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«il miglior modo per dire è fare» incontro con Antonio Guerrero.

Antonio Guerrero è uno dei cinque prigionieri cubani recentemente liberati dagli Stati Uniti. In questi giorni è stato in Italia per una serie di iniziative, in cui ha raccontato la sua esperienza. A Roma al centro congresso Frentani, grazie all’Ambasciata Cubana in Italia ha avuto luogo un incontro aperto, dove hanno partecipato diversi movimenti di solidarietà che in questi anni hanno appoggiato la causa dei 5. L’incontro a cui abbiamo partecipato come redazione, insieme alla rappresentanza politica del FGC, è stato interessante e merita qualche considerazione.

Considerazione, che come ha detto Gianni Minà – che ha avuto per tutta la serata il ruolo di intervistatore  – avrebbe potuto e forse dovuto trovare qualche spazio nella stampa, almeno come “pezzo di spalla”. Insomma un avvenimento importante, che chiaramente i media nostrani hanno ignorato per i contenuti politici e il significato stesso dell’incontro. Pensate cosa accade al contrario alla presunta dissidente cubana Yoani Sanchez, pressoché sconosciuta nel suo paese, ma sempre accompagnata da un codazzo di giornalisti e cameraman, per interviste, riprese inviate su tutti i media, e spesso anche qualche compenso di migliaia di euro per la partecipazione, a quanto si dice in giro. Ma si sa, la pretesa dell’informazione reale è pretesa finta che si scontra con i rapporti di classe, e al massimo in questi tempi c’è da accontentarsi di quel poco che riusciamo a fare di controinformazione al di fuori dei grandi canali comunicativi.

In questa sala gremita di addetti ai lavori e cittadini cubani in Italia, la prima impressione era la calma e la tranquillità di un uomo che ha vissuto sedici anni di carcere, la sua incredibile umiltà nel considerare la propria vicenda personale – straordinariamente drammatica – come elemento del tutto parziale e se vogliamo quasi irrilevante nell’ambito generale del mondo e della stessa Cuba. In realtà la vicenda dei 5 ha segnato senza dubbio una vittoria cubana, e di quella parte dell’opinione mondiale che si è mobilitata in favore della loro causa. Una vittoria che è un passaggio obbligato per gli USA nell’ambito di un semplice cambio generale di strategia e non certo un venire meno alla volontà di sovvertire l’ordinamento socialista nell’isola caraibica.

Guerrero ha detto di non considerarsi un eroe, che per lui gli eroi sono «i medici cubani che combattono l’Ebola in Sierra Leone», che in uno dei suoi viaggi per raccontare la sua esperienza a Cuba un medico appena uscito dalla quarantena gli ha chiesto una foto e per lui è stato un onore, perché i veri eroi cubani, sono a suo dire, proprio quei medici. Persone straordinarie che per primi, con coraggio, senso del dovere, vero internazionalismo si sono gettati nel curare gli ammalati di Ebola, con i medici europei che «aspettavano che i cubani testassero su sé stessi le tute e i materiali di protezione e comunque lasciavano a loro i casi più disperati». D’altronde ricorda Guerrero Obama stesso ha dovuto ammettere che le decine di migliaia di medici cubani che salvavano vite nelle situazioni più disperate erano fra le carte vincenti di Cuba e perdenti per gli Usa».

Quella dei 5 dice Guerrero non è stata una vittoria personale, ma una vittoria del popolo cubano, ottenuta grazie al popolo cubano e alla sue fermezza. «E tra tante vittorie – dice con il consueto  senso di umiltà – non è stata neanche la più importante» elencando Plaja Gyron, la resistenza al Blocco economico, gli attentati e tutte le pressioni dell’imperialismo.

Non sfugge alle domande di Gianni Minà sul lato più personale. È chiaro che a tutti viene in mente di chiedere cosa ha provato, se ha sempre resistito, se ha avuto momenti di cedimento. Non basterebbe questo articolo per ripercorrere la vicenda giudiziaria e umana dei 5 cubani, né un incontro pubblico di qualche ora. Però il senso che trasmette Guerrero è quello dell’uomo che vive il suo dramma umano interiore nell’ambito di una causa e di una lealtà generale, in cui certamente esistono momenti personali difficili, ma sempre legati ad un contesto generale, ad un dovere rivoluzionario, di chi sa che indipendentemente dalla propria condizione personale, la sua esistenza è destinata ad una causa giusta. «Come diceva il nostro eroe  rivoluzionario José Martí – da detto Guerrero  –  “Un principio giusto, in fondo a una grotta, è più forte di un esercito”; e per un periodo le nostre celle, negli USA, erano quasi dei buchi. Ma noi siamo sempre stati determinati, mai deboli. Anche quando abbiamo pensato che forse saremmo morti in prigione. Non potevamo tradire un popolo che ha resistito a tutte le aggressioni.»

La prigione è anche un’esperienza e uno spaccato sulla società americana. In prigione i prigionieri cubani ottengono per non essere separati di fermare la turnazione delle celle a tutti i detenuti, meritandosi l’applauso di tutto il carcere. Guerrero ha la soddisfazione personale di vedere molti diplomati in spagnolo dal corso che inizia a tenere,  «più di quanti ce ne fossero stati in tutti gli anni precedenti». La sua passione per la pittura diventa anche qui elemento d’azione. Quando inizia a dipingere in carcere gli altri detenuti lo fanno per vendere le proprie opere, nell’ambito dei programmi carcerari, lui dice di farlo per passione. Alla fine vedrà aumentare di molto il numero di partecipanti. Uno spaccato sulla società americana che viene anche dall’esterno, dall’appello fatto da diversi intellettuali per la liberazione dei 5, costretti a pagare una pagina sul New York Times di fronte al rifiuto dei giornali di pubblicarlo, tentato anche in quell’occasione ma impedito dalle stesse leggi commerciali americane. Un popolo quello americano che «vive completamente disinformato, come in un altro mondo».

Una testimonianza di come un vero rivoluzionario possa comportarsi ed agire anche in situazioni difficili, fedele all’insegnamento di Martì per cui «il miglior modo di parlare è fare». C’è spazio ovviamente anche per considerazioni generali sulla situazione internazionale, sulla situazione cubana. «Se vedete Cuba come un piccolo faro che fa la differenza nel mondo, ognuno di voi dovrebbe avere il desiderio che il paese nel quale vive sia diverso. La lotta non può essere in una sola direzione. E ancora «Adesso i media occidentali parlano – male – più del Venezuela che di Cuba. Dobbiamo appoggiare la rivoluzione in Venezuel.» La convinzione è in ogni caso che «Il capitalismo non è la soluzione per i problemi di questo mondo»  che Cuba abbia la necessità di «di soddisfare i bisogni delle persone, cosa che non ha niente a che vedere con il consumismo.»

Sul futuro di Cuba ci dice: «noi cubani non siamo idioti, magari qualcuno pensa che i giovani cubani abbiano meno coscienza, meno senso storico, ma ho incontrato diverse volte i giovani cubani e posso dirlo: le giovani generazioni hanno passato a Cuba momenti economici molto difficili ma continuano a difendere la rivoluzione. Hanno la responsabilità di succedere alla generazione storica della rivoluzione, e saranno loro a difendere il futuro di Cuba. Sono sicuro che loro conoscono il mostro. Siamo preparati.»

La redazione di SenzaTregua ringrazia l’Ambasciata di Cuba in Italia per la conferenza e l’invito ricevuto alla partecipazione a questa interessante iniziativa.

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