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Prospettive e direzioni. Gramsci e la cultura

di Francesco Raveggi

La formazione politica di un giovane comunista non è mai cosa semplice. Chiunque di noi che si sia interessato ad andare oltre una prima – ovviamente sempre apprezzabile, ma sempre migliorabile – conoscenza del socialismo, specialmente ad una giovane età, sa bene che ci sono autori più facili di altri, sia per lo stile di scrittura che per l’argomento trattato.

Esistono, ovviamente, delle scuole di formazione adibite proprio a fornire un’adeguata preparazione. Quello che qui ci interessa è, però, il tassello della crescita singola, la lettura individuale dei testi – che deve naturalmente avere alle spalle un indirizzo politico – che ognuno di noi, chi prima chi poi, compie nel corso della sua vita politica. Lenin è solitamente il primo approccio, perché risulta, a causa del suo stile relativamente semplice e delle tematiche trattate, accessibile ai più nelle sue opere principali (“Che fare?”, “Stato e Rivoluzione”, “L’Estremismo: malattia infantile del comunismo”, assieme all’Imperialismo, seppure leggermente più tecnico).

Nelle opere principali di Lenin traspare tutta la volontà di concentrarsi attivamente sulla costruzione del partito del proletariato in Russia; la lotta costante contro l’opportunismo e la socialdemocrazia della seconda Internazionale, lo scontro diretto contro l’imperialismo, contro l’attendismo – dove non l’aperto collaborazionismo – di quelle forze che avrebbero dovuto, al “tuono del cannone” della guerra, rispondere con un’offensiva di classe organizzata. In molte delle opere di Lenin si ritrovano ancora molte questioni attuali, tanto del movimento comunista, quanto dell’organizzazione del Partito. Solo poche opere di Lenin (prima fra tutte Materialismo ed Empiriocriticismo) possono risultate essere meno comprensibili per chi non abbia un certo grado di preparazione.

Marx ed Engels, che “a rigor di logica” dovrebbero essere gli effettivi primi approcci al socialismo scientifico, non sempre lo sono nei fatti. Pur vero che, per dirla con Marx, “per la scienza non c’è via maestra, e hanno probabilità di arrivare alle sue cime luminose soltanto coloro che non temono di stancarsi a salire i suoi ripidi sentieri”, è evidente che certe letture, complici anche lo stile che per le nuove generazioni può essere un ostacolo non irrilevante, non sono di immediata fruizione, eccezion fatta per alcune più famose.

Compiuti gli “studi minimi” di Marx, Engels e Lenin, solitamente ci si dipana verso altri autori, il più importante dei quali, nonché il meno letto e studiato, è e rimane Antonio Gramsci. Leggere l’opera maestra di Gramsci, i Quaderni dal Carcere, significa immergersi in un mondo sconfinato, fatto di argomenti solo apparentemente generali. Parlando di Antonio Gramsci, Mussolini ebbe a dire che “bisogna impedire a quel cervello di pensare”. Non riuscirono ad impedirgli di pensare, ma riuscirono, nei fatti, ad impedirgli di essere protagonista politico del suo tempo, specialmente negli ultimi anni. La grande raccolta dei Quaderni è un insieme di considerazioni, riflessioni ampie sui temi più svariati, nascosti o riarticolati – nella forma, mai nella sostanza – per sfuggire alla censura. Ogni tema che viene toccato, per quanto apparentemente innocuo, è in realtà il riflesso diretto di un elemento del mondo sociale, politico, storico reale.

Questi elementi emergono con maggiore chiarezza nella lettura (e rilettura) del Gramsci più apertamente politico, di cui periodicamente tornano sotto i riflettori alcuni articoli, il cui problema fondamentale è proprio la loro decontestualizzazione, la privazione del retroscena in cui questi articoli si inseriscono.

Tra i vari elementi di cui si potrebbe parlare per presentare Gramsci al grande pubblico – e per far comprendere quanto attuale sia la sua opera –, l’articolo “Socialismo e Cultura1vi rientra a pieno titolo e proprio il riferimento a questo articolo ci consente di chiudere questa lunga introduzione al tema.

Quale cultura?

Iniziamo, dunque, da una riflessione: che cosa intendiamo per cultura? E in che modo essa si relaziona tanto col proletariato quanto con l’organizzazione della sua parte più cosciente? È naturale che qui non si voglia fare una disamina da enciclopedia o da tesi di laurea, quanto piuttosto fornire degli spunti di riflessione e dei contributi ad una discussione che non si è ancora conclusa.

Diversi anni fa, proprio sulle “pagine” di questo giornale, è uscito un articolo molto attuale sulla questione del rapporto teoria-prassi, riferito, in questo caso, alla famigerata undicesima tesi di Marx su Feuerbach, quella della famosa massima per cui “i filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”. Così per Marx come per Gramsci, a nulla serve, e questo è proprio il preambolo dell’articolo, fare un citazionismo sterile dei “grandi” che ci hanno preceduto, poiché esso, oltre ad essere inutile, è anche dannoso, in quanto espone costantemente al rischio di strumentalizzare o di deviare il senso concreto della massima.

La suddetta undicesima tesi, ad esempio, si presta con troppa facilità ad essere deviata verso una presunta negazione dell’importanza della teoria nel processo rivoluzionario, cosa che non solo Marx non ha mai sostenuto, ma ha, anzi, fortemente combattuto. Allo stesso modo un estratto dall’articolo il cui titolo abbiamo riportato qualche riga fa espone ad alcune possibili deviazioni se decontestualizzato; per comprenderci, quando Gramsci si riferisce a “lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori” che “crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro” non critica lo studente universitario in quanto tale, ma un preciso approccio all’idea di ciò che la cultura debba essere e di come essa si relazioni nella prassi quotidiana.

Ed è proprio qui il differenziale maggiore: per quanto sia indubbiamente più semplice ricercare le frasi e le “quotes” di Gramsci o Lenin su internet, la fonte migliore rimangono le cose che questi hanno scritto nero su bianco. Le citazioni, appunto, rischiano di distogliere, distorcere, espongono a strumentalizzazioni di vario tipo. Le letture, no. Ed infatti, se ci si prende la briga di leggere le poche pagine dell’articolo in questione, Gramsci continua: “Ma questa [quella dello “studentucolo”] non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa a ben ragione di reagisce.”.

Dal sopracitato articolo di Gramsci, possiamo fin da subito rispondere alla prima domanda che abbiamo posto all’inizio del paragrafo. L’incipit dell’articolo è, infatti, una risposta a tale Enrico Leone il quale, in risposta al presunto rapporto di cultura e intellettualismo (definito con luoghi comuni) col proletariato, vi oppone la “pratica”2. A quale cultura, quindi, ci riferiamo quando ne parliamo?

Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico”. La cultura” dice Gramsci “è cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri.”

L’uomo, d’altronde, è “spirito”, ovvero “creazione storica”, e non “natura”. Cosa significa ciò? Che questa “conquista di una coscienza superiore” non avviene spontaneamente, non è un qualcosa che si presenta all’uomo come si può presentare nella natura l’evoluzione di una specie, ovvero un processo spontaneo, “naturale”, incosciente. In caso contrario, non solo non potremmo spiegarci il perché l’uomo non sia ancora giunto al socialismo, ma si annullerebbe totalmente la funzione attiva dell’organizzazione. “Solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta la classe”.

Questo passaggio è di fondamentale importanza, perché dopo aver chiarito in un primo momento di quale “cultura” si parli quando facciamo riferimento a questo termine, possiamo passare a rispondere alla seconda domanda che abbiamo inizialmente posto: come si rapporta questa cultura all’organizzazione ed al proletariato in generale?

Ogni rivoluzione” ci dice ancora Gramsci dalle colonne del Grido, “è stata preceduta da un intenso lavorìo di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni.”

La riflessione gramsciana qui si approfondisce, tirando direttamente al centro della scena la Rivoluzione Francese (ovverosia la rivoluzione – siamo nel 1916 – “più vicina” agli uomini del suo tempo in quanto a portata e conseguenze storiche) e l’Illuminismo. Il “periodo anteriore culturale” della rivoluzione francese non fu solamente mera speculazione e dissertazione astratta, “sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità”. Non solo un semplice fenomeno di intellettualismo, un movimento nato e morto in se stesso, col solo fine di dilettare qualche ricco aristocratico o alto borghese che non aveva modi migliori di impiegare le proprie giornate. Il terreno culturale su cui si sviluppò la Rivoluzione Francese fu anche e soprattutto la formazione di una coscienza unitaria, una sorta di “internazionale spirituale (ovverosia di “spirito”) borghese” che spianò il terreno alle vicende della Francia di fine ‘700:

Ogni nuova commedia di Voltaire, ogni nuovo pamphlet era come la scintilla che passava per i fili già tesi fra Stato e Stato, fra regione e regione, e trovava gli stessi consenzienti e gli stessi oppositori da per tutto e contemporaneamente. Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria. Più tardi, quando i fatti di Francia ebbero rinsaldate le coscienze, bastava un moto popolare a Parigi per suscitarne altri simili a Milano, a Vienna e nei più piccoli centri. Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d’animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune.”

Senza quel processo analitico, senza la critica, senza la cultura come presa di coscienza e come coscienza di sé e di ciò che è altro da sé, è impossibile innescare qualunque fenomeno coerentemente rivoluzionario. La borghesia, che pure ha avuto un ruolo progressivo nella storia, oggi si è affermata come classe dominante e schiaccia quotidianamente il proletariato. Oggi, la borghesia non ha necessità di costruire coerentemente un apparato ideologico “da battaglia”, poiché il suo apparato è divenuto senso comune e si riproduce in sé e per sé; l’abbandono dello scontro ideologico del proletariato sul terreno della lotta di classe ha significato una delle più grandi retrocessioni, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale, che scontiamo ancora oggi.

Lo stesso fenomeno”, conclude Gramsci, “si ripete oggi per il socialismo. È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire coscienza dell’io […]. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.

Conclude Gramsci (ci scuseranno per le lunghe citazioni i lettori): “Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere”

La cultura qui intesa è fondamentale. Non come cultura “da enciclopedia” o, per modernizzare un po’, da quiz a premi. La cultura è fondamentale nel momento in cui cessa di essere conoscenza pedante per divenire strumento di analisi critica della società, in cui diviene non l’unica o l’inutile arma, ma una delle tante armi di cui si può dotare il proletariato nella sua strada per la presa del potere politico.

In un momento di confusione estrema come sono gli anni in cui ci ritroviamo a vivere, compito primo dell’organizzazione è proprio quello di tenere la barra a dritta, cercando contemporaneamente di riportare sulla giusta direzione il dibattito e la discussione teorica. Cedere sulle posizioni teoriche (specialmente quando questi cedimenti non sono lampanti) significa far crollare il centro di comando dell’esercito, sperando di avere maggiori possibilità di vittoria (senza peraltro aver spianato la strada alla possibilità di far divenire generale ogni soldato).

L’attività pratica diviene quindi inutile? Significa questo che dobbiamo tornare ai tempi in cui vi era una separazione tra queste due sfere dell’attività politica? La risposta è ovviamente no: teoria e prassi, lo sappiamo, vivono in simbiosi, mantengono tra di loro un rapporto dialettico. La prassi e la teoria si influenzano vicendevolmente nella vita di tutti i giorni, nell’organicità e nello scontro tra due classi in lotta.

Tra bizantinismo e culto della trivialità

Da questo dibattito si dipanano due strade errate che troppo spesso vengono intraprese: la prima, quella del bizantinismo, la seconda quella del “culto della trivialità”; entrambe hanno a che fare con la cultura ed entrambe hanno a che fare col socialismo e col rapporto che esso intrattiene con la prima.

Il primo caso è di più semplice ed immediata trattazione, poiché ha da sempre afflitto una parte del movimento operaio. La teoria politica del marxismo-leninismo, la teoria che dovrebbe trasformarsi in prassi, che dovrebbe avere alla sua base la dinamicità, la dialettica, finisce col divenire un semplice orpello alla pedante cultura che abbiamo evidenziato in precedenza.

L’accademismo ed il bizantinismo non si esplicano solamente in coloro i quali sono i “dotti” e gli eruditi, ma anche in quegli intellettuali (o presunti tali) di partito che finiscono al più con l’assolvere blandamente alla funzione di abati del socialismo; figure ambigue, che si aggirano con saio e sandali, troppo impegnati a porre il marxismo sul piano della diatriba teologica per comprendere i reali processi in atto nella società. “Intellettuale vuol sempre dire intelligente?” si chiedeva in un breve appunto Gramsci “ci sono i dilettanti della fede, così come i dilettanti del sapere. Ciò nella migliore delle ipotesi. Per molti la crisi di coscienza non è che una cambiale scaduta o il desiderio di aprire un conto corrente”. Col tempo, perfino la filosofia della prassi finisce con l’essere rinchiusa nel cassetto dei tomi polverosi, spogliandoli di qualunque funzione effettiva, di qualunque pulsione rivoluzionaria, per essere confinati nell’alveo delle diatribe teologiche.

Il lato opposto, del culto della trivialità, è quella strada che conduce, semplicemente, alla totale dismissione del lato attivo e combattivo della teoria, facendo così arenare il movimento operaio su una riva fatta di prassi sbagliate mosse da convinzioni ancora più sbagliate. Alla base di questa idea vi è una stortura della concezione di proletariato, una malsana deviazione del concetto di “popolare”. Si finisce col concepire il proletariato come una massa informe di ignoranti plebei, col far aderire sulle superfici delle condizioni materiali in cui è stato ridotto il proletariato l’etichetta di “popolare”, tollerando, dove non addirittura giustificando o promuovendo attivamente, l’ignoranza (per quanto nel significato più puro e sincero del termine) in cui parte del proletariato è scaraventato da questo sistema. “Popolare” e “proletario” non sono in equazione con “ignorante” e “triviale”. La “disciplina proletaria” (che troppi, che si definiscono proletari unicamente per vocazione e non per condizioni materiali effettive, citano a sproposito) contiene in sé la forza della cultura critica di cui si è parlato prima.

Come sciogliere, alla fine, questo nodo? Ci risponde Gramsci:

Perché il Partito viva e sia a contatto con le masse, occorre che ogni membro del Partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto perché il Partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il Partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico. Centralizzazione vuol dire specialmente che in qualsiasi situazione, anche nello stadio di assedio rinforzato, anche quando i comitati dirigenti non potessero funzionare per un determinato periodo o fossero posti in condizione di non essere collegati con tutta la periferia, tutti i membri del Partito, ognuno nel suo ambiente, siano stati posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli elementi per stabilire una direttiva, affinché la classe operaia non si abbatta ma senta di essere guidata e di poter ancora lottare. La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria”

Il problema si presenta non tanto quando questa spaccatura, questa dicotomia si presenta in singoli residuati di rapporti di forza differenti; il problema si pone quando questo binomio viene assorbito dai “capitani”, da quei quadri dirigenti che avrebbero al contrario il compito di elevare, di far progredire ogni giorno i militanti, gli elementi più avanzati del proletariato. Approssimazione e lassismo, bizantinismo ed accademicismo sono caratteri che ogni partito, ogni organizzazione seriamente intenzionata a concretizzare il passaggio verso il cambiamento qualitativo della società non si possono permettere di avere, men che meno incoraggiare. Prassi e teoria non sono né giocattoli da riporre nel cassetto quando si è stanchi e si vuole riposare, né concetti da far rimanere nell’iperuranio proletario. La lotta e la critica sono a portata di mano. La variabile, a volte, è la volontà.

1 Articolo pubblicato il 26 Gennaio 1916 su Il grido del Popolo, firmato come Alfa Gamma

2 Da notare che dalle colonne di Avanguardia uscì, durante il congresso dei giovani socialisti del ‘12, una lunga discussione riferita allo scontro interno al Partito relativamente al ruolo della cultura. Bordiga sosteneva di non dover sopravvalutare la necessità dello studio (“Non si diventa socialisti con l’istruzione ma per necessità reali della classe a cui s’appartiene”), in netto contrasto con Tasca, che sosteneva la necessità di un rinnovamento culturale e di un “ringiovanimento intellettuale” del socialismo italiano, venendo bollato da Bordiga come “culturista”.

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