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Quanto ci costa la spiaggia ai tempi del Covid

 

di Giorgio Di Fusco

“Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare”, cantava così Piero Focaccia durante l’estate del ‘63, nel pieno del boom economico, tra bikini e serate al chiaro di luna a cantare le canzoni del Cantagiro. A distanza di oltre cinquant’anni però le cose non sembrano essere rimaste uguali. Non sarà un’estate facile, la prima dell’era Covid, per migliaia di giovani, anziani e famiglie delle classi popolari che per quest’anno dovranno rinunciare al mare per via del caro spiagge.

Fare un bagno in mare lungo il litorale italiano, infatti, è diventato proibitivo: secondo  l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, rispetto all’anno scorso, il costo medio di una struttura attrezzata (26€ la media nazionale per il solo noleggio di un ombrellone ed un lettino) è aumentato del 12% fino ad arrivare al 35% in zone come la Costiera Sorrentina. L’aumento dei prezzi, secondo l’ONF, sarebbe giustificato dalle norme anti contagio e dalla previsione di un calo di oltre 10 milioni bagnanti rispetto all’anno scorso oltre che al ritardo nell’apertura della stagione balneare per via del lockdown.

Davanti alla crisi economica e all’emergenza sanitaria però i gestori balneari rincarano la dose chiedendo nel migliore dei casi, nel peggiore occupando, l’affidamento delle spiagge libere con la scusa della tutela del distanziamento sociale. A questo si aggiunge la tendenza, da parte degli stabilimenti, a concedere l’accesso alla battigia previo pagamento di un pedaggio (la cosiddetta “discesa” a mare) nonostante la normativa garantisca pienamente l’accesso libero e gratuito. Normativa alla mano la battigia è “quella parte di spiaggia contro cui le onde si infrangono al suolo, che si estende per circa cinque metri dal limitare del mare” e che insieme alla spiaggia e al lido appartiene al demanio marittimo dello Stato che può concederli in concessione a privati.

Costa pubblica, profitto privato

Lungo la costa italiana si fanno affari d’oro: il costo delle concessioni demaniali è irrisorio e incide sul fatturato degli stabilimenti in misura inferiore dell’1%, nonostante la tendenza dei vari gestori a piangere miseria sulle proprie rendite.

52.619 contratti firmati e 25mila concessioni che valgono il possesso e la gestione di 19,2 milioni di metri quadrati di spiagge. A fronte di un giro economico che fattura oltre 15 miliardi di euro all’anno[1] (senza considerare i ricavi in nero), lo Stato incassa ogni anno soltanto 103 milioni di euro dai canoni delle relative concessioni, pari ad una cifra media di 6€ all’anno per metro quadro di litorale.  In Italia il 60% delle spiagge è dato in concessione agli stabilimenti balneari mentre in alcune regioni il dato arriva al 90%. Mare che di fatto viene sottratto alle spiagge libere per i cittadini. Ma quanto paga chi ha in concessione le spiagge del demanio marittimo? E chi stabilisce il costo di questi canoni?

Andando a fare una ricerca si scopre che i canoni attualmente in vigore, uguali in tutta Italia e per nulla proporzionali alla redditività del bene, sono fermi dal 2006, anno della legge finanziaria in cui vennero modificate le tabelle ministeriali del 1998. La finanziaria del 2006 suddivideva il litorale in due fasce per l’applicazione dei canoni: fascia A, alta valenza turistica, fascia B, bassa valenza turistica. Ed è qui che casca l’asino: è compito delle Regioni stabilire le fasce di anno in anno con il piano spiagge. In assenza di accertamenti la normativa stabilisce il rientro nella seconda fascia di tutte le concessioni. È così che anche uno stabilimento sulle coste di Capri si ritrova a pagare un canone stracciato da zona a bassa valenza turistica. Ma i regali alla lobby del mare non si fermano alle concessioni a prezzi stracciati.  Di anno in anno, governo dopo governo si sono continuate a prorogare le concessioni (l’ultima fissata al 2033 grazie al dl Rilancio[2] facendo tirare un sospiro di sollievo alla Federbalneari che è riuscita a far ritardare la messa in gara delle concessioni di quasi trenta anni rispetto alla prima scadenza stabilita dal decreto ministeriale del 1998.

A pagare i costi di questa ripartenza, che ha dimostrato voler tutelare soltanto gli interessi delle imprese, sono ancora una volta le famiglie delle classi popolari già duramente colpite dalla crisi economica. Sono pochissimi, infatti, i comuni in Italia che si sono adoperati per poter garantire a tutti delle spiagge libere e attrezzate di bagni e docce e facilmente raggiungibili con i trasporti pubblici mentre, in tutto il resto del paese, le numerose misure restrittive anti-assembramento e la totale assenza di trasporti pubblici non hanno fatto altro che aggravare questa situazione negando di fatto il raggiungimento di quelle pochissime spiagge libere e bonificate a migliaia di persone meno abbienti, palesando tutto il carattere classista delle misure prese per la pandemia: insomma, al mare puoi andarci solo se possiedi una macchina e puoi permetterti di pagare cinquanta euro di lido.

La crisi che stiamo vivendo in questi mesi coinvolge differenti settori del capitale, per alcuni dei quali le mobilitazioni e le vertenze che si stanno sviluppando lungo il paese stanno aprendo nuove prospettive in termini di rivendicazioni e conquista di potere decisionale. Davanti alla negazione di diritti che fino all’anno scorso si davano per scontato come quello del libero accesso al mare, in una fase tanto delicata come questa, che porterà inevitabilmente allo scontro tra chi approfitterà del momento per potersi arricchire ulteriormente e chi invece deciderà di non abbassare la testa, bisogna essere consapevoli del passaggio epocale che si sta attraversando per non farsi prendere alla sprovvista.

[1] https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/08/17/spiagge-concessioni-lobby-stato/

[2] https://www.repubblica.it/economia/2020/07/07/news/concessioni_balneari_con_il_dl_rilancio_proroga_al_2033_calenda_attacca-261196487/

 

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