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Risposta al corriere della sera sulla revisione storica nei confronti di Gramsci

Pochi giorni fa la nota testata giornalistica nazionale «Il Corriere della sera» pubblica un articolo dal titolo «Gramsci in cella e in clinica. I paradossi di una prigionia» di Franco Lo Piparo, professore di filosofia all’Università di Palermo, ben conosciuto per le sue dichiarazioni falsificatorie e revisioniste nei confronti del fondatore del Partito Comunista d’Italia. Interessante a riguardo è la pubblicazione del suo libro «I due carceri di Gramsci», in cui emerge una figura del tutto stravolta dello stesso, che con grande fantasia presenta un Gramsci convertito al liberismo durante gli anni di prigionia. Fonte di tutto ciò sarebbe un fantomatico quaderno scomparso (a detta sua fatto sparire da Togliatti) a dimostrazione del cambio di rotta della sua coscienza politica. Per comprendere il livello della polemica riproposta da questo articolo basti pensare che già dopo l’uscita del libercolo ci fu un ampio dibattito e la “semplice” ricerca storica ribadì, con grande scorno di tutti i revisionisti, che non esisteva nessun quaderno scomparso. Fu costretto ad ammetterlo lo stesso autore: «Nel libro sostenevo (e ho continuato a sostenere in interventi giornalistici) – ammette invece ora – che la numerazione di Tania tramandataci saltava da XXXI a XXXIII senza individuare un quaderno XXXII. Il salto non c’è»1

Nonostante tutto, l’autore persiste con tale linea nelle pubblicazioni in diversi giornali nazionali, che non perdono occasione per propagandare posizioni del genere, già ampiamente sbugiardate. Ma come purtroppo sappiamo, è il lancio della notizia che conta, l’impatto immediato che esso suscita nel lettore, molto di più che una breve rettifica anni dopo.

L’articolo vorrebbe far passare Gramsci come ospite di una clinica prestigiosa e quindi circondato di lussi e privilegi. Un insulto alla memoria di chi in quegli anni visse sulla propria pelle gli orrori del carcere fascista e che dovette subire un vero e proprio assassinio scientifico sulla propria pelle. La clinica in questione lo prese in custodia negli ultimi mesi di vita (quando le sue condizioni di salute in carcere si erano notevolmente aggravate), senza che venissero ammorbiditi i controlli e migliorato il suo stato di detenuto dopo quasi dieci anni di isolamento, torture ed intimidazioni. E’ davvero impensabile che per l’impossibilità, a detta di Lo Piparo, di reperire personale di sicurezza che vigilasse la clinica e i suoi ospiti, si fosse allentato anche il controllo di regime sul «cervello che non deve funzionare». Il quadro che dunque la storia fornisce non è quella di un privilegiato rispetto agli altri detenuti, ma di un prigioniero politico a tutti gli effetti. Lo Piparo, quasi giustificando le manovre repressive del governo Mussolini e della «giustizia» fascista, spiega come le accuse di attentato alla sicurezza dello Stato siano punibili severamente anche negli stati liberal-democratici con un rigido controllo su ciò che il detenuto scrive. Posizione non del tutto errata se non fosse per il fatto che da comunisti noi guardiamo alla giustizia borghese come strumento nelle mani della classe dominante, che anche durante il fascismo seguiva la stessa logica senza una infiocchettata cornice liberale. L’autore non si limita a questo, afferma che l’allora capo del governo Benito Mussolini, quasi in piena magnanimità, permettesse al detenuto di dedicarsi senza alcun controllo alla scrittura anche per fini politici. Questa posizione chiaramente falsa vuole porre l’evidenza su una sorta di fascismo benevolo nei confronti dei nemici del governo è la prova della bassezza politica con cui Lo Piparo si pone nei confronti di chi è divenuto simbolo dell’antifascismo militante. Numerose potrebbero essere le smentite a questa tesi, già di per se ridicola, ma ne riportiamo soltanto una a titolo esemplificativo:

«Per questo la mia coabitazione con Gramsci creò per la direzione un caso “difficile” che sbrigativamente fu risolto ritirandogli l’autorizzazione a scrivere, con immaginabile disappunto di Gramsci. [..]Solo dopo qualche settimana in un colloquio che egli ebbe con il direttore, fu raggiunto un compromesso: avrebbe avuto a sua disposizione l’occorrente per scrivere per sole due ore al giorno. Da quel momento, a sua richiesta, la guardia della sezione gli consegnava tutto e dopo due ore ripassava a ritirarlo2

A Gramsci era appena concesso di scrivere ai propri cari per informarli del suo stato, lettere che comunque erano sottoposte ad una ferrea censura; laddove veniva sospettato di propaganda politica, la sua abilità emerge nello sfruttare le lettere per inviare messaggi in codice ai militanti del Partito Comunista ridotti in clandestinità.

La manovra deformante dell’immagine del compagno si pone in parallelo con l’intento, già affrontato in due articoli dal Segretario Nazionale del FGC Alessandro Mustillo, (“Lotta alla doppia revisione” qui e qui), di ridurlo a icona borghese e/o ad idealista filosofico, svuotato della sua funzione rivoluzionaria. In risposta a quanto riportato nell’articolo al Corriere della Sera, nel quale viene riportata uno stralcio della lettera del 31 settembre 1931 di Gramsci alla madre sulle condizioni di detenuto in cui è costretto (che a leggere quello stralcio sembra non essere dispiaciuto della sua sistemazione), riportiamo una ulteriore lettera del prigioniero in data 29 agosto 1932 a Tatiana, sua cognata:

«sono giunto a un punto tale che le mie forze di resistenza stanno per crollare completamente, non so con quali conseguenze. In questi giorni mi sento così male come non sono mai stato; da più di 8 giorni non dormo più di tre quarti d’ora a notte e intere notti non chiudo occhio» – continua – « il complesso dell’esistenza diventa insopportabile e qualunque via d’uscita, anche la più pericolosa e accidentata diventa preferibile alla continuazione dello stato presente».

Altra lettera a Tatiana, questa del 14 marzo 1933: «Proprio martedì scorso, di primo mattino, mentre mi levavo dal letto, caddi a terra senza più riuscire a levarmi con mezzi miei. Sono sempre stato a letto tutti questi giorni, con molta debolezza. Il primo giorno sono stato con un certo stato di allucinazione, se così si può dire, e non riuscivo a connettere idee con idee e idee con parole appropriate. Sono ancora debole […]» .

Da questi trafiletti e dalle seguenti vicende che vedranno Gramsci costretto, per problemi della sua condizione di salute (soffriva del morbo di Pott, di arteriosclerosi, di ipertensione e di gotta), ad essere trasferito in clinica, si smentisce l’ipotesi di un carcerato benestante nella propria cella. Il professor Arcangeli, che visitò Gramsci a Turi nel marzo 1933, rilasciò la seguente dichiarazione:

«Io sotto-scritto attesto che Antonio Gramsci, detenuto a Turi, è sofferente di male di Pott; egli ha delle lesioni tubercolari al lobo superiore del polmone destro, che hanno provocato due emottisi […]; egli è attaccato d’arterio-sclerosi con ipertensione delle arterie. Egli ha avuto svenimenti con perdita della conoscenza e parafasia che hanno durato parecchi giorni. Dal mese di ottobre 1932 egli è diminuito di sette chili; egli soffre d’insonnia e non è più in grado di scrivere come nel passato. Gramsci non potrà lungamente sopravvivere nelle condizioni attuali. Io considero come necessario il suo trasferimento in un ospedale civile o in una clinica a meno che non sia possibile accordargli la libertà condizionale. In fede di ciò: Umberto Arcangeli»3

Questo provvedimento arriverà ben diciannove mesi dopo questo drammatico certificato medico, solo nell’ottobre del 1934 e il ricovero alla clinica Quisisana nel giugno del 1935.

Quale “villeggiatura” adombra lo scrivano dell’articolo? Addirittura la notizia della sospensione delle misure di sicurezza legate alla libertà condizionale fu portata da Tania a Gramsci il 25 aprile 1937, il giorno stesso della crisi finale che lo condusse alla morte!

Lo Piparo conclude spiegando come i tempi, a seguito del crollo del muro di Berlino, siano maturi per osservare gli eventi senza dogmatismo ideologico. Ma la storia che si appresta a descrivere il professore è una storia asservita agli interessi di chi dalla soppressione della memoria del comunismo ha tutto da guadagnare: favorire l’idea di un Gramsci prima rinnegatore del marxismo, poi privilegiato e infine icona borghese, è il tentativo di gettare nel dimenticatoio l’opera rivoluzionaria di chi per i comunisti è simbolo di lotta al fascismo, dell’antirevisionismo e dell’intellettuale militante. Non tolleriamo sbeffeggiamenti e mistificazioni all’opera di resistenza quale è stata la vita del compagno Antonio Gramsci.

Ma si sa che di questi tempi fa comodo. In un contesto nazionale e internazionale avvolto da una crisi capitalistica permanente, la classe dominante sta operando in tutti i rami della cultura per smembrare ogni opposizione mentale e reale alla situazione attuale. I modelli culturali vigenti che tanto si propagandano e che vengono inconsciamente o consciamente assimilati dalle classi subalterne sono tutti e senza eccezione alcuna anti-comunisti nella loro intima essenza. Per quanto riguarda Gramsci, la cui vita e opera, come si è visto, vengono stravolti e dati in pasto al popolo senza alcun ritegno e anzi andando contro la verità storica, sarebbe opportuno anche non dimenticare che vi sono curiosi fenomeni portati avanti da una certa sinistra radicale o apertamente filo-PD che di questa cultura e di questo sistema socio-economico sono i più grandi sostenitori. Si vede spesso, per esempio, estrapolare frasi di Gramsci scevre da ogni qualsivoglia comprensione del contesto in cui vennero fatte per sostenere battaglie politiche tra l’altro aliene da ogni loro connotazione di classe; è inoltre possibile osservare che sono molte le iniziative in ambito accademico, oppure in ambito prettamente politico, volte ad “omaggiare” la sua figura, sotto la bandiera dell’antifascismo che è però solo un antifascismo di facciata, condito di becero revisionismo. Il fine ultimo, in ogni caso, dalla più piccola alla più grande utilizzazione maldestra di questo grandissimo marxista-leninista, è sempre quello semplicemente di snaturare il suo pensiero rivoluzionario e anzi ergendolo spesso a ideatore del “welfare state”, della giustizia sociale intesa in senso lato. Ciò non può essere più lontano dal vero.

È curioso far notare che la maggior parte (se non tutti) dei moderni accademici che trattano di Gramsci ne avrebbero avuto la sua inequivocabile condanna sotto ogni qualsivoglia aspetto, non ultimo dall’ineluttabile binomio che deve caratterizzare un intellettuale: l’unione tra il pensiero razionale e la pratica (praxis). Nel migliore dei casi senza di ciò si è buoni dipendenti e buoni ideologhi del potere borghese: sì, ideologhi, perché non è solo il proletariato che ha fatto uso (e ne fa ancora uso nonostante le avverse circostanze) dell’ideologia come strumento di lotta nel conflitto di classe, ma è in primo luogo la borghesia che la utilizza. Nel caso del signor Lo Piparo e del suddetto articolo, sotto la falsa battaglia della lotta all’ideologia come giustificazione del presente, si ha avuto al contrario una dimostrazione lampante dell’ideologia capitalistica vigente sotto forma di un eruditismo da quattro soldi. Ma provate a parlare ad un borghese di egemonia culturale, di lotta tra le classi, oppure ad un radicale della moderna “sinistra” di disciplina di classe, di auto-disciplina, di Partito, di gerarchia: peggio che se morsi da una tarantola. Ti parleranno della morte dell’ideologia, dell’imparzialità della storia, delle bellezze del liberalismo!

È divertente far notare che mentre Gramsci viene utilizzato così maldestramente qui in Italia, esso viene invece studiato per i suoi contributi fondamentali alle scienze politiche, sociologiche, antropologiche, economiche, in altri continenti, come ad esempio in Sud America oppure in India.

La riappropriazione da parte dei proletari del pensiero di Gramsci, della sua opera storica, è premessa fondamentale nel processo di ricostruzione comunista in Italia, fuori da ogni opportunismo e revisionismo.

È inaccettabile che sia la borghesia a farne uso e consumo per i propri interessi. Gramsci deve stare dove è il suo posto: nel cuore e nella mente degli oppressi di ogni continente. Oltre le bugie dei cattolici, che ne fanno un convertito dell’ultima ora; oltre alle manipolazioni di revisionisti e borghesi, che ne fanno un rinnegato del comunismo in rottura con l’URSS di Stalin, con il Partito, anzi perfino una vittima del comunismo! Sono tutte calunnie e falsità, comprovate del resto dalle sue stesse parole e dai suoi stessi scritti, come noi (e non solo noi) abbiamo già dimostrato più volte. Gramsci si erge nel pantheon della classe operaia al pari di altri leader che hanno subito la repressione ed il carcere fascista, primi fra tutti Thalmann e Rakosi, e come tale va rispettato, onorato: ma non passivamente, nelle grigie aule di studio o in pomposi intellettualismi, bensì nella ferrea legge della lotta pratica, dell’organizzazione di classe e in ultima analisi della creazione della coscienza di classe.

Note
______________________

1http://www.centrogramsci.it/articoli/pdf/giacomini.pdf

2G. TROMBETTI, “Piantone” di Gramsci cit., p. 32

3A. GRAMSCI, “Lettere dal carcere” cit., p. 763, nota

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