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Sfruttamento e minacce, così si lavora nei ristoranti di Torino

Pubblichiamo di seguito la lettera di un cameriere e un aiuto cuoco, entrambi colleghi in un ristorante torinese, che hanno scelto il nostro giornale come megafono per denunciare le loro condizioni lavorative e il mobbing psicologico a cui sono sottoposti quotidianamente. Abbiamo volutamente censurato i loro nomi per evitare possibili ritorsioni ai danni dei due ragazzi.

Siamo M. Rossi e L. Bianchi, due ragazzi di 26 e 23 anni, e lavoriamo in uno dei tanti ristoranti a Torino. Ci è capitato di leggere recentemente l’appello di un giovane cameriere, che denunciava la sua condizione lavorativa e lo sfruttamento che vive quotidianamente sulla sua pelle. Da questa testimonianza vogliamo trarre coraggio per raccontare un’altra storia, fatta di orari massacranti e mobbing psicologico. Una storia in cui potrebbe rivedersi qualsiasi giovane che fa o non fa il nostro stesso lavoro.

Noi due lavoriamo nello stesso ristorante a Torino. Facciamo orario spezzato, la mattina dalle 10 fino alle 15.30, la sera dalle 18 fino a mezzanotte (a volte l’una). Lavoriamo sette giorni su sette, senza alcun giorno di riposo tranne una o due mezze giornate. Non possiamo assentarci per alcun motivo; nessuna pausa effettiva, solamente lavoro, lavoro, lavoro; il tutto per neanche 800 euro al mese. Diciamo neanche perché, anche se settimanalmente dovremmo ricevere una parte del salario totale, effettivamente ci vengono continuamente consegnati acconti su acconti; in questa situazione ci sentiamo chiaramente impotenti, anche perché nessuno di noi ha firmato un regolare contratto. In tal modo, lavorando in maniera massacrante, veniamo pagati meno di 2 euro l’ora, per un minimo di 11 ore al giorno di lavoro. Se parliamo, inoltre, di aperture straordinarie, esse non ci vengono retribuite, in quanto secondo il padrone fanno parte del nostro “dovere”.

A tutta questa enorme mole di sfruttamento e di lavoro, ci si aggiunge l’arroganza e il mobbing psicologico; più volte siamo stati minacciati dal padrone; sosteneva che ci avrebbe resi disabili a forza di botte, che lui è un ex criminale, che ci avrebbe ucciso, e che, (testuali parole) anche se fosse finito in carcere, ne sarebbe stato contento di modo da farsi seghe tutto il giorno; tutto ciò perché magari manca un determinato prodotto della spesa giornaliera. Spesa che noi appuntiamo minuziosamente ma che poi lui dimentica di procurarci. Veniamo spesso appellati come “froci”, “deficienti”, subendo umiliazioni di fronte ai clienti e fornitori. Oltre al danno, anche la beffa.

Inoltre il padrone non vuole in alcun modo che si stringano rapporti tra colleghi; al contrario semina zizzania raccontando falsità per far vivere tutti quanti noi in un clima di terrore e di sfiducia nei confronti dei colleghi. Tale clima è comprensibile dal fatto che negli ultimi due mesi se ne sono andate sei persone, licenziate o che si sono dimesse per esasperazione.

Ed è proprio sulla perdita del posto di lavoro che lui cerca di far leva per spaventarci, salvo poi avere tremendo bisogno di noi in quanto incapace di fare anche la più banale delle cose. Certi atteggiamenti sono dovuti anche alla sua “sana” abitudine di farsi di cocaina mentre noi lavoriamo; ma questo non è diverso rispetto al trend generico dei padroni dei vari ristoranti e locali.

Non scriviamo questa lettera per piangerci addosso o solo con lo scopo di denunciare; la scriviamo perché noi lavoratori sentiamo la necessità di organizzarci, al fine di fare qualcosa di concreto con cui ottenere migliori condizioni salariali e contrattuali, senza retorica e senza piagnistei. Siamo inoltre consci che la nostra professionalità e la nostra forza vanno al di là delle minacce che il padrone può farci. Scriviamo tutto ciò per fare in modo che altri camerieri, baristi, cuochi, lavapiatti ecc lottino e si organizzino con noi. Per quello chiediamo a chi vuole unirsi alla lotta di scrivere al giornale Senza Tregua e raccontarci la sua storia. Solo uniti si può vincere. Non ci piegheremo.

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