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In memoria dei fratelli Cervi, una riflessione per il nostro tempo

*di Emanuele Cotti e Sebastian Pelli (FGC – Reggio Emilia)

28 dicembre 1943. Settantaquattro anni fa i sette fratelli Cervi (Gelindo, Antenore, Ferdinando, Aldo, Agostino, Ettore ed Ovidio) furono fucilati a Reggio Emilia, assieme a Quarto Camurri, da un plotone d’esecuzione fascista.

Antifascisti convinti, i Cervi fecero della loro dimora un vero e proprio rifugio politico: ribelli provenienti da tutto il mondo, che combatterono l’invasione nazifascista, furono accolti presso la loro casa. I repubblichini, invece, ci videro il loro primo nemico organizzato, non solo per il pieno supporto alla resistenza armata, ma anche per la grande autonomia intellettuale: nel 1934 i Cervi aprirono una biblioteca popolare, con lo scopo di difendersi dallo sfruttamento, e di dare l’opportunità a tutti di essere veramente liberi, promuovendo un’autonomia intellettuale e lavorativa che minacciava fortemente il totalitarismo fascista. Erano padroni delle proprie idee e del proprio lavoro.

Pian piano tutta la famiglia intraprese la strada della resistenza. A partire da Aldo che, processato per insubordinazione sotto le armi, legge in carcere il Manifesto di Engels e Marx, e così ne abbraccia le idee comuniste. Dai volantini alla lotta all’ammasso, casa Cervi divenne sempre più iconica per i comunisti antifascisti del tempo. Con l’esponenziale sviluppo della casa, i Cervi, che si mostrarono all’avanguardia sia dal punto di vista agrario che intellettuale, accrebbero anche le antipatie delle autorità. I fratelli Aldo, Gelindo e Ferdinando furono, alla fine degli anni ’30, oggetto di provvedimenti restrittivi e segnalazioni.

La “banda Cervi”, ormai simbolo d’avanguardia degli antifascisti, riuscì a far fronte ai fascisti per diverse settimane, ma nel 1943 fu costretta ad arrendersi. La notte tra il 24 e il 25 novembre, quasi un mese prima dell’esecuzione, i Cervi e gli altri membri della banda furono sorpresi dai fascisti. Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblicana composto da un centinaio di uomini circondò l’abitazione dei Cervi, ordinando di deporre le armi e di consegnare i rifugiati.

La banda Cervi tentò di far resistenza, rispondendo al fuoco, ma fu costretta a consegnarsi quando i fascisti appiccarono fuoco all’abitazione, gettando in fumo anni e anni di lavoro della famiglia, distruggendo quello che era stato il simbolo della loro fatica, della loro indipendenza, e soprattutto mettendo a rischio la vita di tutti gli abitanti, compresi donne e bambini. I Cervi si arresero e un mese dopo, il 28 dicembre, furono fucilati. Il 31 dicembre, nella notte di Capodanno, era stata programmata la loro liberazione.

Ricordare, settantaquattro anni dopo, l’eccidio di quei giovani “ribelli, sediziosi e comunisti” è un dovere, ma anche una responsabilità. Ricordare i Cervi significa lottare perché la tragedia del fascismo non si ripeta più. Significa in primo luogo lottare affinché le forze neofasciste, che oggi si presentano come “rivoluzionarie” ma vengono continuamente legittimate da un sistema che ne è complice, non trovino terreno fertile nei quartieri e nei luoghi sociali, dalle scuole ai luoghi di lavoro.

Ricordare i Cervi significa certamente essere antifascisti. Ma quello che dobbiamo chiederci è: in che modo essere antifascisti oggi, in una fase in cui il fascismo si presenta come l’alternativa, costruendo il suo consenso a partire dalla rabbia dei quartieri popolari, da un sentimento di rifiuto delle politiche di attacco ai diritti dei governi di centro-destra e centro-sinistra? La risposta è che non basta parlare in generale di “attivismo” e partecipazione come argine al fascismo, tantomeno se quest’attività è concepita, come molti fanno, unicamente in termine di argine all’avanzata del fascismo. Un argomento, tra l’altro, che è spesso stato utilizzato proprio per giustificare la compromissione con le forze responsabili delle peggiori politiche antipopolari contro i lavoratori e la gioventù.

L’unico argine all’avanzata delle forze neofasciste oggi sono i comunisti. Lo sono in primo luogo perché portatori della reale alternativa al sistema responsabile del massacro sociale, di cui l’estrema destra, che oggi fomenta guerre fra poveri ricorrendo alla xenofobia e al razzismo, è complice più che avversaria. Fra tutti gli esempi che ci danno i fratelli Cervi, uno è particolarmente importante e attuale. Casa Cervi divenne una fucina di lotta e di antifascismo, un presidio aperto a chiunque decidesse di lottare contro l’ingiustizia. Nella loro casa, così come nella biblioteca, nella loro terra, i fratelli Cervi, giovani comunisti e antifascisti, furono punti di riferimento per chi gli stava attorno, riconosciuti per questo come gli interpreti di quella lotta contro lo sfruttamento che si rendeva sempre più necessaria.

Questo oggi devono essere i comunisti, ed è questo il più grande argine che possiamo costruire alle forze neofasciste, che avanzano proprio dove i comunisti rinunciano a esercitare questo ruolo. Il fascismo non si combatte con leggi che ne impediscono la propaganda, peraltro scritte dagli autori stessi del massacro sociale e funzionali a racimolare consenso a sinistra. Si sconfigge costruendo una presenza comunista in ogni quartiere, in ogni luogo di studio e di lavoro, capace di intercettare la rabbia e il sentimento di rivalsa, che oggi vengono intercettati dalle forze di estrema destra, orientandoli verso una prospettiva rivoluzionaria. Questa è la più grande lezione dei fratelli Cervi che oggi dobbiamo fare nostra.

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