L’università italiana è un’università di classe. Questa affermazione non rappresenta uno slogan vuoto, ma raffigura la sua natura e il risultato che emerge dal suo sviluppo storico. Strutturata in funzione degli interessi della classe dominante, viene costantemente piegata alle necessità produttive dei padroni come fucina di figure professionali, ricerche e brevetti richiesti. Dentro agli atenei gli unici interessi che contano sono quelli dei privati, delle multinazionali e delle banche, puntualmente rappresentati nei CdA e in prima fila per influenzare gli indirizzi delle università a proprio piacimento. Allo stesso tempo il processo di definanziamento e privatizzazione degli atenei ha favorito l’emergere di un altro carattere dell’università di classe: le barriere economiche alla sua accessibilità e l’esclusione sistematica degli studenti appartenenti alle classi popolari.
Dagli ultimi decenni del ventesimo secolo, coadiuvato dall’arretramento dell’organizzazione del movimento operaio e del movimento studentesco, assistiamo al processo di privatizzazione dell’università italiana e all’ingresso sempre più massiccio dei privati all’interno delle università, strumenti attraverso cui viene rafforzato il legame sempre più nitido tra il sistema di istruzione e gli interessi dei padroni.
In cosa consiste questo processo? Si tratta di un progressivo disimpegno finanziario dello Stato nei confronti dell’università italiana, sempre più dipendente dai finanziamenti privati: sia quelli investiti dalle aziende, sia i proventi derivanti dalla tassazione degli iscritti. I costi delle università, infatti, vengono scaricati sulle famiglie degli studenti per un finanziamento pari al 20% del totale annuale, permettendo quella già citata progressiva esclusione delle fasce popolari dal grado di istruzione.
Come si è giunto a questo livello di privatizzazione? Tramite il grimaldello dell’autonomia universitaria. Introdotto a partire dal 1989, questo modello è stato progressivamente potenziato riforma dopo riforma, in particolare con la Riforma Berlinguer del 1999, che ha rappresentato il primo vero attacco significativo all’istruzione pubblica, aprendo la strada all’attuale concetto di aziendalizzazione dell’università.
Il principale metodo di finanziamento pubblico delle università italiane consiste nel Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), progressivamente calato nel corso degli anni. Ad oggi l’FFO occupa il 65% (circa) del finanziamento alle università, il resto è coperto dai finanziamenti privati. A sua volta l’FFO è suddiviso nella quota premiale e nella quota storica; quest’ultima permetteva la quota base di finanziamento ad ogni singola università. Nel corso del tempo la quota storica si è ridotta a favore della premiale, che risponde a dei criteri ben precisi, come la qualità della ricerca. Questa ulteriore suddivisione causa uno svantaggio per gli atenei più piccoli, andando sistematicamente ad avvantaggiare quelli più grandi, con maggiori collaborazioni e che già ricevono investimenti più cospicui.
Slegando gli atenei dal finanziamento statale, questi diventano devi veri e propri enti autonomi facilmente gestibili dagli interessi dei padroni sui territori. Su questo solco, infatti, nascono i “poli di eccellenza” presentatici dalla riforma Gelmini: le facoltà utili ai settori produttivi del territorio sono alla mercé delle industrie locali, che traggono da questo assetto un duplice vantaggio. Da una parte, lasciando voce in capitolo sulla didattica e sui progetti di ricerca, i privati sono liberi di piegare ai propri interessi i piani di studio e i progetti di ricerca delle facoltà risparmiando sui costi di formazione e dall’altro si vedono garantito un continuo ricambio di mano d’opera a disposizione facilmente rimpiazzabile da nuovi laureati nel caso ci dovessero essere cambiamento dal punto di vista produttivo.
È in questo contesto che si inserisce l’economia di guerra: così come le università sono al servizio industriale, allo stesso tempo sono al servizio dell’apparato bellico. Basta vedere l’affare Med-Or con Leonardo, principale industria bellica italiana, oppure gli accordi dell’Università di Pisa con la Marina Militare italiana.
La lotta contro l’autonomia universitaria è la lotta del nostro tempo nei nostri atenei: serve una istruzione che sia a favore delle classi popolari, ma soprattutto al servizio degli interessi dei lavoratori, non della guerra imperialista, degli interessi dei padroni e dei loro piani di morte.
PRIVATI ED UNIVERSITÀ
Il processo di privatizzazione del sistema universitario italiano è già in parte avvenuto. Circa il 20% del costo dell’istruzione superiore è scaricato sulle spalle delle famiglie, i fondi ordinari ministeriali (FFO) non aumentano e vengono distribuiti in modo sempre più ineguale, mentre gli atenei si sono trasformati in aziende, che vengono dirette da Consigli d’Amministrazione in cui una quota dei seggi è riservata ai grandi gruppi industriali i quali piegano didattica e ricerca ai propri interessi.
Ma che cosa permette questo modello di università?
È noto che il primo passo per la privatizzazione di qualsiasi servizio pubblico, sia la sua frammentazione. Durante il ventennio 1989-2009, i governi di ogni schieramento hanno implementato misure volte a rafforzare il principio della c.d. “autonomia universitaria”, declinata ovviamente in ambito finanziario: dietro alla scusa della “flessibilità” si è sancito il principio secondo il quale è responsabilità dei singoli atenei garantire il proprio funzionamento economico. Si sono dunque gradualmente ridotti i fondi ministeriali, aprendo al tempo stesso ad altre forme di finanziamento.
L’obiettivo di questa manovra è essenzialmente uno, cioè promuovere la penetrazione di capitali privati all’interno delle università. È una conseguenza naturale: nel momento in cui i fondi statali non sono più garantiti, l’università viene messa nelle condizioni di doversi vendere al miglior offerente.
Ma i fondi privati hanno un prezzo, e a testimoniarlo è la riforma Gelmini del 2010, la quale svuota di potere gli organi “politici” dell’università (Senato Accademico), spostandolo sul Consiglio d’Amministrazione (CdA) e sancendo inoltre l’ingresso dei privati in quest’ultimo.
La logica è chiara. I privati iniziano a coprire una parte consistente dei costi del sistema universitario, finanziando progetti di ricerca e servizi, riservandosi però il diritto di indirizzare la ricerca, piegare l’offerta didattica ai propri fini, ottenere forza-lavoro a costo nullo tramite i tirocini.
Le conseguenze di questo modello sono disastrose su molti fronti, a partire dalla didattica e dalla ricerca. Facendo un esempio attinente al mondo scientifico, se le università pubbliche spendono il 55% per cento dei fondi in ricerca di base, nel caso del settore privato questa cifra scende vertiginosamente al 9%. È un fatto naturale, in quanto un’impresa investirà soltanto in progetti che si riveleranno redditizi nel breve/medio periodo per le proprie esigenze. Tuttavia è evidente che il progressivo definanziamento della ricerca pubblica si traduce in un restringimento deleterio della spesa per la ricerca socialmente più necessaria, sacrificando il futuro per garantire profitto immediato ai padroni.
Va ricordato inoltre che la ricerca non è neutrale, ma che essa vive nelle contraddizioni che la società capitalista produce e che caratterizzano il mondo attuale, e non può che esserne parte integrante. Un esempio è la saldatura tra mondo della ricerca e industria bellica, o la partecipazione del CEO di Enel al CdA della Sapienza.
Dal 2010 a oggi abbiamo assistito al consolidamento di questo modello. Se nel 2010 la quota base del FFO era il 93% del totale, oggi si aggira intorno al 64%. Se i finanziamenti complessivi all’università sono rimasti essenzialmente gli stessi – anche a fronte dell’inflazione crescente – ad aumentare è stata la cosiddetta “quota premiale”, ovvero quella assegnata agli atenei sulla base di una serie di criteri ministeriali, primo tra tutti la “stabilità finanziaria”.
In breve, il ministero premia le università-aziende in grado di attrarre investimenti privati a scapito delle altre, trasformandole in poli di serie B.
Per questo la lotta per un nuovo modello di istruzione passa dall’abolizione dell’autonomia universitaria e delle sue logiche come la quota premiale, da un aumento complessivo dei finanziamenti e dall’esclusione dei privati dagli organi di ateneo.
Per un’istruzione di qualità e accessibile a tutti, per il diritto allo studio e per una ricerca orientata al bene comune.
EMERGENZA ABITATIVA
Quello degli studenti fuorisede è lo specchio perfetto dell’università di classe che denunciamo, in particolare per le condizioni che questi vivono. Prenderemo in analisi, a titolo esemplificativo, la condizione abitativa e soprattutto lo stato dell’arte in merito ai fondi del PNRR, presentatici in pompa magna -nelle rispettive missioni- come una grande opportunità, che nei fatti si è però rivelato essere l’ennesimo conto da pagare per le classi popolari e l’ennesima occasione di profitto per gli imprenditori.
Nel piano dell’istruzione di classe, quella della situazione abitativa, rimane il più grande scoglio per gli studenti universitari. All’oggi sono circa 600.000 gli studenti universitari fuorisede, costretti ad allontanarsi dalle proprie regioni di provenienza per poter studiare da un sistema che, come prodotto diretto dell’autonomia universitaria, alimenta la divisione in università di serie A e università di serie B.
Allo stato attuale, nelle maggiori “città universitarie” non ci sono abbastanza alloggi messi a disposizione per gli studenti, che vengono completamente abbandonati all’anarchia del mercato immobiliare. Ci sono meno di 47.000 posti letto per studenti contro una domanda di quasi 600.000 utenti, di conseguenza solo l’8% di questa viene coperta: una percentuale ridicola rispetto ai reali bisogni, nonostante in Italia siano presenti Atenei estremamente importanti come La Sapienza di Roma, l’università più grande d’Europa.
Durante la pandemia, la campagna #Emergenzauniversità lanciata dal Fronte della Gioventù Comunista, ha denunciato questa situazione ritenuta una vera e propria speculazione padronale ai danni degli studenti che, tra l’altro, continua ad aumentare: secondo Immobiliare.it, il costo di una stanza singola è aumentato del 7% dal 2023 al 2024. Basti pensare che nella sola Milano, sede di due tra le più importanti università pubbliche di Italia, gli affitti per un posto letto oscillano tra i 600 e i 700€ mensili.
Il governo Meloni nel 2024 ha annunciato 60.000 posti letto per studenti, stando al Decreto Ministeriale n° 481 del 26 febbraio in previsione del giugno 2026. I posti letto ottenuti, facendo riferimento ai dati di marzo 2025, non sono neanche 12.000. L’incidenza dei posti letto ottenuti dal Piano aumenterà solo dello 0,5%: un fallimento su tutta la linea. O meglio, un grandissimo successo per i padroni e per il mercato speculativo immobiliare, ma una grande sconfitta per gli studenti delle classi popolari che dovranno pagare per l’ennesima volta i costi dell’istruzione.
Lottare per un piano edilizio al servizio delle classi popolari, e quindi per gli alloggi per gli studenti fuorisede, è fondamentale per combattere contro un’università sempre più escludente. Fare emergere in ogni contesto l’assoggettamento dell’istruzione pubblica superiore agli interessi del capitale, denunciare il processo di privatizzazione e il modello dell’autonomia, sono tra gli obiettivi centrali che ci poniamo per combattere contro il carattere classista dell’università italiana.