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Salario minimo. Tra necessità, propaganda e mistificazioni

di Angelo Panniello, Michele Massaro e Markol Malocaj


La questione del salario minimo in Italia è stata oggetto di un acceso dibattito a livello politico, che ha interessato pressoché tutti i partiti dell’arco parlamentare. Se ne parla da tempo e spesso se ne parla “male”, attraverso mistificazioni e falsità. Mistificazioni più utili ai partiti istituzionali che ai giovani lavoratori e ai disoccupati di questo paese. In questo articolo proporremo una serie di riflessioni per provare, nel nostro campo, a riportare il dibattito nel solco degli interessi autonomi della nostra classe. Un tema, quello del salario minimo, certamente da non banalizzare, ma che al contrario, i comunisti devono saper discutere e affrontare con serietà perché deriva dalla necessità oggettiva di milioni di lavoratori di uscire dalla condizione di forte povertà in cui vivono quotidianamente.


I SALARI IN ITALIA

In Italia, la stagnazione dei salari è un problema che colpisce direttamente tutti i lavoratori e tra questi, in particolar modo, donne, giovani ed immigrati. Secondo il Global Wage Report 2022-2023, i salari italiani si trovano fra i più bassi in Europa, con una diminuzione del 12% rispetto al 2008 in termini reali. Questo è dovuto non solo all’inflazione (12,8% su base annua, come riportato dall’Istat), che peraltro è comune a tutti i Paesi occidentali, bensì soprattutto ai salari praticamente bloccati da oltre 30 anni. Rispetto all’anno 1990, l’Italia è infatti l’unico Paese UE con salari addirittura decrescenti (-2,9%), a fronte di incrementi negli altri paesi. Circa 1,6 milioni di lavoratori hanno un reddito annuo lordo superiore a 60.000 euro; 22,7 milioni non superano i 20.000 euro. Su 40,5 milioni di contribuenti, il 4% dichiara più di 2.850 euro netti al mese, mentre il 56% dichiara meno di 1.300 euro netti al mese. Meno di 41.000 contribuenti (0,1% del totale) dichiarano un reddito annuo lordo medio superiore a 300.000 euro (ca 12.000 euro netti al mese). Sul totale dei lavoratori dipendenti, il 67% risulta sotto la media del reddito annuo lordo italiano.

Al crescere dell’età e dei livelli di istruzione aumenta la retribuzione, dimostrando ulteriormente come i giovani proletari siano quelli a pagare tra i prezzi più alti in termini di bassi salari e precarietà, e come questa disparità abbia un sostrato fortemente classista. Il gap salariale tra giovani lavoratori e colleghi over 50 ammonta ormai al 40%, e non c’è da stupirsi se si pensa che sempre più giovani lavorano per meno di 9 euro l’ora. Questo significa che un lavoro “normale” non basta a raggiungere uno stipendio sufficiente per potersi garantire una vita dignitosa, anche solo banalmente per andare a vivere da soli o potersi permettere una macchina. Inoltre, esiste una differenza significativa tra Nord e Sud Italia. La retribuzione media degli impiegati nel Nord Italia è generalmente più alta del 20% rispetto a quella del Sud. Questa realtà costringe i giovani in Italia a ripiegare su lavori precari o mal pagati, a volte in nero, o addirittura ad emigrare: post pandemia i giovani che hanno lasciato il nostro paese sono aumentati dell’87% rispetto agli anni passati.

In questo contesto occorre porre un’attenzione particolare sulla situazione retributiva che interessa le donne lavoratrici, che in Italia, ancora oggi, è molto preoccupante. Come sottolineato dall’Osservatorio dell’Inps del 2021, il divario salariale tra uomini e donne è ancora molto marcato, con le lavoratrici che, a parità di mansioni e titolo di studio, guadagnano mediamente il 26% in meno dei colleghi maschi. Questo è un problema che riguarda molte categorie di donne lavoratrici, sia che esse siano impiegate nel settore pubblico che in quello privato. Ad esempio, secondo i dati dell’Anpal, nel 2020 il salario medio annuo delle donne dipendenti era di circa 23.000 euro, mentre quello degli uomini dipendenti superava i 31.000 euro. In questa situazione influisce anche il fatto che molte donne risultano ancora oggi maggiormente impiegate, rispetto agli uomini, in settori come l’assistenza domiciliare e l’educazione, dove i salari sono notoriamente più bassi rispetto ad altre tipologie di professioni. Inoltre, le donne lavoratrici sono ancora penalizzate da un sistema che scarica tutto il peso del lavoro di cura nelle famiglie sulle loro spalle. Ad esempio, molte donne che diventano madri continuano a subire una discriminazione salariale, sia a causa delle pause di lavoro necessarie per la cura dei figli, sia per la difficoltà di conciliare la vita familiare con il lavoro. Questa condizione si concretizza in tassi di occupazione molto più bassi rispetto agli uomini e in una maggiore incidenza di forme contrattuali precarie o di part-time involontari.

I lavoratori immigrati rappresentano la categoria che tra tutte subisce maggiormente una condizione di disparità salariale. Molto spesso la condizione salariale dei lavoratori immigrati è caratterizzata dalla discriminazione e dalle disuguaglianze rispetto ai lavoratori italiani. Secondo dati forniti dalla CGIL, infatti, gli immigrati ricevono una retribuzione media lorda annua del 29% in meno rispetto alla retribuzione dei colleghi italiani. Inoltre, il 41,2% degli immigrati in Italia percepisce uno stipendio medio lordo annuo sotto la soglia di povertà. Ciò significa che molti lavoratori in Italia si trovano in una condizione di estrema precarietà economica, che spesso li costringe ad accettare lavori a basso costo e aumenta le possibilità di finire vittime della criminalità organizzata.


LA NATURA DELLO “SCONTRO” TRA GOVERNO E OPPOSIZIONE

Nelle scorse settimane sono state presentate alla Commissione Lavoro alla Camera le proposte di legge sul salario minimo. In Parlamento sono stati depositati cinque testi: tre del Partito Democratico, uno del Movimento 5 stelle e uno di Alleanza Verdi-Sinistra. Le proposta di legge del M5S e del PD differiscono di poco. Entrambe chiedono un salario minimo di 9/9,50 euro lordi l’ora. La proposta del PD specifica che l’applicazione della legge dovrà esserci solo nei casi in cui non sia prevista la contrattazione collettiva (CCNL), mentre il M5S la propone come cifra inderogabile da applicare nei casi in cui il CCNL previsto nel settore non superi quella somma.

Appare subito chiaro a qualsiasi proletario come la cifra dei 9 euro lordi l’ora sia una vera e propria miseria che, anche qualora venisse applicata, risulterebbe del tutto insufficiente per far fronte al fortissimo carovita causato dalla speculazione delle aziende, dalle sanzioni e in parte anche dalla guerra in Ucraina. Tuttavia, per rendere ancora meglio l’idea del livello di indigenza a cui fanno fronte i lavoratori quotidianamente, occorre tenere in considerazione che circa un terzo (4,6 milioni) dei lavoratori percepisce meno di 9 euro l’ora, rendendoli di fatto poverissimi. In Italia esistono Contratti Collettivi Nazionali, firmati dai sindacati confederali, che fissano la retribuzione minima dei lavoratori anche al di sotto di 9 euro l’ora, come nel caso dei CCNL delle cooperative nei servizi socio-assistenziali (settore dove vengono impiegate soprattutto donne, specialmente immigrate, in cui l’importo orario minimo ammonta a 7,18 euro), della ristorazione e del turismo (settore dove vengono impiegati soprattutto giovani e giovanissimi precari che stabilisce il minimo orario contrattuale a 7,28 euro) e il CCNL del settore tessile e dell’abbigliamento (il peggiore, dove vengono impiegati soprattutto lavoratori extracomunitari, che stabilisce una retribuzione minima pari a 7,09 euro).

La maggioranza al Governo si è detta da subito contraria alla proposta del salario minimo. Una delle obiezioni avanzate strumentalmente dalla maggioranza consiste nel fatto che un aumento del costo del lavoro si tradurrebbe inevitabilmente in una “contrazione dell’occupazione e un possibile incremento del lavoro nero”, sostenendo che il salario minimo andrebbe a impattare negativamente sulla capacità salariali delle imprese, aumentando così il lavoro nero e la disoccupazione. Un’altra obiezione al salario minimo dell’attuale governo (condivisa in parte anche dal sindacalismo confederale) è che la sua applicazione andrebbe a svantaggio di quei settori di lavoratori maggiormente tutelati dai loro CCNL, dove i minimi sindacali previsti sono più alti della soglia dell’ipotetico salario minimo di 9/9,50 euro l’ora. Applicare il salario minimo quindi potrebbe comportare lo sganciamento delle imprese dai vincoli della contrattazione collettiva (laddove il minimo sindacale sia più alto del salario minimo) per andare ad applicare direttamente il salario minimo di 9 euro lordi l’ora come cifra di base a dei lavoratori che per il contratto che hanno dovrebbero prenderne magari 10 o 11, bypassando di fatto il CCNL. Sia le proposte presentate dall’opposizione che le obiezioni poste dal governo presentano degli elementi da non banalizzare, ma da sviscerare a fondo, per capire la reale natura di questo “scontro”, perchè questo ci possa aiutare ad avere una visione d’insieme autonoma e non influenzata dagli interessi borghesi.

Innanzitutto è necessario evidenziare come il “NO” categorico del Governo Meloni a ogni prospettiva di salario minimo in Italia è (sebbene sostenuto da argomentazioni in parte astute) fortemente ideologico. La questione dei salari è intimamente legata alla questione dell’incremento dei salari reali, fortemente osteggiata dai padroni e dai partiti istituzionali, dietro all’affermazione tutta ideologica che aumentare i salari metterebbe in difficoltà le imprese aumentando la disoccupazione. Ad oggi non esistono studi economico-scientifici che dimostrino una causalità o correlazione tra l’aumento dei salari e l’aumento della disoccupazione. La lotta per l’aumento generalizzato dei salari – di tutte le categorie di lavoratori – è una lotta centrale dei comunisti e delle avanguardie di classe più coscienti, perché significa andare ad intaccare al cuore la contraddizione tra Capitale e Lavoro. Ed è per questo che proprio sul tema degli aumenti di salario, al netto delle affermazioni propagandistiche degli esponenti dei partiti del centrosinistra, i governi succedutisi in questi anni hanno condotto una feroce battaglia a colpi di leggi antipopolari ed antioperaie.

Nelle dichiarazioni di Giorgia Meloni e di altri esponenti della maggioranza emerge, in opposizione al tema dell’aumento dei salari o dello stesso salario minimo, il riferimento al “taglio del cuneo fiscale”. Si ripropone, insomma, la ricetta storica del centrodestra come del centrosinistra, che si ripete da almeno trent’anni, secondo la quale andando a diminuire drasticamente le tasse sui profitti delle imprese si genererebbero, come per incanto, un accrescimento dei salari, una diminuzione dell’inflazione e un aumento dell’occupazione. Una ricetta che è stata applicata regolarmente da qualsiasi Governo di questi ultimi anni e che ha avuto come risultato solo l’aumentare dei profitti dei capitalisti, mentre i salari dei lavoratori sono rimasti tra i più bassi d’Europa. E’ sempre più chiaro come a questo Governo non interessi assolutamente combattere il lavoro nero o la povertà diffusa, bensì di tutelare gli interessi e i profitti dei capitalisti.

Il posizionamento dei partiti che compongono il Governo in merito a questo tema (come anche su altri come RdC) non è casuale, ma è frutto del legame di queste forze politiche con i padroni delle piccole e medie imprese e della ferma volontà di porsi come i rappresentanti anche dei loro interessi. Infatti è palese che chi ne uscirebbe danneggiato da una legge sul salario minimo realmente progressiva sarebbero innanzitutto questi settori, abbastanza consistenti, del capitalismo italiano. Parliamo di quella miriade di imprese, dal settore agricolo, al lavoro di cura, alla ristorazione, i cui lavoratori affrontano quotidianamente delle condizioni di sfruttamento bestiale. Basti pensare ad esempio cosa significherebbe per gli imprenditori del settore della ristorazione-turismo l’imposizione di un salario minimo che in molti casi sarebbe maggiore di due o tre volte quello che questi padroni sono disposti a offrire ai lavoratori.

Se da una parte il Governo si oppone in maniera totalmente reazionaria alla proposta del salario minimo, bisogna anche comprendere i meccanismi di questa proposta da parte del centrosinistra e del M5S. Aldilà della paga ridicola e da fame di soli 9/9,50 euro lordi l’ora, appare chiaro che sia il centrosinistra che il M5S hanno un grande bisogno in questo momento, dopo la batosta elettorale di settembre, di spingere su alcuni “cavalli di battaglia” (come anche la difesa del Reddito di Cittadinanza) per polarizzare l’opinione pubblica e recuperare consensia sinistra”, soprattutto fra i giovani proletari e gli strati popolari. Dopo anni passati al governo, in cui questi partiti non hanno fatto nulla per i lavoratori, rendendosi -anzi- corresponsabili delle peggiori leggi antioperaie ed antipopolari, ora cercano di rifarsi una verginità politica. Una “battaglia” questa del salario minimo condotta in maniera puramente propagandistica, che prova a raccogliere il consenso in termini elettorali di quei segmenti sociali più colpiti dal carovita e dall’inflazione. Inoltre, così come per il RdC, la questione del salario minimo risponde agli interessi di alcuni settori del capitale in ottica di mantenimento dei consumi, che con i salari bassi vengono naturalmente erosi.


LIMITI E PROBLEMI DEL SALARIO MINIMO

Ad oggi l’eventuale introduzione del salario minimo, indipendentemente dalla propaganda diversificata dei vari partiti istituzionali, deve scontrarsi innanzitutto con dei rapporti di forza fortemente negativi per i lavoratori. La possibilità di imporre miglioramenti e maggiori diritti deve per prima cosa fare i conti con la condizione di forte debolezza e frammentazione del movimento operaio in Italia. Questo, unito alla mancanza di un’organizzazione di classe capace di elevare sul piano politico generale le singole vertenze, è la principale motivazione del costante arretramento in materia di salario e tutele di buona parte dei lavoratori in questo paese. Fatta eccezione per il ciclo di lotte nella logistica condotte dai proletari immigrati, che ha portato negli anni miglioramenti significativi nelle loro condizioni di vita e di lavoro, nella maggior parte dei settori il “potere” contrattuale dei lavoratori negli ultimi trent’anni si è indebolito, rendendoli sempre più precari e ricattabili.

Di fronte a tutto ciò è evidente come prima di tutto la proposta di legge dei vari partiti di finta opposizione sia puramente di natura propagandistica. Senza questa correlazione di forze positiva per i lavoratori, nessuna legge calata dall’alto nell’ordinamento borghese può realmente sollevare dalla condizione di povertà e privazione milioni di lavoratori precari. Non è un caso che la questione dell’innalzamento dei salari fino a una certa soglia tocchi particolarmente quei settori dove la sindacalizzazione è scarsa se non inesistente, e le forme di organizzazione e lotta sono ancora arretrate. Anzi, potremmo dire che, proprio per le condizioni di debolezza dell’organizzazione dei lavoratori in questi settori, l’innalzamento dei salari e migliori condizioni contrattuali sono più difficili.

Inoltre, l’introduzione di una quota di salario minimo per legge pone il grosso problema della rappresentanza sindacale. Nel sistema contrattuale in Italia, infatti, le aziende non sono obbligate ad applicare contratti nazionali firmati dai sindacati confederali, ma devono unicamente fare riferimento ai minimi tabellari (ovvero i salari per livello) del contratto di riferimento. Tralasciando i tecnicismi e gli escamotage nell’applicazione reale dei vari contratti da parte dei padroni, il vincolo del solo salario tabellare è un forte elemento di frammentazione della contrattazione e del potere dei lavoratori di imporsi sul piano dei diritti e delle conquiste. L’introduzione del salario per legge, proprio per questa peculiarità del sistema contrattuale, permetterebbe così a qualsiasi azienda di sganciarsi dai contratti collettivi e di rifarsi unicamente al salario minimo legale. Per esempio, una qualsiasi azienda metalmeccanica potrebbe arbitrariamente sfilarsi dall’applicazione del CCNL (che prevede ben più di 9 euro lordi l’ora), abbassando fortemente i salari dei lavoratori e cancellando diritti ottenuti in decine di anni di lotte durissime. Questo è uno dei motivi per cui ad esempio questa proposta, nei termini generici e slegata dalla rappresentanza reale dei lavoratori, divide i lavoratori – sentimento tra l’altro cavalcato abilmente dal Governo. Inoltre, questa problematica tra lavoratori più ricattabili e “maggiormente tutelati” si riflette direttamente anche all’interno dei sindacati confederali, dove le varie categorie su questo tema sono in forte contraddizione.


LA LOTTA DI OGGI

La questione del salario minimo tocca un problema estremamente reale per tutti quei milioni di lavoratori di cui parlavamo precedentemente. Oggi, lavorare full-time a meno di 5-6 euro l’ora vuol dire essere condannati a vivere in una condizione di estrema indigenza. Una buon numero, inoltre, di questi lavoratori sottopagati sono proprio i giovani proletari. E’ del tutto naturale e giusto che chi si trova in questa condizione, come tanti di noi, si ponga il problema del rendere il proprio salario adeguato al costo vertiginoso della vita e dei beni di prima necessità.

Il punto centrale per contrastare i salari da fame è l’organizzazione dei lavoratori nei luoghi dove più permane questa condizione di forte sfruttamento. Dai braccianti, ai lavoratori di cura, fino ai riders, l’unica vera “garanzia” della possibilità di migliorare la propria situazione risiede proprio nella forza dei lavoratori di lottare attivamente per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro. Le lotte dei facchini della logistica di questi anni ci hanno dimostrato che è possibile uscire dal ricatto e dai salari da fame e addirittura ottenere salari e diritti di gran lunga migliori rispetto ad altri settori.

Per poter realmente affermare il principio che nessuno possa essere pagato sotto una certa cifra – che siano 9 o 10 poco cambia, rimangono briciole rispetto al carovita dilagante – serve necessariamente passare per l’adeguamento dei salari presenti nei CCNL. Non è pensabile che possano continuare a esistere contratti, firmati dagli stessi sindacati confederali, che consentono ai padroni di pagare con salari da fame i lavoratori. Questo sia per tutelare la rappresentanza sindacale dei lavoratori – non delle dirigenze confederali – sia per fare in modo che le imprese non si svincolino dalla contrattazione di categoria e dal contratto di riferimento. La lotta per alzare i salari più bassi va inevitabilmente legata alla più generale battaglia per alzare i salari di tutti i lavoratori, sia attraverso l’aumento delle paghe base, che attraverso incrementi indiretti come l’indicizzazione dei salari al costo della vita, per rispedire direttamente al mittente qualsiasi tentativo di dividere i lavoratori tra quelli che hanno salari più alti e chi invece li ha più bassi.

Non ci sono ricette magiche calate dall’alto che possono “salvare” i lavoratori e la loro possibilità di assicurare un futuro dignitoso a sè stessi e alla propria famiglia. Nessun partito istituzionale potrà mai essere coerentemente dalla parte di chi lavora perché tutti questi, con le dovute differenze e particolarità, rappresentano gli interessi della classe avversaria. Serve che lavoratori, giovani e meno giovani, usino l’unica arma che hanno, ovvero l’organizzazione e la lotta, per riaffermare che le proprie esistenze, ovvero la possibilità di poter condurre una vita piena e soddisfacente, valgono più dei profitti dei padroni. Questa è la nostra battaglia.

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