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«I cambiamenti non si producono spontaneamente». Una lettura de “Il Buco”

di Giorgio Pica e Alberto Vara

“Ci sono tre classi di persone: quelli di sopra, quelli di sotto e quelli che cadono”

È con queste parole che inizia “Il Buco”, il nuovo film che segna l’esordio alla regia dello spagnolo Galder Gatzelu-Urrutia e che ha sin da subito fatto parlare molto di sé ottenendo un notevole successo. Un thriller-horror mozzafiato, ma non solo, anche una metafora della società di classe in cui viviamo: un film ricco di simboli, spunti di riflessione, chiavi di lettura, ma soprattutto un film che senza filtri urla in faccia allo spettatore tutta la crudeltà di una società in cui c’è chi sta sopra e chi sta sotto.

Il film è ambientato in una prigione verticale sotterranea chiamata dai detenuti “la fossa”. La struttura è organizzata secondo un numero indefinito di livelli e in ognuno di essi si trovano due prigionieri che ogni mese verranno spostati in un piano diverso. Nel livello zero, ovvero in cima alla struttura, tra il suono di violini e meticolose ispezioni, si trova una surreale cucina dove vengono preparati deliziosi cibi per i detenuti che vengono poi messi con cura su una tavolata pronta a scendere livello per livello, fino a quelli più bassi, attraverso un buco all’interno di ogni piano. Ovviamente chi sta su mangia a volontà, molto più di quanto avrebbe bisogno, mentre a chi sta giù rimangono letteralmente gli avanzi, se non addirittura niente man mano che si scende giù nella fossa, costringendo spesso i prigionieri a ricorrere al cannibalismo per sopravvivere.

Goreng (Iván Massagué), protagonista del film, si sveglia al livello 48. È lì volontariamente per ottenere un non meglio precisato attestato di permanenza. È confuso inizialmente, non capisce la logica di quella struttura, gli sembra assurdo che chi sta sopra abbia più di quanto necessita mentre chi sta sotto muoia di fame. Ecco perché sin da subito chiede di razionare il cibo, una proposta scioccante a quanto pare tanto che il suo compagno di livello chiede stupito: “per caso lei è e un comunista?”, reputandolo quasi come quel Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento del romanzo che proprio Goreng ha portato con sé. Quella del nostro protagonista però non è una fantasia idealista: in un quadro in cui tutti i detenuti pensano a loro stessi sarà lui a prendere coscienza dell’ingiustizia perpetrata in quel posto e della necessità dell’unità di tutti i detenuti per cambiare la situazione. Dopotutto, come lui stesso afferma, “i cambiamenti non si producono spontaneamente”.

Un detenuto tenta con una corda una scalata attraverso il buco provando una fuga solitaria che si rivela più difficile del previsto. Man mano che si scende nella fossa crescono omicidi, suicidi, abusi in una brutale lotta con il proprio compagno di cella, per la vita. Sarà dall’incontro tra l’intelligenza di Goreng e le informazioni di una ex dipendente dell’amministrazione che nascerà l’idea di verticalizzare la lotta. Imoguiri (questo il nome della nuova compagna di cella di Goreng) tenta di cambiare le cose per mezzo della persuasione, suggerendo ai detenuti di mangiare una sola di razione di cibo e ricevendo in risposta insulti e derisione. La storia cambierà quando Goreng viene affiancato da Baharat, sarà l’inizio di un nuovo viaggio, dal finale inaspettato.

Anche dal punto di vista tecnico la pellicola è ben realizzata, nonostante l’ambiente sia il medesimo per tutto il film grazie ad inquadrature originali ed espedienti narrativi il regista riesce a creare un continuum mai lento. Un’abilità che è stata riconosciuta da diverse giurie che – a pochi mesi dalla sua uscita – hanno premiato il film per migliori effetti speciali[i], miglior sceneggiatura[ii] e non solo. Le scene gore – tipiche del genere horror – non mancano ma sono inserite all’interno di una narrazione più ampia. Le immagini più cruente non sono mai, nella storia, l’elemento principale, sono semmai il principio di una storia, caratteristica che colloca il film nel più ampio filone dell’horror/thriller, categoria anch’essa insufficiente a riassumere gli innumerevoli temi affrontati dal film. Un’opera che affascina durante la visione e che dà modo di riflettere a margine. Il rapporto tra contesto esterno e responsabilità individuali ne è un esempio. “Perché lo fai?” afferma stupito Goreng quando vede il suo compagno di cella sputare con disprezzo sul cibo che sta scendendo ai detenuti più in basso. Quanto il male che si produce è frutto dell’ambiente in cui viviamo e quanto è conseguenza di nostri comportamenti?

Per Aristotele l’arte è imitazione, verosimiglianza con la realtà che attraverso la rappresentazione del particolare si occupa di conoscere l’universale. “Il buco” rientra appieno in questa definizione: è un film che ci parla chiaro, senza mezzi termini e che attraverso la rappresentazione di una vicenda particolare ci mostra con un linguaggio fortemente simbolico tutta la crudeltà della società divisa in classi, come lo è quella capitalistica, in cui chi sta sopra si appropria indebitamente delle ricchezze di chi sta sotto a cui rimangono solo gli avanzi. Ma non si limita a questo, non si limita ovvero a mostrare solamente il problema, ma offre chiaramente anche delle soluzioni: l’organizzazione degli oppressi, la loro azione cosciente e unitaria o ancora la volontà di Goreng di distribuire il cibo in modo che tutti possano averne che corrisponde esattamente alla necessità di non mettere al primo posto “il mangiare a volontà” di pochi, ma il soddisfacimento dei bisogni elementari della totalità delle persone.

[i]       https://www.premios-cine.com/goya/ganadores-goya/

[ii]      https://www.torinofilmfest.org/it/premi-collaterali-37tff-i-vincitori/

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