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Antigone, o sulla presunta coincidenza tra legge e giustizia

*di Partizan Kom

“La legge è fatta esclusivamente per lo sfruttamento

di coloro che non la capiscono, o ai quali la brutale

necessità non permette di rispettarla.”

(B. Brecht)

Nell’antica Grecia, il mito di Antigone, espresso magistralmente nella tragedia di Sofocle, racconta le vicende di una ragazza di nobili origini che, nonostante la legge non glielo consentisse, seppellisce il fratello considerato traditore della patria, al fine di garantire alla sua anima di non vagare infelicemente per l’eternità. Viene scoperto questo gesto di insubordinazione e, dopo aver confessato il reato, la fanciulla è murata viva. In questa condizione decide di togliersi la vita per l’insopportabile pena.

Il sopracitato mito, molto semplice sotto certi aspetti, è emblema chiarissimo dell’irrisolta e lacerante dicotomia tra legge e giustizia. Proprio elle scorse settimane due fatti, la condanna per gli scontri del 15 Ottobre 2011 e quella per il rogo della ThyssenKrupp, lontani nel tempo e nello spazio, sono invece intrinsecamente collegati. Nove anni di carcere, la massima pena inflitta in tutte e due le condanne. Un numero che fa tanta rabbia, vista la diversità delle due vicende e le colpe che recano. Entrambe esprimono palesemente la problematica citata precedentemente; entrambe dimostrano quanto la lunga strada per l’eguaglianza sociale e il comunismo non possano passare da un miope riformismo o da una modifica del codice penale. Entrambe evidenziano la necessità impellente non di un cambio, ma di una rivoluzione. Analizziamo, però, questi fatti, al fine di avere un quadro decisamente più chiaro, col quale trarre delle conclusioni.

Scontri di piazza S. Giovanni, 15 Ottobre 2011, Roma

Il 15 Ottobre 2011, centinaia di migliaia di persone scesero nelle strade di Roma per dire un confuso No a crisi, disoccupazione, precariato, potere finanziario sull’ondata del “movimento indignados” formando una delle manifestazioni più partecipate in Italia dal lontano Luglio 2001 al G8 di Genova. Una manifestazione ricca di contraddizioni e limiti politici che ebbero un riflesso anche organizzativo, a partire dalla mancata volontà politica di approfondire le analisi politiche sulla natura della crisi iniziata qualche anno prima e ancora in pieno corso. Questo portò ad una piattaforma che era tutto e niente, funzionale in definitiva a chi voleva cavalcare a fini elettorali un “movimento di massa” per un cambio di governo invece che una piattaforma che andasse al problema di fondo che coinvolge l’Unione Europea e il cuore del sistema capitalistico. Una contraddizione che si manifestò da un lato con una “carnevalata” sponsorizzata dalla sinistra istituzionale, dai grandi media e persino da Draghi, un’alternativa stereotipata, una farsa che oltre l’apparenza di un grande movimento si risolve nella debolezza di una protesta e proposta totalmente innocua, compatibile e persino funzionale ai progetti delle classi dominanti, dando l’impressione di un cambiamento radicale per non cambiare nulla con l’unico fine di impedire lo sviluppo della protesta in senso rivoluzionario, costruendo artificialmente una protesta compatibile con le basi del sistema capitalistico come gli eventi successi hanno dimostrato. Mentre dall’altro lato non si riuscì a costruire un fronte critico alternativo sotto il punto di vista politico in cui prevalsero espressioni conflittuali di vario genere che coinvolsero migliaia di persone e che espresse il livello di esasperazione sociale che c’era nel paese. Dapprima scontri isolati, piccole azioni di gruppi isolati, poi, mano a mano che il corteo procedeva, sempre più numerosi con la reazione di migliaia di manifestanti in via Labicana e all’entrata stessa di Piazza San Giovanni, all’ingresso dei mezzi della polizia. Il culmine di questi scontri si raggiunse a p.zza S. Giovanni, dove viene messa alle fiamme una camionetta dei Carabinieri. Alla fine di quella giornata si contarono 20 fermi e 12 arrestati, fino a far salire, dopo gli “accertamenti” quest’ultimo numero a un’altra ventina, tra questi Davide Rosci, condannato quasi un anno fa in Cassazione a 6 anni di carcere. Degli arrestati, durante gli ultimi giorni, sono stati altre quindici persone che hanno ricevuto poche settimane fa la condanna complessiva, di primo grado di giudizio, a 61 anni di carcere. La sentenza definitiva ha espresso, inoltre, la pena più alta per Giacomo Spinelli, il quale dovrà scontare 9 anni di reclusione. La sommatoria dei risarcimenti da versare a istituzioni ed enti ammonta a 280 mila euro.

Senza voler tornare sui nodi di quella giornata, la fila di coloro per cui la non violenza è l’unica modalità di protesta politica non ci appartiene così come rifiutiamo il legalitarismo e la morale perbenista-reazionaria avulsa dalle contraddizioni reali della società. Ma allo stesso tempo non condividiamo certe azioni e modalità proprie della logica dell’estetica dello scontro fine a sé stesso che spesso nascondono arretratezza sul piano politico che si pensa di superare con la rappresentazione del conflitto alienato dalle masse che non porta all’avanzamento né politico né organizzativo di alcun percorso realmente rivoluzionario e che spesso si risolve in fiammate che non spostano i rapporti di forza a favore della nostra classe a cui segue un reflusso che non scuote il sistema e che gli offre nuovi spazi di manovra con “false alternative” così come di reazione e intensificazione della repressione. Ma non è compito di questo articolo trattare tale argomento superficialmente limitandolo ad una esperienza come quella del 15 Ottobre 2011, esplosione di una rabbia espressione del malessere sociale diffuso in larghi strati della società nel pieno della crisi capitalistica e le sue contraddizioni.

Rogo della ThyssenKrupp, 5-6 Dicembre 2007, Torino

E’ circa l’una di notte tra il 5 e il 6 Dicembre 2007. Siamo sulla linea 5 dell’acciaieria di Torino, di proprietà della ThyssenKrupp, l’azienda più importante a livello europeo nel campo siderurgico. Un incendio, che era considerato di routine su quella linea di lavoro, diventa l’inferno di olio bollente che divorerà, dopo una lenta agonia, dal 7 al 30 di Dicembre la vita di sette operai: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino. Inizialmente l’azienda attribuì agli operai la colpa del fatto verificatosi; oltre al danno la beffa. Con i sopralluoghi, però, si evidenziò che furono una serie di cause a determinare l’incidente: estintori scarichi, telefoni che non potevano comunicare, idranti fuori uso, nessuno che aveva ricevuto una adeguata formazione per arginare questi fenomeni. Insomma, dalla perizia si identificò l’azienda come principale, se non unica, responsabile dell’accaduto. Avendo preferito non investire sulla sicurezza degli operai, per chiare ragioni di profitto, quella tragica notte sette famiglie sono state per sempre distrutte. La ThyssenKrupp, affermava, nei documenti di uno dei suoi dirigenti, che fosse necessario fermare con mezzi legali l’unico operaio sopravvissuto, Antonio Boccuzzi; questo perché avrebbe, si pensava, portato sul banco dei testimoni prove incontrovertibili riguardo alle responsabilità dell’azienda. In un secondo momento, con lo svilupparsi delle indagini, si scoprirono altri aspetti del malfunzionamento e della negligenza nei confronti della sicurezza degli operai da parte dei dirigenti: pulizia degli impianti solo in previsione delle visite dell’Asl, armadietti di sicurezza chiusi col lucchetto che gli operai tentavano di aprire a calci invano, riparazione e manutenzione con il conseguente arresto delle macchine solo se vi era un problema nella produzione, incendi continui su quella dannata linea 5, con l’omertà dei dirigenti che “invitavano” i lavoratori a non premere il tasto di allarme onde evitare pericolose fuoriuscite di notizie. Tutti questi aspetti hanno portato la ThyssenKrupp a risarcire, nel 2008, le famiglie di 13.000.000 di euro, affinché esse non si costituissero parte civile nel processo; esse hanno accettato per una chiara necessità economica di sopravvivenza.

Nel 2011 “l’amministratore delegato della ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, accusato di omicidio volontario, è stato condannato a 16 anni e mezzo di reclusione. Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza, Giuseppe Salerno, responsabile dello stabilimento di Torino, Gerald Priegnitz e Marco Pucci, membri del comitato esecutivo dell’azienda, sono stati condannati a 13 anni e 6 mesi per omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) e omissione delle cautele antinfortunistiche. Daniele Moroni, membro del comitato esecutivo dell’azienda, è stato condannato a 10 anni e 10 mesi.

Nel 2014 “le sezioni unite penali della Cassazione hanno annullato con rinvio le condanne ai manager imputati per il rogo della ThyssenKrupp, che nel dicembre del 2007 uccise sette operai della multinazionale tedesca dell’acciaio mentre lavoravano nello stabilimento subalpino. I giudici supremi hanno confermato la responsabilità degli imputati per omicidio colposo ma hanno annullato una parte della sentenza di appello che riguarda una circostanza aggravante. Il procuratore generale Carlo Destro aveva chiesto la conferma delle pene inflitte in appello per omicidio colposo. Cioè dieci anni di carcere per l’ex amministratore delegato, Harald Espenhahn, e dai nove ai sette anni per i dirigenti Gerald Priegnitz e Marco Pucci, il direttore dello stabilimento Raffaele Salerno, il responsabile dell’area tecnica Daniele Moroni e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. Le pene erano state ridotte rispetto alla sentenza di primo grado, in cui Espenhahn, con una decisione senza precedenti, era stato condannato per omicidio volontario con dolo eventuale. Le pene per gli imputati dovranno essere rideterminate, ma gli avvocati difensori non si sbilanciano sulla loro rideterminazione al rialzo al ribasso.

L’ultima sentenza, della Cassazione, invece, ha lasciato tutti perplessi proprio perché, nel corso dell’iter giudiziario durato 9 anni (sic!), vi è stato un continuo contrattare al ribasso al fine di diminuire estremamente le pene destinate ai dirigenti coinvolti. “La sentenza definitiva condanna Harald Hespenhahn, ex amministratore delegato, a 9 anni e 8 mesi di reclusione, i manager Marco Pucci e Gerald Priegnitz a 6 anni e 3 mesi, Daniele Moroni, membro del comitato esecutivo dell’azienda e unico degli imputati presente in aula alla lettura della sentenza, a 7 anni e 6 mesi, Raffaele Salerno (ex direttore dello stabilimento) a 7 anni e 2 mesi e Cosimo Cafueri, ex responsabile della sicurezza, a 6 anni e 8 mesi.

L’aspetto alquanto tragicomico, nella sentenza della Cassazione, è che i due tedeschi che hanno ricevuto le pene più alte, trovandosi attualmente nel loro paese, ed essendo spiccato per loro il MAE (mandato di cattura europeo), verrebbero arrestati solo nel caso provassero ad uscire dal loro paese; in questo senso saranno le autorità tedesche ad occuparsi di sentenza e provvedimenti; essi stessi potrebbero decidere, in base al loro iter giudiziario, di ridurre ulteriormente una eventuale seconda pena.

Una giustizia di classe

Come si affermava precedentemente, anche se le due vicende appaiono disgiunte tra di loro, ciò che le lega tragicomicamente è proprio il numero massimo della condanna inflitta: 9 anni sia alla persona che viene accusata di aver dato fuoco ad una camionetta dei Carabinieri, sia ad uno dei principali responsabili della morte di 7 operai, della distruzione e del disastro economico e psicologico di 7 famiglie. D’altronde ciò non dovrebbe sorprendere nessuno: ereditiamo a livello di struttura base il codice penale di Rocco, ministro di Mussolini. Questo, ovviamente, non è l’unico motivo per cui si verificano sentenze come le sopracitate. La natura stessa della legge in uno Stato, che ha come classe dominante quella borghese, non può che essere viziata dagli specifici interessi economici e politici generali di questa determinata classe. Tale lato della legge, però, non viene mai fatto notare dai media, nelle scuole, nei tribunali; si preferisce produrre una superficiale coincidenza tra legge e giustizia. Si rende organica la massima ciceroniana “dura lex, sed lex“, ovvero “la legge, nonostante sia dura e rigida, va rispettata in quanto tale”. Il basarsi su un rigido formalismo, in un senso o nell’altro, quando si parla di fatti così diversi dimostra nient’altro che l’arroganza e la funzione repressiva o protettrice della classe dominante della magistratura. Oggi viviamo in una condizione in cui si cerca continuamente di far entrare in testa alla maggior parte delle persone dei ceti popolari che le varie leggi difendono effettivamente i loro diritti. Ciò chiaramente non è vero, poiché la natura classista di questa società tende a precludere qualsiasi reale progresso che leda determinati interessi economici e politici. Dietro chiaramente alla suddetta posizione in cui il diritto è spacciato per amico delle classi popolari si celano i grandi capitali finanziari, i banchieri, gli industriali, gli speculatori. Ancor peggio, la speranza di una presunta giustizia da attuare tramite la legge, oltre che colpire le vittime nei sentimenti e nelle fragilità, le distoglie dalla realtà, fa pensare loro che lo Stato funzioni per tutti, che sia al di sopra degli interessi particolari di classe, che la magistratura sia dalla loro parte. Chiaramente, come dimostrato da queste e centinaia di altre sentenze, ciò non si verifica proprio per la collusione tra Stato di diritto ed interessi economici e politici in una società divisa in classi. La legge, analizzando la storia, può permettere alle classi popolari di ottenere delle rivendicazioni immediate, le quali sulla carta possono essere presenti. Ciò però non implica che quello che è presente a livello legale venga applicato, soprattutto quando si parla di diritti, come ad es. quello di riduzione dell’orario di lavoro, che ledono il profitto della borghesia al potere. Non basta, perciò, la formalizzazione di una legge “amica” dei lavoratori: serve ben altro per ottenere un cambiamento reale delle condizioni attuali e esso si muove sul terreno politico della lotta di classe.

L’unico Stato che sostanzialmente può rendere giustizia reale alle classi popolari è quello socialista. Ciò deriva dal fatto che solo una società dove al potere sono i lavoratori può rendere effettivo il concetto di giustizia. Per rendere effettivo intendiamo il fatto che la giustizia in senso assoluto, come accennato nel corso dello scritto, non esiste; esiste una giustizia che ha una connotazione di classe, che può fare da spada per gli interessi di una classe o dell’altra; una giustizia che può essere dalla parte degli sfruttati, o degli sfruttatori. E per raggiungere questo, per raggiungere l’emancipazione della nostra classe, non esistono vie di mezzo; ciò è sempre più visibile da vicende come questa della ThyssenKrupp, dall’osservazione della realtà in cui siamo immersi, dove si cerca di produrre lo stesso livello di colpevolezza assolutizzando i crimini, esaurendo il contesto in cui si son verificati e le cause che han portato a produrre quel determinato fenomeno.

Chi cerca, ad esempio, di porre sullo stesso piano il padrone che evade miliardi di tasse e il ladruncolo da supermercato sta portando avanti una azione di completa ipocrisia e inganno nei confronti della popolazione lavoratrice, tribunali che condannano ugualmente un padrone che uccide 7 operai e un ragazzo che incendia una camionetta dei carabinieri, rispondono solamente al mantenimento di quello “stato delle cose” che noi non possiamo che abbattere. Lo Stato di diritto è un involucro di legalità per il regime borghese che si basa sullo sfruttamento, la spoliazione, nel succhiare il sangue di milioni di proletari ogni giorno, difendendo con ogni tipo di legittimazione ideologica e coercizione economica, con ogni mezzo repressivo il mantenimento dell’ordine oppressivo al servizio dell’accumulazione dei capitali e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Queste sentenze prese in esempio sono un altro segno di come viviamo in preda sempre di più della barbarie capitalista e che l’unica strada percorribile è quella del cambiamento rivoluzionario, percorrendo la giusta strada con determinate soggettività di classe, determinati livelli politici e organizzativi in grado di incanalare la forza in un grande progetto di cambiamento, che metta in discussione dalle radici questo sistema e che punti a costruire una società nuova fondata sull’uguaglianza sociale e non sul profitto.

Fonti

___________________

15 Ottobre 2011:

http://www.ilmessaggero.it/roma/cronaca/scontri_san_giovanni_indignados-1728096.html

http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/16_maggio_12/scontri-san-giovanni-2011-15-condanne-61-anni-carcere-e898e21e-182d-11e6-a192-aa62c89d5ec1.shtml

http://roma.repubblica.it/cronaca/2016/05/12/news/scontri_a_roma_per_la_giornata_dell_indignazione_quindici_condanne_e_61_anni_di_carcere-139634462/#gallery-slider=23298680

http://www.repubblica.it/politica/2011/10/15/dirette/indignati_proteste_in_tutto_il_mondo_roma_blindata_attese_200mila_persone-23265312/

Rogo ThyssenKrupp:

https://www.youtube.com/watch?v=Ewh1nBO9E3w

http://www.corriere.it/cronache/16_maggio_14/rogo-thyssen-quattro-italiani-condannati-gia-carcere-f799fc16-19d7-11e6-9602-cdda3c4dfb23.shtml

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-05-13/rogo-thyssen-pg-cassazione-annullare-pene-e-nuovo-processo-d-appello-135549.shtml?uuid=ADkRiNH&refresh_ce=1

http://www.ilpost.it/2011/04/16/la-storia-del-rogo-della-thyssenkrupp/

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/24/thyssenkrupp-annullate-con-rinvio-condanne-dei-manager-nuovo-processo/963546/

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