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Per riflettere su Peppino Impastato e la lotta alla mafia, oltre la canonizzazione

Ricorrono oggi i 40 anni dall’assassinio di Peppino Impastato. La figura di Peppino, figlio di una famiglia mafiosa che sposa le idee rivoluzionarie dei comunisti e finisce assassinato proprio dalla mafia, è tornata alla ribalta negli ultimi anni, dopo un lungo periodo di oblio. E come accade a molte figure, la “canonizzazione” va di pari passo con lo svuotamento del contenuto rivoluzionario delle idee per cui in vita si è battuto.

Peppino Impastato era un comunista.  Un militante che lottava per una società diversa, libera dallo sfruttamento, in cui l’opposizione alla mafia andava di pari passo con quella contro lo sfruttamento. E non avrebbe potuto essere altrimenti per chi, nato nella provincia siciliana, ben conosceva la ragione economica del profitto che tiene unita l’organizzazione mafiosa, il legame dei mafiosi con il latifondo e i grandi capitalisti, che arrivava in alto coinvolgendo i principali settori della borghesia italiana e – è ormai cosa nota – della Democrazia Cristiana, partito che per 40 anni ha governato l’Italia.

La storia di Peppino Impastato, cioè di un militante comunista icona dell’antimafia, può essere considerata un caso “unico” solo rimuovendo dalle coscienze la storia delle lotte di classe del nostro paese, nel quale la mafia è sempre stata saldamente schierata dal lato dei padroni e – viceversa – la lotta contro la mafia ha sempre avuto, almeno fino agli ultimi decenni, un carattere di classe.

La mafia, non solo come organizzazione criminale ma anche e soprattutto come organizzazione capace di esercitare un potere extra-legale, è una costante nella storia dell’Italia unita. O meglio, è una costante la saldatura fra la mafia e i settori dominanti della borghesia italiana. Già a cavallo fra ‘800 e ‘900 sono decine gli scioperi contadini repressi dai campieri mafiosi, al servizio dei grandi latifondisti, così come è nota l’alleanza, nell’Italia meridionale, fra le squadracce fasciste della prima ora e le organizzazioni criminali nei primi anni ‘20. I mafiosi erano al fianco delle squadracce nel reprimere le lotte operaie e contadine. Con la nascita della Repubblica e il “pericolo” che per i padroni era rappresentato dal PCI, la mafia si tramuta, assieme alle truppe americane, a Gladio, ai settori deviati dei servizi segreti, in uno dei pilastri posti a “garanzia” della conservazione del potere borghese e della fedeltà dell’Italia al blocco occidentale nel contesto Guerra Fredda. La strage di Portella della Ginestra, dove la mafia sparò sulla folla il 1° Maggio 1947 causando 14 morti per “punire” la vittoria del PCI alle elezioni locali, fu una delle tante stragi impunite, segretamente tollerate da un sistema che aveva reclutato anche le organizzazioni criminali pur di difendere i propri interessi.

In un contesto del genere, come faceva l’antimafia a non essere parte integrante della lotta di classe? Oggi nelle scuole si parla tanto di legalità e si riduce la lotta contro la mafia alla lotta per la legalità, ma questa è una novità degli ultimi decenni. È il prodotto della istituzionalizzazione dell’antimafia, che inizia a cavallo fra gli anni ’70 e gli anni ’80, quando una serie di processi (non ultima la crescita economica delle organizzazioni mafiose, il loro ingresso nel mondo della finanza, la competizione sempre maggiore delle aziende mafiose con quelle della restante parte della borghesia italiana) provocano il conflitto aperto fra lo Stato e la mafia. Saranno gli anni dell’omicidio del Generale Dalla Chiesa, di Falcone e Borsellino ecc. È solo dopo questa fase che lo Stato inizia a inculcare l’idea dell’educazione all’antimafia delle nuove generazioni, del “rispetto della legge” e delle istituzioni come chiave di volta della lotta contro la mafia.

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Inutile dire che non è sempre stato così. È significativo il titolo che il Corriere della Sera dedicava a Peppino Impastato l’indomani della scoperta della sua morte: “Ultrà di sinistra dilaniato dalla sua bomba sul binario”. Era questo il trattamento riservato a chi, ai tempi di Peppino, lottava contro la mafia nell’Italia della DC. È solo nel nuovo contesto di oggi che la figura di Peppino Impastato, prima dimenticata e addirittura derisa, viene “canonizzata” a patto di svuotarla del suo reale significato e del suo esempio.

Ma se oggi si dipinge un Peppino “innocuo” e sognatore che combatteva la mafia decantando “la bellezza”, la realtà materiale non cambia. La mafia di oggi è un prodotto della società borghese. È un’organizzazione capitalistica che si distingue dalle altre per la sua capacità di avere un controllo del territorio, di imporre un suo sistema di regole e norme facendole rispettare con l’utilizzo della violenza, anche contro lo Stato, sebbene la convergenza di interessi con i settori dominanti della borghesia italiana può portare, in alcuni momenti storici, all’affievolirsi del conflitto con lo Stato.

Questa realtà non cambia, e non può essere modificata da nessun tipo di mistificazione. Ed è per questo che il più grande esempio di Peppino Impastato alle nuove generazioni non è quello del decantatore della “bellezza”, ma quello del rivoluzionario e militante comunista, che lottava contro la mafia e i padroni, per una società libera dall’ingiustizia del profitto e dallo sfruttamento, nella quale non ci fosse più posto per la mafia. Questo è l’unico modo per vincere la lotta contro la mafia.

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