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Generazione Millennial: un’arma ideologica contro i giovani lavoratori

di Carlo Tommolillo

Pochi giorni fa (il 9 ottobre), il Censis ha presentato a Milano una ricerca realizzata per il Padiglione Italia di Expo 2015 intitolata «Vita da Millennials: web, new media, startup e molto altro. Nuovi soggetti della ripresa italiana alla prova». Oggetto dell’indagine sono i giovani italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni, i cosiddetti Millennials appunto. A questa ricerca è stato dato grande risalto, e molti dei principali giornali e agenzie di stampa nazionali hanno diffuso i risultati, a loro dire, incoraggianti di questo studio. Ma cosa sono i Millennials?

Con i termini Generazione Y, Millenial Generation o Millennials si indica la generazione dei nati in occidente tra gli anni ottanta e i primi duemila; seguono ai Baby Boomers (nati tra i ’50 e i ’60) e alla Generation X (nati tra i ’60 e gli ’80). Giornalisti e sociologi di tutto il mondo occidentale negli ultimi anni – oltre ad assegnare nomi fastidiosissimi a qualsiasi fenomeno – hanno descritto abitudini e caratteristiche di questa generazione: nati nell’era digitale, utilizzatori abituali di tecnologia, iscritti ai social network e sempre connessi in rete.

La ricerca del Censis pretende di dimostrare una straordinaria capacità di adattamento e spirito di sacrificio da parte della gioventù italiana, doti che sarebbero dovute ad un nostro innato spirito imprenditoriale: “alle barriere di accesso al mercato del lavoro e ai rischi di incaglio nella precarietà” ci spiega il Censis “i Millennials italiani hanno opposto una forza vitale partendo da una potenza italiana consolidata: l’imprenditorialità”. Viene infatti dato grande risalto al numero (quasi 32.000) di imprese e startup fondate nel secondo trimestre del 2015 da under 35. Si tratta però di un dato parziale, che registra soltanto le nascite di queste imprese, omettendo una delle caratteristiche principali di questo settore del capitale: il ciclo di vita mediamente brevissimo. Questa, infatti, è una caratteristica propria del mondo delle cosiddette startup, e cioè quelle imprese che operano in settori di innovazione e che da sempre sono vendute come esempio di intraprendenza, modernità e impegno. Formate spesso da giovani qualificati, si costituiscono prevalentemente grazie a interventi governativi a livello europeo, nazionale e regionale, e sono caratterizzate da un rischio elevato e da una limitata quantità di risorse umane e finanziarie. La stragrande maggioranza di queste imprese soccombe nel tentativo di sviluppare un prodotto appetibile per il mercato. Insomma, si tratta chiaramente di un modo efficace con il quale il capitale monopolistico riduce al minimo i costi e il rischio economico legato all’innovazione tecnologica, creando un vero e proprio terreno di caccia per i cosiddetti venture capitalist, alimentato in gran parte con fondi pubblici. L’aumento delle nascite di imprese a conduzione giovanile in Italia nell’ultimo trimestre (+3,6%) riportato dallo studio, è chiaramente collegato all’Expo, un evento che ha mosso grandi investimenti pubblici e che sul modello di occupazione che intende affermare ci ha già dato chiare e dirette indicazioni. Dell’Expo abbiamo già scritto, per saperne di più leggi https://www.senzatregua.it/la-grande-abbuffata/).

Chiaramente, per questioni di classe, non sono di alcun interesse per noi quelle imprese che vengono avviate da giovani che dispongono di finanziamenti e risorse adeguati ad avviare un’impresa o che ne ereditano la conduzione o la proprietà dalla propria estrazione sociale. La realtà delle startup, per quanto resti assolutamente non rappresentativa dell’attuale condizione della gioventù proletaria (le startup innovative italiane alla fine del primo trimestre del 2015 erano infatti 3.711, delle quali solo 879 sono a prevalenza giovanile, ed impiegano complessivamente 3.025 dipendenti, senza distinzione di età; l’aumento nell’ultimo trimestre non cambia di certo la sostanza)[1], corrisponde a quella parte dei giovani spesso provenienti da famiglie di lavoratori, che con grandi sacrifici sono riusciti a concludere gli studi universitari in settori di innovazione e che, attraverso i programmi di “incubazione” e sviluppo di startup, tentano un’ascesa sociale che, dati alla mano, si rivela soltanto una grande illusione.

Ma la parte più interessante dello studio è quella che descrive la reale condizione nella quale la gioventù italiana, soprattutto quella schiacciante maggioranza che non fonda startup e non diventa imprenditrice di se stessa, svilupperebbe queste doti di adattamento. Con la massima sfacciataggine, vengono citati dati che descrivono l’inaccettabile livello di sfruttamento e precarietà che colpisce i giovani provenienti dalle classi lavoratrici: “Un milione di Millennials ha cambiato almeno due lavori nel corso dell’anno, 1,2 milioni dichiarano di aver lavorato in nero negli ultimi dodici mesi, 1,8 milioni hanno svolto lavoretti pur di guadagnare qualcosa, 1,7 milioni nell’ultimo anno hanno lavorato con contratti di durata inferiore a un mese, 4,4 milioni hanno fatto stage non retribuiti. Più di 3,8 milioni di Millennials lavorano oltre l’orario formale (il 17,1% in più rispetto ai Baby Boomers). Di questi, 1,1 milioni lo hanno fatto senza ricevere il pagamento degli straordinari (il 4% in più rispetto alla fascia di 35-64 anni) e 1,7 milioni con una copertura economica solo saltuaria. A 1,1 milioni di Millennials capita di lavorare anche di notte, a quasi 3 milioni durante il weekend. Ancora: 1,8 milioni lavorano a distanza, da casa o comunque lontano dal posto di lavoro, 1,9 milioni sono pendolari e 2,5 milioni viaggiano spesso per lavoro in città diverse da quella in cui risiedono. Lavorano stando connessi, in modalità remota, con una dilatazione di tempi e luoghi di lavoro.” I Millennial sarebbero quindi “flessibili, con tanta voglia di lavorare a tutti i costi e anche senza i diritti sindacali acquisiti con le lotte dei padri”[2] (eh già, perché con i diritti conquistati con la lotta da genitori e nonni è troppo facile!).

Tutto questo non viene affatto riconosciuto per quello che è palesemente, e cioè una condizione di sfruttamento e assenza di diritti cui la gioventù proletaria è stata condannata da questo sistema, bensì come una dimostrazione di “dedizione e disponibilità” e addirittura di stakanovismo (hanno avuto il coraggio di scrivere che Stakanov era un Millennial”!). Volendo sorvolare sull’ennesima e allucinante distorsione del mito di Stachanov – che era tutt’altro che un lavoratore costretto a faticare oltre ogni limite di tempo e intensità, in condizioni precarie, sottopagato o non pagato affatto, e che, soprattutto, prestava il proprio lavoro e la propria intelligenza alla causa del benessere collettivo del proprio paese, e non all’accumulazione privata del profitto – è sorprendente come il sistema capitalistico usi come proprie armi ideologiche persino i dati più incontrovertibili e schiaccianti che dovrebbero, al contrario, inchiodarlo di fronte all’evidenza che non è assolutamente in grado di assicurarci un futuro di benessere e stabilità.

Inoltre la ricerca del Censis sottolinea compiaciuta che a questa generazione non viene affatto in mente di cercare una soluzione collettiva alla propria condizione: tra i Millennials, infatti, “prevale il soggettivismo etico”, sono individualisti, solidali e global”, con una voglia di un cambiamento che però, sia chiaro, non è radicale ed è inteso come frutto delle azioni individuali quotidiane. L’insoddisfazione del 77,1% degli intervistati, che dichiara un’esigenza di cambiamento nella propria vita, viene descritta come una spinta positiva e perfettamente in armonia con il sistema produttivo. La necessità di cambiamenti radicali nella propria vita è comunque espressa dal 27,1%, una percentuale tutt’altro che trascurabile. Tutto questo, ovviamente, senza lamentele: i Millennials non sono choosy e il 60% di loro esprimerebbe addirittura soddisfazione per la propria condizione (ricordiamoci che si tratta di quella parte dei giovani che è riuscita a trovare un lavoro, e che spesso è semplicemente felice di non rientrare nel restante 45% dei giovani che un lavoro, per quanto precario e mal retribuito, neanche ce l’ha).

Si tratta di dati comunque molto importanti, perché rivelano la grande immaturità della gioventù proletaria e la scarsa coscienza della propria condizione di classe e dei propri interessi, oltre ad una pesantissima influenza ideologica che questo sistema riesce comunque a esercitare, anche quando è in profonda crisi. Una condizione, questa, dalla quale la gioventù proletaria deve assolutamente emanciparsi.

L’attacco dei monopoli contro i diritti della gioventù delle classi lavoratrici e degli strati popolari si muove su ogni fronte (Jobs Act, Buona Scuola e alternanza scuola-lavoro, ecc.), anche quello ideologico. L’operazione ideologica in atto è chiara: usare il presunto dinamismo di quella parte estremamente minoritaria della gioventù del nostro paese che diventa “imprenditrice di se stessa” – un dinamismo tutt’altro che virtuoso, che spesso corrisponde anch’esso ad una condizione di precarietà e sfruttamento funzionale agli interessi dei monopoli – per giustificare lo sfruttamento estremo e la liquidazione di ogni diritto sindacale imposti alla stragrande maggioranza dei lavoratori. Usare la sofferenza del giovane operaio o del cassiere del supermercato interinale con contratto rinnovato mensilmente o persino settimanalmente, per creare il falso mito di un’imprenditoria italiana giovane e dinamica, per elogiare ipocritamente una generazione che accetta la crisi di questo sistema come una sfida da cogliere, che si adatta ai tempi accettando di giocare con delle regole ingiuste senza fare lamentele. Ancora una volta, il capitalismo pretende di venderci la favola di una gioventù e, in generale, di una società tutta sulla stessa barca, elogiando chi vive la propria condizione di sfruttato senza lamentarsi e senza farsi troppe domande, con docilità e accondiscendenza, e soprattutto senza cercare la vera causa della crisi ne tantomeno una via d’uscita collettiva e radicale alla propria condizione di sfruttamento; bensì accontentandosi della solita illusione della possibilità di emanciparsi grazie al riconoscimento del proprio talento e delle proprio impegno. Una possibilità che, dati alla mano, non esiste. I giovani operai, lavoratori, studenti e disoccupati non devono farsi ingannare da questi falsi miti. E’ proprio in momenti come l’Expo, in cui il capitale monopolistico si esibisce in una farsa umanitaria e solidaristica, che i giovani delle classi lavoratrici devono rispondere rifiutando l’illusione di un futuro migliore all’interno di questo sistema e organizzando le proprie lotte per lanciare un’offensiva contro il potere dei monopoli, per conquistare un avvenire diverso, per costruire un’Italia socialista.

 

[1] Fonte: Report trimestrale sulle startup innovative, Camere di Commercio d’Italia, 6 aprile 2015.

[2] “Digitali ok ma soprattutto flessibili, stacanovisti e imprenditori, ecco i Millennials”, www.ansa.it.

 

 

 

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