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La rivolta e la lotta. Sulle proteste negli USA e i compiti dei comunisti

di Paolo Spena

Gli occhi di tutto il mondo sono puntati sugli Stati Uniti, nonostante il discreto impegno di certi media nostrani che per ragioni evidentemente politiche riescono nell’ardua impresa di dare una rilevanza notevolmente maggiore alle proteste di Hong Kong. La viralità del video che mostra la morte del 46enne afroamericano George Floyd e l’indignazione che ne è scaturita hanno infiammato un movimento di massa spontaneo che da Minneapolis si è esteso in pochi giorni a tutto il paese.

Si tratta di una protesta giusta, legittima. E non solo: quello che giorni fa poteva essere definito come un movimento di protesta, oggi assume i connotati di una vera e propria rivolta del proletariato urbano, proprio nel centro metropolitano dell’imperialismo. Basta guardare ciò che sta avvenendo. Proteste in più di 40 città in cui è stato imposto il coprifuoco con l’intervento della Guardia Nazionale; più di 10.000 persone arrestate, decine di feriti dalle forze di polizia che fanno ampio ricorso a gas lacrimogeni e proiettili di gomma. La risposta repressiva dello Stato ha alzato giorno per giorno l’asticella dello scontro. Donald Trump si è rivolto apertamente ai governatori dei vari Stati, accusandoli di essere troppo deboli e chiedendo di incrementare gli arresti e di intervenire per “ripristinare l’ordine”, invito che sembra già essere stato raccolto da gruppi di estrema destra e suprematisti bianchi sostenitori del Presidente. Pochi giorni fa, rifugiato nel bunker di sicurezza mentre la Casa Bianca era accerchiata dai manifestanti, Trump annunciava la messa al bando della rete “Antifa” e dichiarava che le proteste sono guidate da organizzazioni terroristiche. In parte è campagna elettorale, in parte si tratta di segnali inconfondibili dell’alto livello del conflitto in cui oggi versa il Paese.

Gli abusi di polizia negli Stati Uniti nei confronti degli afroamericani e la discriminazione razziale[1], mai davvero scomparsa dalla società americana, sono cosa nota da sempre. Ma sarebbe fortemente riduttivo pensare alle proteste di questi giorni come a un movimento semplicemente antirazzista. Dalle rivolte degli ultimi giorni emerge soprattutto un rifiuto politico del modello americano, dell’ingiustizia di quel modello di società. Il bersaglio delle proteste non sembra essere solo il governo Trump, ma l’intera impalcatura che ampi strati della società USA percepiscono come fortemente ingiusta. E infatti in tutte le città si vedono i manifestanti sventolare bandiere degli Stati Uniti capovolte.

La questione afroamericana negli USA, che oggi si estende anche agli ispanici, è da sempre intrecciata con il carattere classista della società americana. Gli abusi della polizia nei confronti degli afroamericani sono la ciliegina su un sistema profondamente ingiusto. Per citare alcuni dati, gli afroamericani sono il 13% della popolazione degli USA, ma possiedono l’1,5% della ricchezza. Un nucleo familiare bianco guadagna in media dieci volte di più di una famiglia nera e la disuguaglianza è fortemente cresciuta durante la crisi di 10 anni fa (prima della crisi la proporzione era uno a sette). L’emergenza sanitaria da Covid-19 si è abbattuta in proporzioni notevolmente maggiori proprio sugli afroamericani, in un paese privo di un vero servizio sanitario pubblico, che non considera la salute un diritto rendendola accessibile solo a chi può permettersela. Tutte le statistiche hanno evidenziato una tendenza: i malati e soprattutto i morti da Covid sono afroamericani. Secondo i dati del Washington Post e del New York Times, nelle contee a maggioranza di afroamericani ci sono il triplo dei contagi e sei volte i morti. A New York i principali focolai di epidemia sono nei quartieri popolari: Bronx, Brooklyn, Queens. I dati dei singoli stati rendono ancora più chiara la situazione: In Michigan gli afroamericani sono il 14% della popolazione, ma rappresentano il 40% dei morti da Covid. In Louisiana il 70% dei morti per Covid è afroamericano, ma i neri sono solo il 32% della popolazione. Questo accade perché le comunità nere, essendo le più povere, hanno minor accesso alle cure non potendo permettersi di pagarle e quindi presentano patologie pregresse con maggiore frequenza, che incrementano la mortalità. In molti lavorano sottopagati e sfruttati proprio in quei settori essenziali su cui non si abbattono le misure di lockdown e sono quindi più esposti ai contagi. Tutto questo avviene a rincarare la dose in un contesto, quello dell’emergenza sanitaria, in cui migliaia di persone si vedono private del proprio reddito, perdono il lavoro, non hanno accesso all’assistenza medica.

L’uccisione di George Floyd ha fatto da detonatore affinché l’esasperazione delle classi popolari si tramutasse in rivolta. Una rivolta di classe, perché chi vive nei quartieri afroamericani è un proletario, e sono i proletari a essere colpiti dalla discriminazione razziale. È contro questa esasperazione che oggi negli USA vengono mobilitate la polizia, la Guardia Nazionale e si discute dell’opportunità di utilizzare persino l’esercito per reprimere le proteste. È una risposta tutt’altro che atipica per gli Stati Uniti: un paese che conta il 6% della popolazione mondiale, e che al contempo vanta il 25% della popolazione carceraria di tutto il mondo.

Ogni riflessione sulle violenze, sui commissariati di polizia dati alle fiamme, sulle vetrine distrutte o sugli episodi di saccheggio, deve muovere i passi a partire da questo contesto, perché sono fenomeni tipici di un contesto di rivolta come quello in corso, hanno a che vedere con l’effettiva partecipazione di massa alle proteste che vanno avanti ormai da più di una settimana. Questo al netto delle denunce di infiltrazioni di poliziotti e provocatori da parte degli stessi manifestanti. I discorsi da anime belle sulla violenza che chiama altra violenza, sul “c’è modo e modo di manifestare”, lasciano davvero il tempo che trovano quando si è davanti a un movimento di massa reale che punta il dito contro il potere delle classi dominanti. È un contesto che presuppone fisiologicamente, per sua stessa definizione, la presenza di violenza, che arriva innanzitutto da parte dello Stato. Chi si affretta a “condannare” le violenze dei manifestanti, vere o presunte, dimostra solo di preferire la violenza quotidiana dei padroni. Chi anche da “sinistra” prende le distanze dai saccheggi non si rende conto che non esiste nella storia una rivolta popolare senza episodi del genere, in cui l’esasperazione per le proprie condizioni di vita trova sfogo nell’atto di appropriarsi di beni e merci che normalmente non ci si potrebbe permettere per ragioni economiche. È un fenomeno spiegato dal contesto. Piuttosto, bisognerebbe interrogarsi su quali sono le ragioni per cui la rabbia delle classi popolari negli USA non trova uno sbocco più avanzato di questo. Quello che per i benpensanti e per i teorici dell’ordine e della disciplina basterebbe a condannare quel movimento, per i comunisti dovrebbe essere motivo di riflessione sull’insostituibilità dell’organizzazione e del Partito, perché in loro assenza anche le migliori energie rischiano di andare disperse.

Quali sono le prospettive?

Gli Stati Uniti sono un paese in cui l’insufficienza delle forze del movimento operaio e comunista emerge da tempo e molto più che in altri paesi. Lo storico CPUSA, partito dalla storia travagliata, sconta i limiti profondi dovuti a una direzione politica opportunista che lo ha condotto da anni a sostenere il Partito Democratico degli USA, anche e soprattutto elettoralmente. I comunisti negli USA operano in un contesto di debolezza e frammentazione, nell’assenza di un partito che possa esprimere oggi una reale alternativa politica e di lotta. Il sistema sindacale statunitense impone una struttura tutta su base aziendale nella totale assenza di contratti collettivi e quindi una enorme frammentazione delle organizzazioni dei lavoratori. Un quadro complessivo che condivide molti aspetti con altri paesi anglosassoni; su altri presenta proprie specificità, ma che si traduce nella marginalità della classe operaia nei processi politici e sociali negli USA.

Il movimento di questi giorni sconta innanzitutto queste insufficienze, di cui non hanno colpa i giovani che lo animano. È un grande movimento di protesta, una rivolta che certo vede protagonisti uomini e donne neri e non, lavoratori, precari, studenti, ma che non vede l’appoggio di un grande movimento operaio organizzato e capace anche di dare alle proteste uno sbocco di lotta politica più avanzata. Questo movimento negli USA non esiste, così come non esiste un partito comunista radicato e presente su tutto il territorio nazionale, nonostante alcune esperienze interessanti e importanti, ma ancora in una fase embrionale. Quello di questi giorni è un movimento animato da proletari, da lavoratori salariati, precari, disoccupati, che tuttavia non sono organizzati in quanto tali, e verrebbe da chiedersi se sono consapevoli di esserlo. Classe in sé o classe per sé, direbbe Marx.

Gli Stati Uniti non sono nuovi all’esplodere di questo genere di movimenti. Si può dire anzi che negli ultimi 10 anni ci sia stato più movimento di massa negli USA che in Italia. Ma avvengono in un contesto in cui mancano le forze capaci di indirizzare la rabbia e la ribellione nella direzione della lotta rivoluzionaria, della lotta contro il sistema imperialista di cui gli USA sono stati per anni il principale attore a livello globale.

Non si tratta, intendiamoci, di screditare un movimento per queste insufficienze. Chi pensa che il ruolo dei comunisti sia quello di pontificare alla finestra scomunicando ogni movimento di massa che non nasca per propria iniziativa, senza porsi il problema di che tipo di intervento si debba porre sul piano reale, del marxismo ha capito molto poco. Si tratta però di ricordare la lezione dei tanti movimenti visti negli ultimi decenni. Pensiamo a Occupy (nato proprio negli USA), agli Indignados e così via, che pure erano movimenti dai connotati maggiormente “politici” se confrontati con questo che esprime davvero i caratteri di una rivolta di popolo. Alla fascinazione irrazionale e romantica per i movimenti di protesta, bisognerebbe contrapporre piuttosto una riflessione matura su come debbano agire i comunisti.

In Italia i movimenti hanno dimostrato una cosa: senza un partito comunista e un movimento operaio organizzato, ma anche se i comunisti non si dimostrano politicamente all’altezza, un movimento di protesta spontaneo si può esaurire, o refluire lentamente, senza che vi sia stato alcun avanzamento per le forze di classe. Negli anni del G8 di Genova i due partiti comunisti presenti allora in Italia, Rifondazione e il Pdci, erano impegnati rispettivamente a teorizzare il movimento dei movimenti (una sorta di versione bertinottiana delle moltitudini di Toni Negri, che di fatto trascinò quel partito alla coda e non alla testa di quei movimenti) e a studiare per ogni regione l’alleanza migliore per ricavarne assessori ed eleggere consiglieri. Quel movimento, che poneva delle importanti questioni di fondo nell’opposizione al G8 e vedeva la partecipazione di ampi settori proletari e sindacali, si ritrovò privo di una direzione di avanguardia e di una reale prospettiva. Un quadro impietoso se osservato oggi a posteriori, che ci ricorda che non basta di per sé che esistano dei partiti comunisti, ma serve anche che si pongano gli obiettivi giusti.

Discorso a parte vale per le singole giornate di protesta sfociate in scontri campali con la polizia, che si lega alle riflessioni sulle violenze. Sul tema specifico degli scontri di piazza sono importanti alcune precisazioni e può essere utile richiamare le recenti esperienze del nostro paese per chiarire alcuni aspetti. Una giornata che i meno giovani ricorderanno è quella del 14 dicembre 2010. Un grande movimento di massa, partecipato nonostante vedesse al centro perlopiù gli studenti (a differenza del movimento contro il G8 di Genova che vedeva una partecipazione di massa più ampia), culminava in quella giornata che vide l’esplodere dello scontro in strada dopo che alla Camera il governo Berlusconi non cadde per tre voti provenienti dal centro-sinistra. L’ultimo colpo di coda di quel movimento fu, a ben vedere, il 15 ottobre del 2011, dove già emergevano le contraddizioni di un conflitto di piazza sempre meno spontaneo e sempre più praticato su precisa scelta di singoli gruppi organizzati. Ma è forse il corteo del 1° Maggio 2015 a Milano che rese davvero doverosa una riflessione su come la mera simulazione di un conflitto che non corrisponde alla realtà della lotta di classe (che non può certo essere ridotta all’estetica dello scontro con la polizia) rischi persino di essere controproducente e di prestare il fianco alla reazione e alla repressione. Ecco, quando si parla di violenze e scontri che hanno luogo durante una protesta, dovrebbe essere questo il principale discriminante per i comunisti. Non appartiene ai comunisti la condanna degli episodi di violenza spontanei e tipici di un movimento di massa, tantomeno la condanna della violenza in generale in nome di quel “pacifismo” che vorrebbe il disarmo unilaterale degli oppressi. È del tutto legittimo e doveroso, invece, criticare la tattica politica di certi gruppi minoritari che prevede la simulazione di quella violenza anche quando il movimento di massa reale non esiste o non esprime posizioni avanzate, per le ragioni di cui sopra. Nel caso della rivolta in corso negli Stati Uniti, sembra però che ci si trovi più nel primo caso che nel secondo.

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Il tentativo di “assorbire” la protesta e i compiti dei comunisti

Quando un movimento nasce e si sviluppa al di fuori del movimento operaio organizzato, ma soprattutto quando manca un’avanguardia politica di classe capace di assumerne la direzione, è fisiologico che questo movimento esprima concezioni arretrate, e che soprattutto si pongano le condizioni per cui possa venire assorbito dalle forze politiche borghesi.

È notizia recente l’annuncio della partecipazione ai funerali di George Floyd di Joe Biden, candidato dei democratici alle elezioni presidenziali degli USA. Una logica da campagna elettorale che cerca di tramutare in consenso politico la rabbia che sta mettendo a ferro e fuoco gli Stati Uniti, senza alcuna forma di discontinuità politica reale. Basti pensare che il candidato democratico, persino in una situazione simile, non si è spinto molto più in là rispetto all’affermare la necessità di insegnare alla polizia a “sparare alle gambe invece che al cuore”.  E al di là di Biden, tutti gli apparati politici, mediatici, culturali, e persino economici stanno già operando per “normalizzare” la protesta. Le grandi imprese si affannano a prendere parte per i manifestanti, per molti grandi monopoli #BlackLivesMatter è già diventato una campagna di marketing, in modo molto simile a ciò che avviene annualmente nel mese dei Pride (che la “normalizzazione” l’hanno vista già da un bel po’), in cui anche le grandi imprese si tingono di arcobaleno.

Già da tempo sul movimento del Black Lives Matter si allungano le mani di quei settori “di sinistra” del Partito Democratico degli USA, da Bernie Sanders ad Alexandria Ocasio-Cortez, che più che rappresentare una reale alternativa di lotta capace di scardinare il sistema bipartitico americano, stanno svolgendo con successo la funzione proprio di riassorbire nel recinto di quel sistema anche gli elementi di protesta più radicali che emergono dalla società americana. Una funzione simile a quella svolta in tutta Europa dai partiti della Sinistra Europea rispetto ai movimenti contro l’austerità. Le esperienze di governo o di sostegno ai governi borghesi della Sinistra Europea in paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo hanno pienamente dimostrato la funzione storica di quelle forze che oggi sono pienamente integrate nel sistema politico borghese (Syriza, Podemos, Bloco de Esquerda…), per buona pace di chi in Italia ancora pensa di percorrere quella strada fuori tempo massimo. La “sinistra” del Partito Democratico USA non esprime nulla di qualitativamente diverso da queste esperienze, e riesce ad essere più arretrata anche sul piano politico.

I comunisti degli USA operano in un contesto difficile, ma anche in un momento storico in cui – è dato ormai noto – tra le giovani generazioni americane si fa strada un’idea di riabilitazione del “socialismo” (concepito certo in modo confuso) come non avveniva dai tempi delle contestazioni contro la guerra in Vietnam. Questo sentimento, certo confuso e contraddittorio, ma che resta indicativo, oggi viene intercettato dalla sinistra dei democratici, che ripropone il progetto di una socialdemocrazia di stampo “tradizionale” contrapposto alla natura sostanzialmente liberale di quel partito.

Certo, il bipartitismo di quel sistema, con le primarie dei due partiti ormai saldate come processi istituzionali a tutti gli effetti (e non solo partitici), ha un peso notevole. Chiedersi se il sistema bipartitico nei paesi anglosassoni sia il prodotto della marginalità dei comunisti nello scenario politico o se sia piuttosto l’opposto è un po’ come la storia dell’uovo e della gallina. Se una cosa è certa, è che quel meccanismo può essere scardinato solo dalla forza materiale dei lavoratori e dei proletari organizzati; che costruire questa forza è tanto più necessario in un paese come gli USA in cui il sistema elettorale priva i comunisti anche della stessa illusione parlamentarista e della possibilità di costruire il partito come partito di consenso politico/elettorale slegato dalla classe operaia.

Sarebbe un grande errore, invece, coltivare l’illusione che quelle forme di spontaneità possano di per sé sfociare in un reale cambiamento di sistema, e che in questo possano sostituire l’organizzazione. La storia dimostra che quando manca un riferimento politico, anche i movimenti di massa più estesi possono rifluire e lasciare il posto al ritorno dell’oppressione ordinaria, o addirittura a risposte di carattere reazionario. Le immagini della Casa Bianca accerchiata dai manifestanti sono un segnale importante, ma non ci si può illudere che la Casa Bianca “si conquisti da sola”, senza una forza organizzata delle classi oppresse capace di guidarne l’assalto come si fece col Palazzo d’Inverno.

Compito dei comunisti sarebbe innanzitutto quello di non arrivare impreparati. Le vicende recenti, non solo negli USA ma anche in Francia, ci ricordano costantemente che la possibilità dell’esplosione di movimenti di lotta e di protesta esiste anche al di fuori delle previsioni delle forze di classe organizzate. Quando questo avviene, si rischia di perdere il treno della storia. L’errore più grande, in una situazione del genere che ben conosciamo in Italia, sarebbe quello di restare alla finestra lanciando anatemi, incolpando le masse di essere arretrate, incolpando il movimento dei suoi stessi limiti derivanti innanzitutto dall’impreparazione di chi dovrebbe porsi alla guida delle masse. Una condotta come questa ha come unico risultato quello di facilitare l’assorbimento di un movimento di questo tipo da parte dell’apparato politico borghese, senza che l’egemonia della classe dominante sulla società nel suo complesso venga scalfita di un millimetro.

L’esperienza del movimento operaio ci insegna che i comunisti possono e devono muoversi come i pesci nell’acqua. Che anche piccoli gruppi organizzati, come sono oggi i comunisti più conseguenti negli USA che lottano per la ricostruzione di un partito rivoluzionario, possono agire nel contesto di un movimento di massa, conquistare posizioni e prestigio seppur in settori inizialmente delimitati; possono porre ai settori più avanzati e coscienti di quel movimento la necessità dell’organizzazione, assorbirne la parte più combattiva che non ha intenzione di restare ad assistere al reflusso di un movimento di lotta che ha contribuito ad animare. Tutta la nostra storia è colma di episodi che ci ricordano una lezione: non esistono condizioni che, per quanto sfavorevoli possano essere, giustifichino l’abbandono della lotta. Anche quando tutto sembra perduto, diceva Gramsci, l’importate è rimettersi tranquillamente all’opera.

Alla rabbia, alla volontà di cambiamento di milioni di proletari negli USA che oggi puntano il dito contro l’ingiustizia, bisogna offrire una forza capace di conquistare davvero una società diversa. Questa forza è il partito comunista. La lotta per organizzare e rafforzare questo partito, negli USA come in tutti i paesi, resta la più grande speranza di cambiamento per una generazione che non vuole chinare la testa dinanzi alla nuova crisi del capitale.

[1] Si conceda l’uso del termine “razza” nella sua accezione sociale e non biologica, che del resto da sempre appartiene ai movimenti afroamericani.

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