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Discutiamo di Biancaneve in modo sensato

Premessa: l’intera polemica su Biancaneve che ha infuocato i social è niente più che una bolla prodotta dalla mostruosità dei mezzi di informazione odierni e dei loro meccanismi perversi. Un articolo pubblicato su un giornale locale di San Francisco (USA) e firmato da due giornaliste che hanno espresso un’opinione è stato rilanciato progressivamente da tutti gli organi di stampa internazionali con toni sempre più sensazionalistici, con un effetto domino generato dalla frenesia del clickbait, fino a creare dal nulla una notizia che non esiste, cioè una presunta campagna di protesta ordita dall’odioso e onnipresente politically correct per rimuovere Biancaneve da Disneyland. Non esiste nessuna campagna del genere, ma è legge dell’informazione che nessuna smentita vale mai quanto una notizia falsa lanciata in modi sensazionalistici. Un esempio perfetto di quanto la ricerca del profitto possa letteralmente devastare il diritto all’informazione. Detto ciò, visto che la discussione ormai esiste, discutiamo nel merito.

La cosiddetta “cancel culture”, o almeno l’insieme di atteggiamenti politicamente stigmatizzati come tali, è effettivamente una cosa che solo la società nordamericana poteva produrre in questa forma. È una risposta sbagliata e inutile che viene data a contraddizioni realmente esistenti nella società. È sbagliata perché non aiuta neanche minimamente a risolvere il problema dell’oppressione e delle forme in cui si presenta; è inutile perché non contribuisce nemmeno a far avanzare la coscienza collettiva, ma al contrario per i suoi eccessi produce naturali reazioni di sdegno e di chiusura anche da parte di chi non sarebbe poi contrario al messaggio di fondo. E infatti la reazione, nel tipico schema della bipolarità della politica che ormai è stato culturalmente recepito anche in Italia, è da tempo l’odiosa polemica contro il “politically correct”. Anni fa criticare il politicamente corretto in TV o da un palco significava opporsi all’ipocrisia della vecchia morale borghese. Oggi la polemica contro il politically correct assume invece toni sempre più reazionari, tendenzialmente riassumibili nella rivendicazione del diritto di essere imbecilli e dire stupidaggini. Ma questo avviene anche perché c’è chi alza la palla a questo tipo di argomentazioni. A quel punto, ogni discorso che potrebbe anche essere sensato viene chiuso.

Una società razzista e maschilista produrrà opere artistiche e letterarie razziste e maschilisti, nelle quali si rispecchieranno quei valori. Più in generale, è evidente che ogni opera, così come ogni figura storica, porta con sé l’impronta del suo tempo, nel bene e nel male. Tutto questo però non può rimuovere una questione di fondo: progresso vuol dire anche rompere con il passato, superare i vecchi sistemi di valori e le loro espressioni. Non è un caso che nella storia, nei momenti di grandi trasformazioni sociali, i rivoluzionari si siano sempre scagliati anche contro l’arte prodotta dal vecchio regime. Spesso, con gli eccessi tipici dei contesti rivoluzionari. Il punto è che la polemica contro la demenzialità della cancel culture, su cui la maggior parte di noi è probabilmente abbastanza d’accordo, non può eliminare il fatto che un movimento rivoluzionario che miri a cancellare l’ingiustizia può e deve muovere la sua critica anche verso l’arte e la cultura reazionaria del passato, quantomeno del passato che ha un legame effettivo con le ingiustizie del presente che si vogliono superare (magari di buttare giù il Colosseo e le piramidi egizie perché simbolo della schiavitù ce ne frega poco, ecco).  Da questo non si esce. Il problema sta qui, nel fatto che in assenza di un movimento reale e di una coscienza di massa orientata alla messa in discussione dell’esistente, ci sono circoli intellettuali che avanzano proposte che non corrispondono affatto allo stato di consapevolezza. La “censura” come strumento di rimozione dei segnali visibili di un problema, o meglio dei sintomi di un problema o delle sue espressioni passate, senza però risolvere il problema nella sua essenza.

Parliamo di Biancaneve. Biancaneve e i classici Disney sono opere maschiliste? Certo che sì. E il problema non è solo il bacio del principe senza consenso. Biancaneve si sveglia e si innamora istantaneamente di un perfetto sconosciuto che ha il merito di averla raggiunta e “salvata”, e vive con lui tutta la vita. Quando arriva l’uomo, la volontà di lei è annientata. Discorsi analoghi si potrebbero fare con tanti altri film.

Da almeno un secolo e mezzo, illustri pensatrici delle più disparate correnti del femminismo riflettono – e non a torto, almeno su questo – su come l’oppressione secolare sulla donna si rifletta nella letteratura, nella raffigurazione della donna sempre e solo come principessa indifesa, come oggetto di desiderio e di contesa tra uomini e mai come soggetto attivo. L’imposizione sociale dei ruoli di genere esiste e, evidentemente, quando questi ruoli nella società mutano e vengono rimessi in discussione sull’onda di trasformazioni economiche, sociali, culturali, non è sbagliato che la critica venga rivolta contro ciò che perpetra un sistema di valori arretrato. I classici Disney del Novecento sono opere di indubbio valore. Chiedere di rimuoverle dalla nostra cultura sarebbe da idioti. Ma evidentemente se bambini di 3 anni guardano a ripetizione opere da cui trasuda un determinato sistema di valori, forse una discussione andrebbe fatta davvero. Chi pensa che siano solo film innocui sottovaluta la questione; del resto, nessuno strumento comunicativo e di intrattenimento lo è mai. Discorso analogo: provate ad entrare in un negozio di giocattoli e fate un salto nel reparto rosa, quello delle bambine. Si troveranno bambolotti, passeggini e cucine giocattolo. Nei casi peggiori le aspirapolveri (sempre giocattolo). Pensiamo ai videogiochi, che piaccia o meno sono tra i principali medium di intrattenimento: ai bambini si compra la Play Station, alle bambine molto più spesso si compra la console portatile con giochi del calibro del simulatore di cucina. Vogliamo davvero negare che esista un problema? Che tutto questo non influisca nell’accettazione di un certo tipo di valori?

Ecco, è in questo discorso che rientra la critica a certi modelli proposti dai vecchi classici Disney, ai toni razzisti di “Via col Vento”, e così via. Stranamente nessuno ha sollevato ancora un polverone contro la transfobia de “il Silenzio degli Innocenti” ma probabilmente ci si arriverà. Il punto è che queste cose, più che censurate, andrebbero problematizzate con un avanzamento della cultura collettiva che sia davvero effettivo; portare lo scontro culturale anche sulla capacità di riconoscere nell’arte quelle espressioni di rapporti di potere ingiusti che non sono ancora apertamente riconosciute come tali.

Alcuni esempi banali. Probabilmente nessuno, aprendo un testo di letteratura greca o latina, troverà problematico il leggere di schiavi, uomini e donne che erano proprietà di qualcuno. È qualcosa che le culture delle nostre società hanno già metabolizzato ed elaborato come una ingiustizia del passato. Possiamo apprezzare le opere di quel tempo senza per questo rimuovere dalla coscienza il fatto che erano frutto del loro tempo. Le cose già cambiano quando si va in America e si parla non della schiavitù nell’Antica Roma, ma della schiavitù dei neri. Le statue di Cristoforo Colombo vengono tirate giù nelle oceaniche proteste di piazza, perché da quella storia parte un filo rosso che dalla tratta degli schiavi neri arriva alla questione afroamericana di oggi. Ecco, con Biancaneve e il maschilismo dei classici Disney la questione è simile.  L’oggetto della polemica è una tematica attuale, su un’opera di ampio consumo, e possiamo star sicuri che esiste chi non ci troverà nulla di sbagliato nel trasmettere una certa visione della donna, perché quella visione esiste tutt’oggi in una parte della società, deve ancora essere sconfitta. È qui il nodo finale della questione. Non bisogna chiedere che “Via col Vento” o Biancaneve vengano rimossi dagli scaffali e dai palinsesti, ma imparare piuttosto a riconoscere apertamente il carattere delle concezioni che traspaiono da quelle opere, e discuterne anche con i giovani. Da questa forma di polemica e di critica aperta, che è ben diversa dal chiedere la censura senza che il resto del mondo ne comprenda il senso e l’utilità, non ci si può sottrarre. Né può farlo chi ha l’ambizione di cambiare il mondo in cui vive.

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