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«Ci considerano inutili e sacrificabili». Intervista a una lavoratrice dello spettacolo

Abbiamo raccolto la testimonianza di Monica (nome di fantasia), giovane lavoratrice dello spettacolo che studia Filosofia all’Università della Calabria.  L’abbiamo intervistata il 30 ottobre a Cosenza, nella giornata di mobilitazione dei lavoratori dello spettacolo in tutta Italia.

1) Che lavoro fai nel mondo dello spettacolo? E qual era la tua situazione lavorativa prima del Covid da un punto di vista di tutele sindacali e contributive?

Finora ho lavorato come attrice teatrale e la mia situazione, come un po’ tutti, oggi è immersa nella più totale precarietà. Lavori saltuari, il che fa parte del mestiere in un certo senso, giornate lavorative non sempre e non tutte versate regolarmente, il che rende difficile accedere alle poche garanzie che ci sono da parte dello Stato. Numerosi attori professionisti, ad esempio, provano per molti mesi ma vivono grazie all’indennità di disoccupazione, e molti altri non riescono nemmeno a prenderla. E questo delle giornate non versate è un gioco al quale si deve stare, soprattutto nelle realtà più piccole, che a volte davvero non potrebbero fare altrimenti. Per quanto riguarda il sindacato, prima della pandemia non ero minimamente a conoscenza dell’esistenza di realtà come UNITA, che si propone di tutelare i lavoratori dello spettacolo, e nessuno dei colleghi con cui ho lavorato ha mai fatto cenno ad associazioni sindacali di cui faceva parte. Penso che alla base di ciò ci siano mancanza di informazione, di coesione e una certa arrendevolezza a ciò che capita, ma questo è un discorso che va oltre i lavoratori dello spettacolo. Con l’arrivo della pandemia e del lockdown sono emerse le condizioni degradate in cui il teatro versava già da tempo. Prendi un sistema che si regge su di un filo sempre in bilico e dagli una spinta, questo è successo.

2) Come giudichi l’intervento dello Stato durante il primo lockdown verso la tua categoria?

Durante la prima fase credo ci si sia lasciati prendere dal panico e nella chiusura generale di tutte le attività era normale che rientrassero anche i teatri. Quello che infastidisce, però, è che teatri e cinema siano stati tra i primi a chiudere, prima di ristoranti o bar, luoghi in cui (a intuito) si direbbe più facile contrarre il virus. Questo probabilmente perché le attività culturali vengono considerate come secondarie e sacrificabili. Se c’è qualcosa da chiudere, i primi siamo noi. Non fraintendetemi, credo fosse giusto in quella fase chiudere cinema e teatri, ma non credo che le ragioni che abbiano spinto a chiudere queste attività lasciandone inizialmente aperte altre fossero ragioni sanitarie. È brutale pensare come anche in una situazione di emergenza il fattore economico abbia preso il sopravvento. I teatri non fatturano, quindi non servono.

Per quanto riguarda i provvedimenti presi dal governo per aiutare i lavoratori dello spettacolo, hanno mostrato la totale ignoranza della governance riguardo alle reali condizioni di vita dei lavoratori. Tra i requisiti per ottenere l’indennità, c’era inizialmente un numero di giornate lavorative che davvero in pochi potevano raggiungere; il numero è stato poi abbassato il mese successivo in seguito alle nostre proteste, senza che però l’indennità di marzo fosse recuperata. A questo si aggiungono i ritardi nei pagamenti, la disinformazione degli impiegati, gli uffici chiusi e i call center che rispondevano una volta su dieci, e di solito riattaccavano subito il telefono, insomma: la generale pessima organizzazione di tutto l’apparato burocratico che sembra sempre remare contro i cittadini che dovrebbe aiutare. Io ancora non ho ricevuto buona parte dei soldi che mi spettano, chi ha le spalle un minimo coperte (di solito dalle famiglie) se la cava e può aspettare, ma chi non le ha, cosa dovrebbe fare?

3) Molti lavoratori dello spettacolo non hanno avuto alcun aiuto economico dallo Stato, che però ha regalato sussidi di ogni tipo ai grandi imprenditori della penisola (oggi più ricchi del 31% rispetto a Marzo) e che l’altro giorno ha ufficializzato una spesa di 3 miliardi di euro nei prossimi 3 anni per l’acquisto di altri F-35: soldi ai grandi capitali, soldi alla guerra, ma non alla cultura. Cosa ne pensi di tutto ciò?

Che lo Stato sia più interessato alla guerra e ai grandi capitali che alla cultura, non mi sorprende. Non mi sorprende perché è questa la piega che chiaramente hanno preso le cose, e i vari governi che si sono susseguiti negli ultimi anni non si sono mai smentiti da questo punto di vista. Nuovo anno, nuovi tagli ai fondi per cinema, teatro, ricerca e scuole (come del resto alla sanità, e i risultati si sono visti). La pandemia ha solo messo in luce un atteggiamento che esisteva già da molto prima del virus: per quasi tutti la cultura è sinonimo di intrattenimento, serve a distrarsi, a non pensare per un po’, non ha nessuno scopo e se ne può fare facilmente a meno. Finché non arriveremo a vedere la cultura come uno strumento per agire sul mondo e su noi stessi nel mondo, allora i teatri, i cinema e le scuole continueranno a non servire a niente e le persone continueranno a disinteressarsene sempre di più, come già fanno tra l’altro. A quel punto, forse, sarebbe vero, gli darei ragione anche io: non serviamo a niente, abbatteteci (magari coi nuovissimi F-35).

4) Solo 1 contagiato tra cinema e teatri dalla riapertura, ma sono questi i primi a chiudere insieme alle palestre ed ai centri sportivi amatoriali/dilettantistici. Intanto la grande produzione, sede dei principali focolai già dall’estate, non si ferma: chi produce profitto resta aperto, chi esercita un ruolo sociale fondamentale come la cultura e lo sport chiude. Quanto hanno influito le pressioni di Confindustria su questa scelta politica secondo te?

Confindustria ha esercitato un ruolo fondamentale nelle decisioni prese durante l’emergenza, questo è diventato sempre più chiaro nel tempo. Siamo in mano a chi produce, e ai più questo non sembra strano (anzi, sembra anche giusto), mentre ogni aspetto della vita non direttamente collegabile al denaro è un di più: prima il pane, poi il resto. Provare a spiegare che esistono altre necessità oltre a quelle materiali, di solito genera reazioni di scherno e atteggiamenti di sufficienza. I lavoratori dello spettacolo che protestano perché non possono lavorare sono dei viziati: “Vi arrivano (forse) questi 600€ al mese? Ce l’avete la pagnotta? E allora di che vi lamentate? Se avete quello non vi manca niente”. Peccato che non sia così, peccato che la vita non si riduca al sopravvivere. Dobbiamo essere tutti disposti a fare dei sacrifici, ma il fatto che ci siano dei trattamenti così diversi tra i vari ambiti è umiliante. Per quanto riguarda la chiusura dei teatri, ho opinioni contrastanti. È sicuramente giusto non mettere a rischio le persone, però guardo anche ai numeri dei contagiati a teatro, che sono quasi nulli, vedo come in questi mesi le misure di sicurezza siano state rispettate e come molti teatri abbiano fatto degli investimenti per potersi adeguare, vedo come (rispetto a molti altri luoghi ancora aperti) teatri e cinema siano sostanzialmente posti sicuri, in cui si è tutti seduti ed è facile mantenere il distanziamento. Insomma, sulla sicurezza dei teatri e dei cinema i dati sembrano a nostro favore, ma c’è un altro punto che secondo me è cruciale: in questo momento bisogna domandarsi quanti spettatori vedremmo in sala se teatri e cinema riaprissero. Già a causa del distanziamento le sale hanno dovuto ridurre di due terzi i posti (e dunque gli incassi) e in virtù di ciò molti teatri più piccoli non hanno riaperto affatto. A questo punto, coi contagi che salgono e sempre più persone che si chiudono in casa, a chi converrebbe quest’apertura? È ovvio che, personalmente, la notizia della chiusura mi ha afflitto e vorrei che i teatri riaprissero subito, però valutando tutti questi fattori è difficile capire se questa sarebbe la scelta migliore. Insomma, non so dirvi che cosa sia giusto fare, so solo che senza luoghi d’incontro e col terrore gli uni degli altri, il rischio di diventare solitudini incomunicanti è molto alto, e questo mi spaventa.

5) Come lavoratori dello spettacolo, che cosa sentite di chiedere a chi ci governa, a livello nazionale e locale?

Non posso e non voglio farmi portavoce di nessuno, però sono sicura che molti chiederebbero più garanzie e magari un reddito sicuro, ma quello sarebbe meglio lo avessero tutti. Io posso fare una semplice constatazione: in Italia il teatro è quasi sempre un investimento a fondo perduto, è un’arte che dipende completamente da Stato e fondi ministeriali, che sono sempre meno e stanno portando alla scomparsa di molte realtà e all’impoverimento delle produzioni, oltre che alla rinuncia, da parte di molti, di continuare il loro percorso artistico a causa di ragioni economiche. Manca una formazione adeguata per le nuove generazioni: non c’è ricambio, non c’è crescita, non c’è conoscenza, non c’è scambio, non c’è relazione. Senza tutto ciò il teatro non può esistere. Quello che chiederei allo Stato è: investite. Investite in scuole di formazione di alto livello, nelle realtà grandi e piccole che dimostrano di avere un valore, in chi lavora per cambiare le cose in territori disagiati. Concedete spazi, soprattutto: l’UNICAL ad esempio ha due teatri ma nessuno li può usare per fare prove. In ultimo, credo sia importante incrementare anche un’educazione alla fruizione del teatro, con attività nelle scuole. Fate andare i giovani a teatro, fate fare loro laboratori: possiamo offrirgli la possibilità di scoprire questo mondo e di lasciarci scoprire; la possibilità di uscire da questa nicchia tristissima a cui ci siamo ridotti; la possibilità di essere tutti un po’ meno soli di come siamo, una volta ogni tanto.

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