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Decreto sicurezza: una legge contro le classi popolari

*di Enrico Bilardo e Antonio Viteritti

Il 28 novembre scorso il “Decreto Sicurezza” è diventato legge. L’atto a firma del Ministro degli Interni Matteo Salvini rappresenta probabilmente il provvedimento su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione mediatica in questi primi mesi di Governo giallo-verde.

Questo decreto risponde principalmente a due logiche: la propaganda “securitaria”, secondo cui in Italia ci sarebbe una mancanza di sicurezza, che a sua volta viene attribuita all’immigrazione, e la crescente repressione dei ceti popolari proprio con il pretesto della sicurezza e del controllo dei flussi migratori. Il nuovo decreto, infatti, apparentemente sembra colpire gli immigrati, mentre contiene un attacco indiscriminato a tutte le classi popolari.

Nei giorni scorsi l’attenzione mediatica è tornata prepotentemente sul decreto a seguito della decisione del sindaco di Palermo Orlando di violarlo, permettendo la registrazione all’anagrafe di diversi rifugiati. Il dibattito si è poi acceso ulteriormente a causa della contrapposizione tra vari sindaci di comuni italiani e il Ministro Salvini a riguardo dell’apertura dei porti, per garantire il salvataggio di 49 persone, rimaste per giorni abbandonate in mare dal Governo italiano e dall’Unione Europea.

I 40 articoli del decreto vanno a incidere profondamente su una serie di questioni. Prima di analizzarle sono necessarie delle premesse. La ratio di fondo del decreto si pone in piena continuità con quella del recente decreto Minniti, prodotto dal centro-sinistra nella sua ultima esperienza di governo. La prospettiva è quella della lotta al “degrado”. Nel gergo della propaganda “securitaria”, contrastare il degrado vuol dire scagliarsi in maniera repressiva e poliziesca contro le manifestazioni esteriori del disagio sociale, senza minimamente andarne a colpire le cause. Vuol dire combattere i poveri, ma non la povertà. Vi è poi un’assimilazione arbitraria tra la questione dell’immigrazione e quella della sicurezza.

Un’assimilazione funzionale alle classi dominanti, che mirano ad addossare sugli immigrati la causa della crisi, incentivando il conflitto con i ceti popolari autoctoni e distogliendoli dalle reali cause del disagio sociale: le politiche dell’Unione Europea e dell’attuale Governo, che si pone in continuità con i precedenti. Arrivati ormai alla fine del 2018 il bilancio delle morti sul lavoro è nuovamente tragico: 1046 lavoratori deceduti sul posto di lavoro. Questa strage passa puntualmente sotto silenzio, una “questione sicurezza” evidentemente di serie B per il governo giallo-verde. Siamo dinnanzi a un provvedimento che quindi va a incidere moltissimo sull’immaginario e l’apparenza, ma che difficilmente può essere effettivamente risolutivo delle vere criticità.

Alla luce di tali premesse possiamo costruire un quadro più coerente del decreto.

La prima parte del decreto si concentra sulle questioni legate all’immigrazione. L’elemento centrale è sicuramente rappresentato dalla cancellazione del permesso di soggiorno umanitario, destinato a coloro in grado di dimostrare la provenienza da una grave situazione di crisi umanitaria. Il permesso, di durata biennale, permetteva l’accesso al servizio sanitario e a percorsi di inclusione sociale.

Il permesso di soggiorno umanitario viene sostituito da 5 particolari permessi temporanei, alcuni dei quali rinnovabili, legati a specifiche motivazioni: 1) permesso “per protezione sociale” (1 anno rinnovabile); 2) “per calamità naturali” (6 mesi rinnovabile); 3) “per casi speciali”; 4) “per cure mediche” (1 anno rinnovabile), 5) “per atti di particolare valore civile” (solo su indicazione del Ministero dell’Interno dopo specifica richiesta di un prefetto).

La soppressione di questo permesso rischia di spedire in un vero e proprio limbo migliaia di immigrati che prima potevano usufruirne (le stime oscillano tra i 100.000 e 140.000). Queste persone resteranno senza un permesso di soggiorno, e nella condizione materiale di non poter essere nemmeno rimpatriate.

Infatti, al netto della narrazione di Salvini su un maggiore impegno per i rimpatri, per i prossimi tre anni i fondi destinati alle procedure di rimpatrio saranno incrementati di appena 3 milioni e mezzo. Una cifra di natura prettamente simbolica, utile semplicemente al Ministro per fini propagandistici. Per procedere ai rimpatri, oltre ai fondi, servirebbero gli accordi con i paesi di origine che, nei pochi casi in cui sono presenti, non permettono comunque la concretizzazione delle promesse leghiste di espulsione coatta. La Tunisia, per esempio, acconsente appena a 40 rimpatri settimanali. Salvini mente sapendo di mentire cercando di giocare sull’immaginario collettivo per aumentare i propri consensi.

Oltre 100.000 persone quindi saranno prive di alcun riconoscimento e non potranno nemmeno essere rimpatriate. Ciò alimenterà situazioni di sfruttamento del lavoro nero, offrendo delle masse ancor più ricattabili al caporalato o, ancor peggio, alla criminalità organizzata. Probabilmente aumenteranno anche situazioni assurde come quelle delle tendopoli nella piana di Gioia Tauro, dove, in mancanza di alternative, migliaia di persone sono costrette a vivere in condizioni a dir poco precarie, in cui persino accendere un fuoco per riscaldarsi diventa potenzialmente un pericolo mortale.

Va aggiunto che i permessi di soggiorno previsti dal decreto potranno essere revocati, con annesso ordine di lasciare il territorio italiano, in caso di condanna di primo grado per una serie di reati. Un elemento da non sottovalutare. Fra questi spiccano una serie di reati frequentemente imputati, spesso in modo fortemente pretestuoso, a chi partecipa a uno sciopero o a una protesta. Moltissimi lavoratori stranieri a fronte di tale norma potrebbero rinunciare a partecipare a momenti di lotta, per il timore di perdere anche le poche briciole di diritti ottenute dopo innumerevoli sacrifici. Ciò, specie in determinati settori come la logistica, potrebbe portare a un indebolimento complessivo delle lotte dei lavoratori e ad ulteriori divisioni interne tra lavoratori autoctoni e non, estremamente funzionali ai settori padronali.

Vi è poi un’ampia parte del decreto dedicata a una riforma del sistema di accoglienza. Il Governo ha espresso la volontà di colpire, tramite questi cambiamenti, coloro che in questi anni hanno trovato nell’accoglienza una fonte di profitto (molti ricorderanno le famose intercettazioni legate a Mafia Capitale). Peccato che, anche in questo caso, le azioni vadano in direzione contraria ai proclami. Viene innanzitutto raddoppiato il tempo massimo di permanenza nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, da 90 a 180 giorni, con la possibilità di trattenervi i richiedenti asilo in attesa dell’identificazione. Si tende al “superamento” del sistema SPRAR, centri di accoglienza gestiti dai Comuni che verranno riservati solo ai titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati. I richiedenti asilo saranno destinati perlopiù ai grandi centri, come i CARA e i CAS, generalmente gestiti da cooperative private. Ovviamente questi grandi centri sono quelli che, per ragioni strutturali, lasciano più spazio a degenerazioni, fenomeni corruttivi e margini di profitto, rendendosi protagonisti dei vari scandali a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Nessuna lotta a corruzione e fenomeni degenerativi nell’accoglienza, con il rischio che a farne le spese siano principalmente gli operatori sociali che lavorano in tali realtà. Parliamo di 18mila lavoratori che spesso vivono condizioni già molto precarie, con ritardi costanti nei pagamenti e un livello pressoché nullo di tutela sindacale.

Vengono poi drasticamente tagliati i fondi destinati all’insegnamento della lingua italiana e ai percorsi di integrazione. Si assisterà così a un vero e proprio processo di ghettizzazione internamente a questi grandi centri, decisamente strumentale ad alimentare la logica di guerra tra poveri che torna tanto comoda ai padroni nostrani, che dalla divisione tra subalterni hanno solo da guadagnare.

Si passa poi alla parte del decreto in cui si esprime a pieno l’attacco generalizzato ai lavoratori e ai settori di maggiore conflittualità nel paese, come la lotta per la casa o dei settori della logistica, da parte del Governo. L’occupazione di fabbriche e terreni potrà essere punita con la reclusione. Fino a 4 anni per chi organizza e fino a 2 per chi occupa materialmente gli immobili. Discorso che si estende anche alle occupazioni abitative.

Una vera e propria stretta repressiva finalizzata a stroncare sul nascere qualsiasi focolare di conflittualità. Si cerca di cancellare la lotta per i propri diritti a un lavoro dignitoso e ad un tetto come orizzonte per i lavoratori, che siano italiani o meno. Ciò viene fatto mentre tali diritti vengono sempre più smantellati, con una sempre maggiore precarizzazione del mondo del lavoro e l’assenza ormai decennale di politiche abitative, mentre palazzinari, grandi imprese, enti ecclesiastici, gruppi bancari, finanziari e assicurativi continuano indisturbati a speculare su centinaia di migliaia di immobili sfitti.

Si reintroduce il reato di blocco stradale, precedentemente depenalizzato. Viene prevista una pena da 2 a 6 anni, che può arrivare a 12 nel caso degli organizzatori, colpendo una pratica storicamente diffusa nelle lotte del movimento operaio. Il DASPO urbano, introdotto dal Decreto Minniti, verrà esteso, coinvolgendo anche ospedali e presidi sanitari, in caso di generici “disturbi all’ordine pubblico”, a qualsiasi manifestazione considerata “non autorizzata”.

Per quanto riguarda la lotta alla mafia, che il Ministro dell’Interno afferma di voler portare avanti in pochi mesi (o “al massimo anni”, per fare della facile ironia), non vi sono sostanziali novità. E anzi, nel DEF viene stabilito che da quest’anno i Comuni potranno decidere direttamente a chi affidare i contratti degli appalti di importo inferiore a 200 mila euro, senza dovere motivare la scelta presa. Un enorme regalo alle mafie.

Ne emerge un quadro chiaro di lotta generalizzata ai lavoratori e agli sfruttati in questo paese, che nulla ha a che fare con la questione dell’immigrazione, che diventa il grimaldello per giustificare un insieme di politiche antipopolari. Verranno alimentate sacche di lavoro nero e di manodopera per la criminalità organizzata, con un’ulteriore esasperazione della concorrenza a ribasso su diritti e salari dei lavoratori. Appare evidente la volontà da parte del Governo di portare avanti in maniera netta gli interessi di una borghesia che trae profitto da una guerra tra poveri più divampante che mai. Vengono individuati dei facili capri espiatori mentre vengono stroncate sul nascere tutte le possibilità di lotta. Si pongono inoltre le basi per interventi repressivi decisamente fini a sé stessi, ma dalla forte carica mediatica (basti pensare all’introduzione dei Taser in dotazione alle forze dell’ordine). Viene alimentato un immaginario da cui i lavoratori hanno soltanto da perdere.

È doveroso smascherare l’ipocrisia delle forze di governo che, con questo decreto, attaccano l’intera classe lavoratrice, mascherandosi dietro una falsa assimilazione tra immigrazione e sicurezza. Non vi è alcuna volontà di risolvere le cause che portano quotidianamente migliaia di persone disperate a scappare dalle proprie terre natali, depredate da guerre e sfruttamento economico totalmente funzionali ai monopoli italiani e internazionali. Mentre il Governo alza la voce contro qualche manciata di persone ferme in mezzo al mare su qualche barca e private di tutto, continua sul percorso dei governi precedenti, con il benestare dell’Unione Europea. Vengono aumentate le spese militari, che entro il 2024 saranno quasi raddoppiate e vengono confermate le missioni militari in Africa e Medio-Oriente (come quella in Niger, che ha avuto inizio a settembre e che era stata precedentemente approvata dal governo Gentiloni). Missioni che non faranno altro che alimentare flussi migratori e disperazione. Con questo decreto non si va in alcun modo a garantire sicurezza. Si mette in atto un’imponente sterilizzazione del conflitto, con una decisa stretta repressiva sulle lotte sociali da cui i lavoratori hanno soltanto da perdere.

Dinnanzi a logiche divisive è necessario andare oltre la propaganda del governo, disinnescando la narrazione della guerra tra poveri e comprendendo che l’unico cambiamento reale si potrà conseguire soltanto tramite l’unione delle istanze degli oppressi contro chi vorrebbe spogliarli di ogni diritto e trarre profitto dalla loro frammentazione.

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