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Super League europea: la ristrutturazione capitalistica aggredisce il calcio

 

di Ruggero Caruso

Nella giornata di ieri è arrivata la comunicazione ufficiale: la Super League europea, la nuova competizione calcistica che vede protagonisti 12 prestigiosi club italiani, inglesi e spagnoli, è diventata realtà. La JP Morgan crede già nel progetto, per il quale è pronta a versare già 3,5 miliardi di euro; 350 milioni di euro, invece, verranno dati come bonus di benvenuto alle squadre che vi aderiranno. Secondo alcune indiscrezioni pare che questo nuovo campionato autogestito da questi 12 soci fondatori (a cui se ne aggiungeranno altri 3 nei prossimi giorni) potrebbe addirittura partire da agosto 2021, stravolgendo di fatto le qualificazioni che si stanno delineando in questo finale di stagione nei massimi campionati europei. Questo perché, i tre ideologi della Super League (Florentino Perez, presidente del Real Madrid; Andrea Agnelli, presidente della Juventus, Joel Glazer, presidente del Manchester United) hanno pensato questa competizione come alternativa alle coppe europee organizzate dalla FIFA e dalla UEFA, incapaci in questa fase di garantire i margini di profitto che i padroni del calcio vogliono estrarre dallo sport più seguito al mondo (1,6 miliardi di appassionati su un totale di 2 miliardi di sportivi al mondo secondo uno studio della Bocconi). Questo concetto è chiarito bene da una nota pubblicata sul sito dell’A.C. Milan, socio fondatore, dove si legge che “La creazione della Super League arriva in un momento in cui la pandemia globale ha accelerato l’instabilità dell’attuale modello economico del calcio europeo.”

Come al solito, al netto di fantasiosi discorsi sulla bellezza del calcio, sul piacere di assistere agli scontri tra top club e top players, alla base di tutto ci sono interessi economici. Ma questa, per quanto riguarda il mondo del pallone, non è certo una novità. Nell’ultimo anno, ad esempio, in un contesto di crisi pandemica che ha superato il milione di morti nella sola Europa, gli interessi dei padroni del calcio sono stati anteposti alla salute degli addetti ai lavori e degli sportivi. Eccezion fatta per i tre mesi di stop nel girone di ritorno del campionato 19/20, il calcio non si è mai fermato. O meglio, il calcio degli azionisti, delle pay tv e dei contratti milionari non si è mai fermato. Tutto il mondo del pallone dilettantistico invece, quello degli accordi a voce tra presidenti e calciatori senza alcuna garanzia per i secondi, quello delle tante realtà di azionariato popolare che ogni anno fanno i salti mortali per iscrivere la squadra ai campionati, è stato lasciato a se stesso.

A dire il vero questo è solo l’ultimo tassello di un processo di elitizzazione del calcio già in atto da svariati decenni. Un processo che ha snaturato la tradizione popolare del calcio nel nostro Paese, relegandolo a mero strumento di valorizzazione del capitale per i colossi industriali e finanziari che decidono di investire in questo settore. Ne sono una testimonianza gli orari improbabili a cui vengono piazzate le partite per rispondere alle esigenze delle televisioni che ne possiedono i diritti di trasmissione e garantire share elevati per tutta la settimana (il cosiddetto “spezzatino calcistico”), con buona pace di tutti quegli appassionati che devono fare i salti mortali per riuscire a vedere la propria squadra del cuore dal vivo, allo stadio. O ancora, il costo sempre più elevato dei biglietti per accedere agli impianti sportivi, che per le partite di cartello raggiungono facilmente i 70/80 euro: prezzi inaccessibili per chi quei soldi li tira su in due giorni di lavoro.

A tal proposito non può passare inosservata l’ipocrisia di organi internazionali come la FIFA e l’UEFA, terrorizzate dall’idea di svolgere la Champions League e l’Europa League senza i club europei più blasonati. Anche qui, stesso identico meccanismo: poca passione per il gioco del calcio, molto interesse per i volumi di denaro che questo business sposta. In queste ora l’UEFA ha diramato un comunicato molto forte nei toni, che minaccia le squadre aderenti alla Super League di esclusione dai campionati nazionali e i giocatori coinvolti di divieto di partecipare alle competizioni delle Nazionali, come i mondiali e gli Europei. Una frase che salta subito all’occhio leggendo il breve comunicato è quella in cui il concetto di “solidarietà” viene opposto al “self-interest” di pochi. A parole nulla da obiettare, se non fosse che l’UEFA che si sta indignando ora contro le big che le stanno voltando le spalle, è la stessa che per anni gli ha concesso un fairplay finanziario tutt’altro che ferreo, garantendogli posizioni di vantaggio nella competizione con gli altri club. Un atteggiamento questo che ha attirato le antipatie di alcuni importanti gruppi ultras europei che hanno coniato l’espressione “Uefa Mafia”. E poi, da che posizione parla la FIFA, che come abbiamo approfondito in questo articolo ha delegato l’organizzazione dei mondiali di calcio 2022 al Qatar, una petrolmonarchia che sta utilizzando il sistema “Kefala” per assumere 2 milioni di lavoratori stranieri, 6500 dei quali sono già morti nella costruzione delle infrastrutture previste per lo svolgimento di un evento di tale portata?

Alcuni tifosi di squadre minori in queste ore hanno idealizzato la creazione di questo campionato parallelo come un passaggio necessario ma risolutorio per un fantomatico ritorno alle radici popolari del calcio: questa posizione sostiene che una volta eliminate Juve, Inter e Milan dal campionato nazionale, il calcio tornerà ad essere uno sport a misura di tifoso. Il problema però non è tanto rappresentano dalla presenza delle big, ma va ricercato nell’idea stessa del calcio come bene di consumo, che in quanto tale non può sottrarsi alle leggi generali del capitalismo. Un’idea di sport che sin dalle piccole società di quartiere innalza barriere di classe che impediscono a tanti giovani di estrazione proletaria di accedervi gratuitamente non può che entrare in contraddizione con lo spirito popolare che il gioco del calcio in particolar modo ha assunto nel nostro paese. Il gioco con cui milioni di giovani proletari sono cresciuti nei cortili, nelle piazze e nei campetti di periferia. Uno sport che veicola valori importanti come la lealtà, la solidarietà, l’aggregazione che sempre meno spazio trovano in una società come la nostra frammentata dall’individualismo.

“Enough is enough” chiosa il comunicato della UEFA. E su questo siamo d’accordo: quando è troppo è troppo! Basta con lo sport elitario e piegato agli interessi dei padroni, basta stipendi stellari ai calciatori, basta con gli stadi-teatro accessibili solo ai borghesi che si vogliono godere calmi uno spettacolo da tribuna. Il calcio è passione, folklore, aggregazione. Il calcio al popolo!

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