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Profitti, “filantropia” e riconversioni: come i capitalisti affrontano la crisi

di Pierpaolo Mosaico e Alessio Angelucci

L’emergenza sanitaria con cui stiamo convivendo da ormai più di un mese sta dispiegando i suoi effetti non solo sul piano strettamente relativo alla salute pubblica, ma anche su quello economico-sociale. Mentre sono ancora del tutto insufficienti le misure a sostegno dei lavoratori e delle classi popolari, con milioni di persone che affrontano enormi difficoltà in assenza di qualsiasi tipo di introito nel contesto delle restrizioni per il contenimento dell’epidemia, il Governo ha come priorità assoluta il sostegno alle imprese. Ma di fronte ad un calo stimato del PIL annuo del nostro Paese che si attesterebbe almeno al -8,5%, le pressioni della Confindustria non si limitano all’interlocuzione con il governo e rispondono alle multiformi strategie che i vari settori della borghesia italiana stanno seguendo e che riteniamo necessario analizzare.

Produrre ad ogni costo

L’esigenza primaria per tutti i capitalisti è quella di non fermare le proprie attività per nessun motivo, pena la perdita di posizioni sul mercato e la conseguente diminuzione dei profitti. Questo bisogno spiega il motivo per cui la borghesia italiana si sia mossa compattamente per condizionare la gestione della crisi da parte del governo. Esemplificativo da questo punto di vista il caso della provincia bergamasca, non a caso una delle più colpite dal Coronavirus, e le pressioni esercitate dalla Confindustria di cui abbiamo già parlato in un precedente articolo (link).

La prima fase della crisi è stata caratterizzata dal tentativo da parte dei padroni di non interrompere alcuna attività, così da continuare a guadagnare il più possibile, non curandosi minimamente delle condizioni dei lavoratori e dell’impatto in termini di vite umane, o meglio proletarie, di un aumento della diffusione del Covid. Nei fatti le misure del Governo hanno seguito questo indirizzo, ritardando di oltre due settimane la chiusura dei settori non essenziali e consentendo così agli industriali di intensificare la produzione per fare magazzino, facendone pagare il prezzo a milioni di operai costretti non solo ad esporsi alla possibilità del contagio, ma anche turni prolungati ed estenuanti.

Uno delle argomentazioni impiegate per attirare sostegno a queste richieste, che in questi giorni di sensibile calo dei contagi si fa più intenso, è il tentativo di convincerci dell’esistenza di una relazione di identità tra il prosieguo delle loro attività economiche e la sopravvivenza del paese, facendo leva anche sulla disperazione di quei lavoratori per i quali continuare a lavorare a tutti i costi spesso è l’unica alternativa per poter mangiare. Poco importa se la prospettiva messa davanti a quegli stessi lavoratori dai capitalisti è quella di scontrarsi, anche nel continuare le attività lavorative, con la messa a repentaglio della loro incolumità, in virtù delle inesistenti condizioni di sicurezza nella stragrande maggioranza dei posti di lavoro.

A partire da ciò, l’ondata di scioperi spontanei precedenti al decreto sul “lockdown” e la diffusione esponenziale del virus, hanno obbligato provvedimenti, comunque parziali, di chiusura di alcune attività non essenziali. Provvedimenti che hanno comunque risposto in parte ad alcune esigenze dei padroni stessi. Infatti, in un contesto di forte crisi della domanda in alcuni settori, come quello automobilistico, la possibilità di sospendere le attività produttive e di utilizzare strumenti come la Cassa Integrazione1, che sgravano le imprese dal costo del lavoro, è stata vista come una ghiotta occasione per non intaccare i propri patrimoni. Inoltre bisogna sottolineare come, in ogni caso, le maglie delle chiusure e dei controlli sull’effettivo rispetto dei decreti sono stati piuttosto larghe, consentendo anche molte via d’uscita per continuare a mantenere in funzione gli stabilimenti.

Dopo i decreti del governo, ad oltre un mese dall’inizio dell’emergenza nel nostro paese, possiamo individuare alcune tendenze.

Tempo di crisi, tempo di affari

In primo luogo una parte dei grandi capitalisti, al netto del continuo piagnisteo sulla difficoltà del momento fatto dalla Confindustria, sta facendo profitti d’oro.

Esemplificativo di ciò è l’ormai famoso video (link) che Urbano Cairo, presidente di Cairo Communication e RCS Mediagroup, ha registrato per motivare ed incoraggiare la sua rete vendita (in particolare per La7 e Corriere della Sera) che in questo momento di emergenza, a quanto pare, “sta reagendo bene”, in linea con gli aumenti dei guadagni che si rilevano nei settori televisivo, della comunicazione e dell’editoria.

Il discorso di Cairo racconta, infatti, una realtà totalmente opposta rispetto a quella da contesto di guerra e sacrifici con cui gli stessi mezzi di comunicazione di cui è proprietario ci stanno bombardando quotidianamente. Non fa menzione del disagio di chi ha perso il lavoro, di chi sta lavorando senza DPI o delle famiglie che hanno difficoltà a fare la spesa. Non ci parla neanche dei “punti in percentuale sul PIL” che stiamo perdendo su cui Confindustria tanto fa pressione per obbligare la riapertura delle aziende, contrariamente a quanto vorrebbero la comunità scientifica e i lavoratori in generale. Al contrario, ci fa sapere che è pieno di eccitazione come quando diede vita alla sua prima azienda pubblicitaria. Ci dice che “l’ascolto di La7 sta esplodendo” aumentando gli ascolti del 30%, “il traffico del Corriere.it tre volte tanto”, “le copie dei nostri settimanali, periodici, vanno bene”. Ci dice che anche molte altre aziende stanno aumentando i propri guadagni, in particolare quelle legate al settore della grande distribuzione alimentare, e che questi potranno aumentare ancora di più con la collaborazione dei suoi canali di comunicazione a fargli da megafono. Insomma, la classe padronale sta guardando all’attuale emergenza come una nuova e avvincente esperienza: niente di tragico, solo “buone condizioni commerciali”. E senza vergogna, afferma che quest’anno si presenta una “grande opportunità” da capitalizzare. Peccato però che per la maggior parte della popolazione non stia vivendo la sua stessa favola.

Il principale settore che in questo periodo sta vedendo aumentare i propri profitti è, ovviamente, quello alimentare con tutta la sua catena di distribuzione e quindi i colossi dei supermercati. Situazione determinata per lo più dall’aumento del cibo che le persone consumano, restando chiusa in casa, e dalla paura che questo finisca portando alla necessità di fare scorte. Aumentano, infatti, le vendite di farina (+186,5%), burro (+79,7%), riso (+37,9%) pasta (+22,6%), latte a lunga conservazione (+34,1%), uova (+53,7%). Non aumentano notevolmente, però, soltanto le vendite legate ai prodotti essenziali, ma anche quelle legate al cosiddetto “comfort food” (patatine +25,7%, spalmabili dolci +61,3%e pizza surgelata +45,7%). In questo contesto di evidente necessità, le maggiori aziende del settore stanno provando a contendersi il mercato, utilizzando proprio lo strumento pubblicitario al fine fare leva sui sentimenti dei consumatori, tramite una retorica patriottica volta alla fidelizzazione. Basta accendere la TV, infatti, per accorgersi della comunicazione monopolizzata di Barilla, Parmigiano Reggiano, Grana Padano, costantemente presenti con una narrazione che le presenta come umili aziende che si stanno sacrificando in prima linea per garantirci i prodotti essenziali. Dietro questa retorica si nasconde ben altro, una realtà fatta di sfruttamento dei lavoratori del settore agroalimentare e dei braccianti in ambito agricolo, che scompaiono nella retorica rassicurante delle aziende con spirito familiare che si preoccupano con amore di portare il cibo sulla tavole degli italiani. E quanto di grosso e marcio c’è in ballo viene confermato dalle preoccupazioni del ministro Bellanova per l’assenza nei campi di almeno duecentomila lavoratori e dalla volontà di istituire “corridoi verdi” per organizzare l’afflusso garantito di lavoratori da pagare 2,5€ l’ora. Sulle braccia di queste persone e di quelle senza contratto – quasi la metà degli occupati – si regge il tanto millantato “Made in Italy”.

Questo quadro ci permette di capire molto bene il tipo di operazione che, ad esempio, Giovanni Rana e Ferrero tentano di compiere, quando comunicano i benefici che starebbero elargendo ai propri dipendenti. Non si tratta di un’azione dettata da un vero spirito di beneficenza, ma di una molto più semplice operazione commerciale possibile soprattutto grazie all’esponenziale aumento dei profitti di queste imprese. Giovanni Rana afferma di aver aumentato del 25% il salario per gli operai che continueranno a lavorare, Ferrero, invece, di garantirgli 750 euro lordi. Il primo, in un tavolo sindacale pre Covid-19, aveva già ridotto lo stipendio dei propri dipendenti di mille euro; il secondo, ha previsto che i lavoratori che, invece, sceglieranno di restare a casa, lo faranno pagando di tasca propria metà delle ferie. Chiaro che questi aumenti siano utili a contenere eventuali proteste dei lavoratori, per la mancanza di sicurezza o in solidarietà con i propri colleghi altre aziende in difficoltà, in un momento in cui le attuali vendite e le rosee previsioni di guadagni futuri necessitano che si lavori a pieno regime (anzi, di più). In tutto ciò non c’è niente di solidaristico, anzi, la retorica del “padrone magnanimo” è utile a queste imprese soltanto per un’operazione simpatia indirizzata a conquistare un’importante fetta di “consumatori”.

La logica del profitto, però, oltre ad animare questi presunti slanci filantropici dei padroni del settore agroalimentare e della grande distribuzione, crea anche dei problemi a cui il capitalismo non riesce a dare risposta nei tempi necessari. Prima del Coronavirus alcuni beni, benché necessari in determinati ambiti, in Italia venivano prodotti da un numero molto esiguo di imprese poiché la produzione sul nostro territorio non garantiva ampi margini di profittabilità. Questo è il motivo per cui in piena emergenza e con esportazioni bloccate ci siamo trovati senza mascherine, disinfettanti e via dicendo. Questa mancanza di dispositivi di protezione individuale è stata un problema enorme, che ha esposto decine di migliaia di medici e operatori sanitari al contagio proprio nei momenti di maggiore pressione, mettendo in ginocchio il sistema sanitario. Mancanza che ha esposto i milioni di lavoratori costretti al lavoro, in settori essenziali o meno, senza le adeguate protezioni per garantire gli interessi degli industriali. Ciò mette in luce come il solo metro del profitto non riesce a garantire gli interessi della collettività, ci permette di sentire molto concretamente quanto sarebbe necessaria la pianificazione centralizzata sotto il controllo dei lavoratori come criterio razionale di produzione sulla base delle esigenze contemporanee delle masse popolari. Solo nel momento della diffusione del virus invece abbiamo visto un boom della produzione, certo assolutamente imprescindibile, di materiale necessario per proteggere la salute della popolazione, che però è arrivato in ritardo rispetto al momento di maggiore bisogno. E non si può ignorare che questo aumento di produzione si arrivato solo nel momento in cui questa scelta è stata ritenuta più profittevole viste le condizioni di necessità immediata su larga scala, e che spesso sia stato portato avanti sempre mettendo tutto il peso sulle spalle dei lavoratori. Sono diversi nel settore i casi in cui gli orari lavorativi sono aumentati senza assumere nuovo personale, e senza che venissero forniti ai lavoratori gli adeguati dispositivi di sicurezza – grazie anche alle maglie larghe dei decreti in ambito di sicurezza sul lavoro. Anche in ambito di produzione di materiale sanitario e nel settore farmaceutico, quindi, si segnano impennate. Tra le aziende che stanno facendo maggiori guadagni possiamo citare l’Angelini che dall’inizio dell’emergenza ha aumentato la produttività di oltre il 60% con un incremento dei guadagni, nei soli mesi di Gennaio e Febbraio, dell’800% rispetto allo scorso anno. Analizzando le vendite di mascherine riscontriamo un aumento del +427%, solo nel centro Italia. Aumenti di tal genere si riscontrano anche nella produzione di guanti, respiratori, camici, disinfettanti, occhiali ecc.

Se parliamo di guadagni al tempo del coronavirus, giusto per completezza, non possiamo non guardare anche oltre al nostro paese e citare il ruolo che in questo momento stanno avendo le grandi piattaforme digitali, da Netflix a Disney+, passando per Google e tutti quei gestori di servizi indispensabili per la digitalizzazione di alcune attività, per non parlare di Amazon che beneficiando della temporanea riduzione della mobilità della popolazione sta aumentando esponenzialmente il volume delle vendite.

Riconversioni e donazioni

La carenza strutturale di dispositivi sanitari per la sanità pubblica, oltre ad aprire la gara delle raccolte fondi, è diventata un’occasione per molti dei principali monopoli del Paese – come Armani, FCA, Luxottica, Campari e molti altri – ma anche per molte imprese di dimensioni inferiori. La possibilità, cioè, di riconvertire alcune delle proprie linee produttive, che si è trasformata in un immediato spot pubblicitario per tutte le imprese che hanno percorso questa strada, senza che ne venisse in alcun modo misurato l’effettivo impatto ed utilità nel sostegno alle esigenze del sistema sanitario. Ma non si tratta solo di marketing.

Ciò che vediamo è che, dopo aver esercitato pressioni per ritardare il più possibile la chiusura dei propri impianti, nei fatti alcune imprese abbiano usato la possibilità di riconvertire parte delle linee produttive per poter rientrare tra i codici Adeco considerati “essenziali”. Ed in questo modo riescono a mantenere attiva la produzione anche di tutte le merci abitualmente prodotte che non rientrano tra le “essenziali”, assicurandosi con un escamotage un grosso vantaggio competitivo. Altro che sforzo di solidarietà, dietro ai titoli di giornali che parlano di sacrifici delle imprese per produrre, e a volte donare in quantità risibili, materiale sanitario, c’è in realtà semplicemente un’operazione imprenditoriale. Come se non bastasse queste stesse imprese ottengono anche dalla finanza pubblica incentivi per agevolarle nella riconversione, infatti il DL Cura Italia prevede per chi riconverte sostegni per 50 milioni di cui hanno già usufruito centinaia di aziende.

Già da ora iniziano a circolare le mascherine e i camici che Armani sta producendo e vendendo sul mercato, così come i respiratori prodotti da FCA oppure i disinfettanti firmati Campari.

Ma questa corsa alla riconversione non è soltanto italiana. Anche nel resto del mondo grandi gruppi principalmente dei settori tessili, cosmetici e automobilistico stanno andando nella stessa direzione. Lo fanno ad esempio Zara, il gruppo LVMH di Bernard Arnault (terzo uomo più ricco al mondo), Ford, General Motors…

Considerando quanto stiano crescendo i guadagni di alcuni gruppi non ci meravigliamo nemmeno delle varie donazioni che hanno occupato le prime pagine dei giornali per settimane.

I principali mezzi di comunicazione si stanno impegnando nel promuovere l’idea per cui saremmo tutti sulla stessa barca, mentre è palese esattamente il contrario. Mentre si sprecano gli appelli all’unità nazionale, al fare ognuno la propria parte, al sostenere in egual modo gli stessi sacrifici. Si sprecano anche quelli alla solidarietà e sulla beneficenza provenienti da parte di figure impresentabili della borghesia nazionale, che in questo periodo stanno cogliendo la palla al balzo per attuare un’operazione di immagine ed incrementare i propri profitti. Uno su tutti Silvio Berlusconi che, dopo aver condotto la progressiva privatizzazione e lo smantellamento del Sistema Sanitario Nazionale, ha dato notizia di aver destinato 10 milioni di euro – indirizzati ovviamente ad una fondazione privata – per l’allestimento di un reparto di terapia intensiva nella Fiera di Milano, tentando così di nascondere le proprie responsabilità politiche dell’attuale emergenza sanitaria e di portare avanti un’operazione di marketing. L’ospedale è stato inaugurato pochi giorni fa, ma è privo di medici, privo di posti letto sufficienti – solo 24, dovevano essere 600 – a garantire un adeguato ricovero dei pazienti Covid e ci sono molteplici dubbi su quanto effettivamente sia stato speso per l’intera opera – i soldi raccolti, per come era stato sbandierato, avrebbero dovuto essere più che sufficienti. A rendere ancora più ridicola questa operazione il fatto che molti dei gruppi che stanno facendo donazioni, magari sono gli stessi che hanno portato da tempo le proprie sedi all’estero per non pagare le tasse in Italia, contribuendo quindi in maniera indiretta alla riduzione delle risorse della fiscalità generale che sarebbero potute andare a potenziare il sistema sanitario.

Non bisogna dimenticarsi inoltre che anche le donazioni che rientrano sempre in una valutazione costi-benefici. Con cifre minime rispetto all’entità dei propri patrimoni questi gruppi riescono ad ottenere un ottimo ritorno pubblicitario. Senza contare che comunque la risoluzione dell’attuale crisi, chiaramente alla loro maniera, rientra nella sfera d’interesse dei padroni così da poter tornare il prima possibile a fare affari normalmente.

Le perdite? Le pagano i lavoratori!

Così come in questo momento esistono dei settori i cui guadagni stanno schizzando alle stelle ce ne sono anche altri in cui si verificano forti perdite.

È il caso del settore automobilistico che nel mese di Marzo di quest’anno ha segnato un -85% della produzione rispetto allo scorso anno. Oppure del settore aereo con un traffico ridotto del 70%, con picchi del 90% per alcune tratte europee. Ma anche del settore turistico che soffre chiaramente delle limitazioni imposte alla mobilità.

In molti casi queste diminuzioni stanno comportando anche richieste di taglio dei salari dei lavoratori alla ripresa delle attività. Ne è un esempio il gruppo FCA che si prepara ad esigere dai propri dipendenti una riduzione del 20% delle mensilità, tentando di addolcire la richiesta mostrando riduzioni anche nei compensi dei dirigenti. Poco importa se i salari dei primi saranno salari ancor più da fame e gli stipendi dei secondi resteranno milionari.

La diminuzione della produzione industriale in Italia (a Febbraio -2,4% su base annua) e il crollo dei commerci (il WTO stima un crollo fra il 13% e il 32% nel 2020) stanno fisiologicamente determinando anche delle perdite nei patrimoni dei principali capitalisti italiani che hanno interesse in una molteplicità di settori e di conseguenza sono interessati da una crisi come quella attuale che ne tocca svariati.

Secondo il Bloomberg Index sono colpiti da queste perdite tutti i principali capitalisti italiani, i dati ci dicono che da inizio 2020 Giovanni Ferrero abbia perso in dollari 3,97 miliardi, Leonardo del Vecchio 7,13 miliardi, Paolo Rocca 2,72 miliardi, Silvio Berlusconi 2,08 miliardi, Giorgio Armani 1,96 miliardi.

Ma se qualcuno fosse in apprensione per le vite di questi poveri miliardari non avrebbe molto da preoccuparsi poiché, qualora non bastassero per sopravvivere gli altri svariati miliardi di cui dispongono nei loro conti e sotto forma di proprietà, questi sfortunati imprenditori avranno a disposizione anche il pieno sostegno da parte del Governo che giusto pochi giorni fa ha annunciato un trionfale piano di sostegno alle impese quantificabile in oltre 400 miliardi di euro di garanzie nei loro confronti. Si ricordi invece che lo stanziamento di sostegni straordinarie per far mangiare le famiglie erano quantificabili nella misera cifra di 400 milioni, per di più erogati con modalità discutibili.

Dove prenderanno tutti questi soldi? Chiaramente a garantire sarà direttamente lo Stato, quindi la fiscalità generale, quindi in larghissima parte i soldi dei lavoratori o dei pensionati che pagano le tasse. Questo proprio perché una parte delle aziende di questi imprenditori, come già visto, non hanno la sede legale nel nostro paese o comunque beneficiano di una fiscalità che è tutt’altro che progressiva. Lo stesso discorso vale anche per qualsiasi manovra a livello sovranazionale come l’utilizzo del MES o l’emanazione di Eurobond, i cui costi in termini di dispendio per la finanza pubblica saranno soddisfatti attingendo direttamente dalle tasche dei lavoratori.

Le condizioni di accesso a queste forme di aiuti sono concepite in modo da favorire il più possibile le grandi concentrazioni di capitale, tanto che ad esempio nel decreto di sostegno alle imprese del Governo Conte basta osservare le fasce di garanzia dei prestiti per rendersi conto che nel primo scaglione si equipara il piccolo commerciante che fattura 30.000 euro l’anno con un’impresa che fattura fino a 1,5 miliardi. Inoltre, leggendo le condizioni d’accesso a queste garanzie risulta chiaro che la stragrande maggioranza dei fondi saranno indirizzati alle grandi imprese. Ciò non ci deve stupire, infatti, così come la crisi del 2008 aveva comportato un aumento della concentrazione della proprietà, anche con l’attuale crisi si verificherà il medesimo risultato. Un risultato che non è figlio soltanto di precise scelte politiche, ma semplicemente della tendenza inevitabile nel sistema capitalistico alla concentrazione della proprietà in poche mani. La piccola e media borghesia italiana andrà dunque, nel tentativo di difendere la propria condizione, sempre più incontro a un bivio: o tentare di compiere un salto per aumentare le proprie possibilità, intensificando lo sfruttamento dei lavoratori, e trasformarsi in grande borghesia – un salto che ben pochi saranno in grado di fare – oppure essere sopraffatta dai grandi capitali finendo con l’ingrossare la massa dei lavoratori salariati o dei disoccupati.

Un punto di vista di classe

Conclusa questa disamina ci sembra evidente una cosa: a cadere in piedi in questa crisi, come sempre, saranno i padroni. C’è chi vede i propri profitti gonfiarsi, chi è pronto a farsi riempire gli ammanchi di bilancio direttamente dai governi, chi chiede ulteriori sacrifici ai lavoratori e chi prova a comprarsi la loro fedeltà lasciandogli qualche briciola.

La realtà è drammatica, ma sbaglia chi crede lo sia per tutti. Accanto alla grande massa di popolazione esclusa dagli ammortizzatori sociali messi in campo dal decreto Cura Italia, quella su cui violentemente si stanno abbattendo le conseguenze economiche dell’attuale crisi, c’è la schiera di padroni che, in questo periodo, stanno vedendo impennare i propri profitti, sfruttando in tal modo l’emergenza sanitaria. Padroni che si presentano come dei benefattori, la cui straordinaria benevolenza va lodata senza sollevare alcuna critica. In questo contesto l’unica cosa straordinaria è l’ingiustizia di un sistema in cui in molti, per accedere a diritti e servizi fondamentali, spesso rischiano di dipendere da sporadiche donazioni di miliardari che hanno costruito la loro fortuna su decenni di sfruttamento. Per loro, come ci ha spiegato Cairo, questa “è una grande opportunità da capitalizzare”. Inutile farsi illusioni. Non dimentichiamocelo ad emergenza finita.

1 La cassa integrazione prevede il pagamento in misura ridotta della retribuzione dei lavoratori da parte dello Stato, spalmando quindi l’onere economico sulla collettività e sottraendolo dai bilanci delle imprese.

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