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Valditara e gli stipendi differenziati per i docenti: un ulteriore tassello per aumentare le disuguaglianze

di Aki Sanson e Daniele Mongini


In un evento della Lega organizzato a gennaio al teatro Manzoni di Milano il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara ha affermato che “Gli stipendi degli insegnanti italiani sono vergognosamente bassi” e ha proposto una soluzione: aumentare lo stipendio medio degli impiegati tramite dei finanziamenti privati e su base regionale in funzione del costo della vita. In poche parole aumentare gli stipendi ai professori delle regioni del nord Italia grazie a fondi privati. Se da una parte la constatazione del Ministro è corretta, tanto che gli stipendi dei professori italiani sono tra i più bassi in Europa, dall’altra il rimedio proposto non fa che alimentare il problema, rischiando di aumentare ulteriormente la differenza tra scuole di “serie A” e scuole di “serie B”.

Analizzando la proposta del Ministro si rende evidente un fatto: l’Italia è uno dei paesi in Europa che investe meno nel settore scolastico pubblico, di cui il basso stipendio dei docenti è conseguenza diretta. Continui tagli all’istruzione pubblica accumulatisi in 20 anni, che hanno visto un definanziamento di più di 24 miliardi all’istruzione, hanno peggiorato la qualità del sistema scolastico, a partire dall’impiego e dalle condizioni lavorative e contrattuali dei docenti. Non è un caso che il corrente anno scolastico si sia aperto con 100 mila cattedre vacanti. L’Italia conta ad oggi 217.693 supplenti precari, il 20% delle cattedre totali. La situazione è tuttavia critica anche per chi riesce ad ottenere un contratto a tempo indeterminato: la retribuzione media di un insegnante italiano è di circa 30 mila euro all’anno. Nel resto d’Europa la media ponderata sul numero di insegnanti e il loro grado ammonta a circa 44 mila euro.

Oltre a pesare sui docenti delle scuole pubbliche le politiche di definanziamento all’istruzione le pagano in prima persona anche gli studenti degli strati popolari, dovendo frequentare spazi insalubri e sempre più pericolosi; basti pensare che in tutta Italia si verifica un crollo in un edificio scolastico ogni tre giorni. Inoltre, il tasso di abbandono scolastico raggiunge le vette più alte della media europea (ad oggi in Italia il 12.7% degli studenti non arriva al diploma, e il 9.7% dei diplomati, uno studente su dieci, non raggiunge le “competenze minime”), il dato aumenta ulteriormente nel sud del paese (il picco si raggiunge in Sicilia dove il tasso di abbandono è pari al 21.2%). Questi dati non sono una casualità, sono il frutto di continue politiche di definanziamento dell’istruzione, sempre meno in grado di garantire il diritto allo studio, tra l’aumento dei contributi scolastici (causati dall’autonomia scolastica) e le spese per il materiale scolastico interamente a carico delle famiglie.

Il PNRR (rappresentato come il “piano salva stati”) prevede nel suo programma che una parte dei finanziamenti venga destinata all’istruzione. In realtà, dalla semplice lettura del documento emerge chiaramente l’intento di tale prestito: i fondi europei vengono utilizzati per rafforzare il processo di aziendalizzazione dell’istruzione pubblica, ad esempio vincolando i fondi alla riforma di istituti tecnici e professionali (indirizzi particolarmente attenzionati dalle aziende, poiché potenzialmente formano direttamente lavoratori) così da rafforzare ulteriormente il rapporto tra scuole e imprese. Non a caso lo stesso Ministro Valditara, in piena continuità con l’operato del governo Draghi, ribadisce spesso nelle interviste rilasciate l’importanza della sinergia tra scuole e aziende, sottolineando il legame diretto tra il miglioramento delle richieste produttive e l’adattamento della formazione a queste ultime.

La proposta del ministro leghista Valditara consiste quindi nella creazione di un fondo centralizzato composto da finanziamenti privati, accumulabili dallo Stato e ridistribuibili a livello nazionale per sopperire all’insufficienza di fondi pubblici stanziati per le scuole. Così sostiene durante la conferenza: «La scuola pubblica ha bisogno di nuove forme di finanziamento, anche per coprire gli stipendi dei professori che potrebbero subire una differenziazione regionale. E per trovarle, si potrebbe aprire ai finanziamenti privati»

Affermazione in realtà preceduta già da un piano ben formato, vista la piattaforma promossa dal gruppo Gedi e da PwC «Italia 2023: persone, lavoro, impresa». Una collaborazione che non solo strapperebbe alla responsabilità del governo la copertura dei costi dell’istruzione, ma garantirebbe ulteriormente l’avvicinamento tra scuole e aziende, con la possibilità di andare a reclutare, con contratto, figure professionali provenienti dal mondo imprenditoriale come “coach studenteschi”.

Da questo fondo si attingerebbe per corrispondere ai docenti un aumento della paga in relazione al costo della vita nel luogo di impiego. Questa variabile demarca delle differenze territoriali evidenti, perché il costo della vita è mediamente più alto nelle regioni del Nord Italia. Di conseguenza gli stipendi al nord risulterebbero più alti, disincentivando l’impiego nel settore pubblico al Sud e ampliando ulteriormente le differenze tra scuole di Serie A e scuole di serie B. Infatti, è naturale che se la proposta del Ministro diventasse legge gli insegnanti più alti nelle graduatorie di concorso, quindi quelli che in linea generale possiamo considerare “più preparati” (con tutte le eccezioni del caso), siano attirati e abbiano tutti gli interessi a trasferirsi in scuole del Centro-Nord, motivati da stipendi più alti e qualità della vita migliore. Avere insegnanti più preparati nelle scuole del Centro-Nord significa soltanto accentuare le differenze tra istituti di una regione dall’altra, differenze già esistenti come segnalano ad esempio i report dell’Istituto Invalsi. Dati alla mano, il peggioramento complessivo della qualità della didattica è stato dimostrato dai test INVALSI, in cui il divario tra Nord e Sud si rende particolarmente evidente. Nel 2021 il 39% e il 45% degli studenti non ha raggiunto un livello sufficiente rispettivamente in italiano e matematica alle scuole superiori, con picchi del 50% e del 60% nelle regioni del Mezzogiorno.

Queste proposte di differenziazione tra regioni non sono proprie solo del centro-destra, ma di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni che hanno portato avanti politiche antipopolari e hanno accentuato sempre più le disuguaglianze tra Nord e Sud, tra scuole di serie A e scuole di serie B. Ad esempio il Partito Democratico con gli School Bonus, introdotti nel 2015 con la riforma della Buona Scuola di Renzi, ha permesso il finanziamento diretto delle aziende alle scuole. Questo meccanismo, inserito in un processo più ampio di riforme sull’istruzione, ha di fatto legato ancora di più le scuole alle aziende in una morsa fatale. Le scuole, sempre più definanziate, sono costrette a cercare fondi dai privati che però, essendo tutt’altro che enti di beneficienza, chiedono in cambio “servizi” (ad esempio che gli studenti svolgano i propri percorsi di alternanza da loro oppure di poter usufruire dei laboratori della scuola, come all’istituto tecnico Buzzi di Prato).

Il meccanismo della scuola-azienda è un vero e proprio ricatto. Permettere i finanziamenti da parte di privati crea un ulteriore divario tra la scuola di periferia e quella di centro, tra l’istituto più produttivo e quello meno promettente per una rapida successione di lavoratori (favorendo in questo senso gli istituti professionali rispetto ad altri indirizzi). Il Governo Meloni con queste dichiarazioni dimostra ulteriormente la sostanziale continuità con i precedenti esecutivi, portando avanti il processo di aziendalizzazione del settore scolastico. Se da una parte i fondi per le scuole pubbliche diminuiscono, i privati sono sempre più presenti nel “sostituire” lo Stato. Questa politica ha un prezzo salato e non è una novità che a pagarlo siano gli studenti.

È falso affermare che lo Stato italiano non ha abbastanza fondi per l’istruzione pubblica. Semplicemente la volontà politica espressa si concentra su altri fronti: ne è un esempio l’aumento della spesa militare che negli ultimi 4 anni ha raggiunto i 10 miliardi di euro aggiuntivi, destinati a salire a causa della guerra imperialista in Ucraina. Vincolare l’aumento della qualità della didattica al ricatto del finanziamento privato all’istruzione è la fine del sistema educativo italiano. I fondi ci sono e vanno investiti nell’istruzione, cominciando ad esempio dall’indirizzare i miliardi di euro della spesa pubblica che vengono destinati all’istruzione privata verso l’aumento degli stipendi di tutto il corpo docente a livello nazionale e verso la stabilizzazione dei precari della scuola.

È necessario inoltre invertire il ragionamento che spinge i professori a ricercare posti verso il Settentrione, favorendo l’appianamento del divario tra Nord e Sud con l’aumento della spesa pubblica proprio nei contesti più complessi e il complessivo aumento degli stipendi degli insegnanti, senza necessariamente imporre una differenziazione tra regioni.

Gli studenti al fianco dei lavoratori del mondo della scuola hanno bisogno di lottare per rivendicare un’istruzione pubblica, di qualità e accessibile a tutti, libera dalle ingerenze dei privati.


*Commissione Scuola FGC

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