutamente una scelta esente da ricadute sul piano psicologico, soprattutto in un conteso generale in cui spesso i legami interpersonali che si formano su luogo di lavoro costituiscono una parte importante dei legami sociali potenziali per una persona. Questi costi sono individuati anche dal già citato report dell’OSM, secondo il quale il 35% degli smart worker dichiarano di “percepire isolamento” 2. Chiaramente ai capitalisti questo dato interessa soltanto in funzione del rischio di un abbassamento della produttività che ne deriverebbe, ma, in realtà, se per un attimo si abbandona la tipica concezione capitalistica del lavoratore, inteso come nulla più che una macchina, si può intuire quali potrebbero essere i costi in termini di peggioramento della qualità della vita del lavoratore nell’utilizzo continuativo di questa nuova forma di lavoro.

A queste implicazioni sul peso di un maggiore isolamento sociale, se ne accompagna una di enorme portata e che forse rappresenta il più grande elemento di problematicità introdotto dallo smart working, insieme all’aumento dell’orario effettivo di lavoro. Nel passaggio dal lavoro in sede alla flessibilità del luogo si realizza un altro dei principi dell’industria 4.0: la smaterializzazione del luogo di lavoro. La scomparsa di sedi fisiche e fisse in cui si concentrano i lavoratori e la riduzione delle relazioni sociali tra di essi che ne consegue, rappresenta di fatto la divisione spaziale tra i lavoratori, che si può tramutare in una incredibile limitazione delle possibilità che questi hanno per condurre attività politico-sindacale, organizzarsi e condurre iniziative di lotta. È chiaro infatti che se un lavoratore non ha un contesto in cui incontrare i suoi colleghi, non ha modo di conoscerli né di entrare in relazione con loro se non attraverso video-chiamate, avrà molte più difficoltà ad organizzarsi con quegli stessi colleghi per migliorare la propria condizione, rispondere ad eventuali attacchi portati avanti dal padrone o anche solo promuovere momenti di partecipazione collettiva in grado di far avanzare il livello di coscienza di classe. Ciò rappresenta la possibilità da parte del padrone di inquadrare il suo rapporto con il lavoratore il più possibile in una dinamica individuale, ponendosi dunque su un terreno sul quale egli parte da una posizione di vantaggio proprio in virtù del suo stesso ruolo. Soltanto l’unione tra i lavoratori coscienti e organizzati è in grado di opporsi ai soprusi che ogni giorno questi subiscono, i padroni lo sanno bene e di conseguenza provano in ogni modo a limitare le loro possibilità. Nel caso dello smart working l’attacco che viene fatto è quello alla possibilità di organizzarsi sul luogo di lavoro.

Tutti questi aspetti rappresentano quindi per le imprese una ghiotta occasione per ottenere dei vantaggi e non a caso già prima dell’emergenza Coronavirus la diffusione dello smart working era in aumento.

Sempre secondo il report dell’OSM nel 2019 si stimava in circa 570.000 unità il numero di “smart workers”, con una crescita del 20% rispetto all’anno precedente. La percentuale di grandi imprese che nel nostro paese ha avviato progetti di smart working è del 58%, con una parte consistente di quelle che ancora non lo hanno fatto che dichiarano di starne già studiando la fattibilità e di esserne interessate. Anche il coinvolgimento percentuale del numero di dipendenti sembra essere molto elevato, infatti nei progetti analizzati dall’OMS il numero medio di lavoratori per azienda coinvolti da questa scelta è il 48%. I principali utilizzatori dello smart working risultano essere grandi monopoli del settore IT, bancario-assicurativo, delle telecomunicazioni. Persino nell’ambito della produzione in alcuni casi è possibile far programmare e controllare le macchine a distanza dal lavoratore, anche se una delle cose che ci insegna questa crisi è la centralità assoluta della classe operaia per tutti gli elementi essenziali della produzione, testimoniato dalla veemenza dei tentativi di Confindustria di tenere aperte il maggior numero possibile di fabbriche nonostante l’emergenza. Seppur in maniera più ridotta si ravvisano anche i primi tentativi di mutamento in questa direzione da parte di PMI e PA.

Secondo il ministero del Lavoro nell’ultimo mese il numero di “smart workers” è più che raddoppiato e le stime dei consulenti del lavoro, riportate da un’indagine firmata Corriere-Politecnico di Milano, ci dicono che circa 8,2 milioni di italiani possono lavorare da casa. Sempre la stessa indagine ci mostra come diversi grandi gruppi abbiano colto l’occasione delle misure restrittive necessarie al contenimento del virus per sperimentare questa nuova opportunità obbligando i dipendenti a trasformarsi in “smart workers”. Tra queste figurano Eni, FCA, Fincantieri, Telecom, Vodafone, Wind3, Unicredit, Intesa San Paolo… Questo spostamento è stato fondamentale per il proseguimento delle attività delle imprese ed ha causato già le prime difficoltà ai lavoratori, che testimoniano molto spesso aumenti sensibili delle ore lavorate. A questo elemento si aggiungono le difficoltà tecniche. Non sempre infatti la connessione ad internet è accessibile a tutti, al di là del fattore economico, nel nostro paese è presente anche una forte carenza infrastrutturale, per cui si stima che oltre 11 milioni di italiani non abbiano una connessione ad internet efficiente3.

Non possiamo dire con certezza quale sarà il ritmo di crescita dello smart working alla fine dell’emergenza, né che dimensioni assumerà il fenomeno nel nostro paese. Sappiamo però quali prospettive può aprire l’introduzione di massa di questa nuova forma del rapporto lavorativo. Alla distopia di una moltitudine di lavoratori atomizzati e chiusi nella propria casa a lavorare dietro a un PC, sarà necessario rispondere mantenendo ferma la necessità di organizzazione collettiva della classe lavoratrice a partire dai luoghi di lavoro, qualsiasi essi siano, come unico strumento per riscattare una condizione che altrimenti, in nome dell’arricchimento delle imprese, viene sempre più degradata.

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